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"Persone
dentro e volontari fuori"
Mauro Palma (Rappresentante italiano del C.P.T.)
Io rappresento l’Italia nel Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. Una breve premessa per dire che cosa è e cosa fa il Comitato. Il Comitato è composto dai rappresentanti dei 41 paesi del Consiglio d’Europa. È tenuto insieme da una Convenzione del 1987, che deve controllare le situazioni di vita, a tutela dei diritti, in tutti i luoghi dove è privata la libertà. Quindi negli Istituti penitenziari, nelle Stazioni di polizia, nei Campi per immigrati. Nel nostro paese, tranne quelli giudiziari, non ci sono i manicomi per lunga degenza con ricovero coatto. Negli altri paesi controlliamo anche gli ospedali psichiatrici. Partirei, quindi, proprio da questo mio punto di osservazione, pur essendo una persona che da vari decenni, attraverso l’associazione "Antigone", osserva il carcere. Da questa osservazione, non solo italiana, ma d’ambito europeo, rileviamo un problema sul quale dobbiamo interrogarci: la crescente complessità del sistema della detenzione. Perché parlo di "crescente complessità"? Perché è un sistema che aumenta in numeri: al primo gennaio 1990, avevamo poco meno di 30 mila detenuti e tremila persone nell’area penale esterna, cioè in articolo 21 e in misura alternativa. Oggi abbiamo 57 mila detenuti e 30 mila persone nell’area penale esterna. Osservo sempre che, oltre ad aumentare il numero, le misure alternative non sono andate a riduzione della situazione detentiva, ma hanno creato un’altra area, a fianco di questa. Allora, la prima complessità crescente è nell’estensione numerica. La seconda complessità si ha, invece, nella tipologia delle persone. Noi abbiamo una crescita di figure socialmente marginalizzate: tutti voi ricorderete gli articoli che, più volte, venivano pubblicati nello scorso anno da Giancarlo Caselli, rispetto al tipo di presenza sociale che si andava accentuando nel carcere, con immagini anche, come dire, "di colore". Noi abbiamo una forte presenza di soggetti marginali (che sono già marginali prima dell’ingresso in carcere e che vivono una marginalità anche successivamente), rispetto ai quali la funzione rieducativa, a volte, è soltanto enunciata. Perché io mi chiedo: quando per un immigrato, al termine del percorso di rieducazione, c’è l’espulsione, qual è stata la funzione di quella rieducazione? E ricordiamo bene l’articolo 27 della Costituzione e poi la legge del ‘75: non parlano tanto di una rieducazione etica, ma di una rieducazione sociale, di un reinserimento sociale. Qual è il senso di quella rieducazione, se io al termine del percorso espello le persone? Abbiamo un sistema che, in tutta Europa (perché non è solo un fatto italiano) si estende e si complica. Si estende numericamente e si complica come figure presenti al proprio interno. Questa situazione, secondo me, apre a tre livelli di domande, che ci possiamo fare e ci dobbiamo fare. La prima domanda la cito soltanto ma sarebbe, essa stessa, oggetto di un convegno: quale affidamento queste società fanno sul sistema penale? Cioè, se cresce quest’area, che cosa del nostro vivere sociale stiamo affidando al sistema penale? Il sistema penale è una risorsa estrema, costosa, che dovrebbe in qualche modo sussidiare ad altre forme di intervento, mentre noi vediamo (da questi numeri e da questa estensione) che stiamo affidando al sistema penale ogni contraddizione che non risolviamo in altri termini e in altri modi nel territorio. La citava Ciotti, la Commissione Grosso, e anch’io mi auguro che si proceda su quella linea, ma ho paura che ciò non avvenga. Mi auguro che si proceda su una linea di restringimento dell’area della detenzione, di forme alternative della pena già in sentenza. Il secondo ordine di riflessione è che un sistema detentivo così affollato e così "stressato", come soggetti che include, si espone automaticamente a rischi di non tutela della dignità della persona e di non tutela dei diritti fondamentali. E, qui, vorrei essere chiaro. Quando noi diciamo che siamo un Comitato che controlla la tutela dei diritti fondamentali, che non ci siano trattamenti inumani e degradanti, non necessariamente intendiamo che ci sia una volontà, da parte dei soggetti che hanno responsabilità, a infliggere maltrattamenti. Cioè che il maltrattamento sia qualcosa che proviene sempre da un atto volontario di chi ha la responsabilità delle persone. A volte, la situazione di maltrattamento, le condizioni carcerarie inumane e degradanti, vengono da un insieme di circostanze, che vanno dal sovraffollamento, all’incapacità ad affrontare alcune contraddizioni, tipo presenza di un alto numero di tossicodipendenti: situazioni, diciamo, di stress a cui sono sottoposti gli operatori; situazioni che, senza la volontà esplicita di nessun singolo, si configurano come situazioni non tutelanti la dignità della persona. Il terzo meccanismo di riflessione è quello di capire un sistema così modificato, così esteso, in cui forte è la presenza di persone appartenenti a diverse culture, che quindi richiederebbero altre forme di attenzione, e dove forte è la presenza di persone che provengono dalla marginalità sociale. Questo sistema può essere affrontato con quelle figure professionali indicate nella legge del 1975, cioè gli educatori, gli assistenti sociali, i direttori, o quelle figure professionali erano state definite per un altro tipo di carcere, per un altro tipo di situazione detentiva? Non dobbiamo, oggi, pensare anche a figure professionali nuove? Penso ai mediatori culturali, ad esempio, penso a persone che sappiano le lingue all’interno, su cui credo ci si sta anche interessando. Però, diciamo, c’è una capacità di evolvere le professionalità? Qui, allora, arrivo al punto dolente, in cui non vorrei toccare qualche nervo scoperto. Io non sono contento quando sento dire, anche esplicitamente, che il volontariato ha funzioni di supplenza. E vorrei ricordare che la funzione trattamentale è un compito dell’amministrazione penitenziaria. Questo lo dico per chiarezza nel richiamare l’amministrazione alle sue responsabilità e anche nel richiamare il volontariato ai suoi compiti. Nel senso che il compito suppletivo, oltre ad essere improprio, in qualche modo deresponsabilizza l’amministrazione, si presta anche, in un certo senso, ad una possibilità di non regolazione complessiva, si presta alla possibilità dei 130 Istituti dove magari ci sono iniziative e poi, diceva Livio Ferrari, dei 76 dove sono inesistenti. Il volontariato ha compiti essenziali nella funzione trattamentale, ma questa funzione deve essere assolta dall’amministrazione penitenziaria. La seconda questione, che viene di conseguenza dal tema di oggi: qual è, allora, l’occhio del volontariato più utile? Il volontariato, teniamolo presente, è un grande tesoro che ha il sistema penitenziario italiano: io vedo altri Istituti, in altri paesi d’Europa, dove manca questo apporto… ma qual è il valore forte, secondo me? Il valore forte è proprio verso l’esterno. Vedete, in questa società noi abbiamo una necessità fortissima di costruire luoghi comuni più alti attorno anche al carcere (come attorno anche ad altri temi) di fare conoscere delle situazioni, cioè di creare un supporto osmotico tra l’interno e l’esterno. Questo rapporto va in qualche modo perseguito, agito, e il volontariato ha un compito fondamentale: far conoscere il carcere, agire nel sociale, dare anche la parola ai soggetti detenuti, proprio perché abbiano accesso all’esterno. Non tanto, quindi, il richiudersi soltanto nell’assunzione impropria di una funzione trattamentale ad personam, rispetto al detenuto con cui entro in contatto. Deve fare riflettere (lo dico in termini anche autocritici) il fatto che, sui 55 Centri di Servizio Sociale dell’Amministrazione Penitenziaria, in totale, ci sono solo 35 volontari, sugli oltre 6.500 che girano per il carcere. Voglio essere proprio brutale e cattivo: dietro questo atteggiamento non c’è forse il gusto, come dire, di redimere qualcuno? Non c’è dietro un desiderio di entrare all’interno del carcere, di avere un contatto diretto con questa realtà e, magari, non assumersi quei compiti un po’ più oscuri? Guardate, ve lo dice una persona che viene dal volontariato, quindi prendetela bene, ma 35 volontari, per 35 mila persone dell’area penale esterna, sono davvero pochi, mentre invece c’è la tendenza ad andare di più negli istituti e magari a pensarsi più educatori, a pensarsi più operatori degli operatori, e via dicendo. Attenzione, il volontariato serve, è una leva decisiva, però secondo me lo sarà sempre di più quanto più avrà anche la capacità di essere di stimolo all’interno, rispetto alle professioni esistenti: le deve stimolare, far agire, far operare. E deve fare, comunque, comunicazione all’esterno, rivolgendosi a quella società che, in qualche modo, rifà trovare a chi esce le stesse condizioni di quando è entrato e che è, essa stessa, causa della recidiva. Un volontariato ristretto dentro al carcere, non operante nel tessuto sociale, è anch’esso (in un certo senso), una pedina di un sistema che riproduce sempre se stesso. Il rischio attuale è che il carcere torni ad essere opaco ed ecco, appunto, che il rapporto con l’esterno è una funzione importante. Guardate, il carcere in Italia ha trovato periodi di riforme dichiarate e poi non attuate: ce lo ricordava poc’anzi Emilio Di Somma. Ha trovato periodi di iniziative portate avanti e periodi in cui si è molto tornati indietro, ma ha anche trovato periodi in cui, del carcere, non se n’è parlato per niente. Io ricordo di alcune direzioni generali, negli anni passati, nelle quali non si sapeva neanche chi fosse il direttore generale, nelle quali non si sapeva cosa avveniva: il carcere era un mondo opaco. C’è stato un periodo, nella prima metà degli anni ‘90, in cui il carcere è stato abbastanza opaco. Io non vorrei che, nella situazione attuale, si tornasse ad una nuova opacità del carcere: ne vedo tutti i segnali, ne vedo i segnali in una scarsa volontà di ritenerlo un problema essenziale, ne vedo i segnali, se volete, nello scarso rapporto che, per ora, su questi temi si è riusciti a stabilire con l’autorità politica responsabile. Non vorrei che andassimo verso un periodo in cui, del carcere, nuovamente si sa poco. Non è sui giornali, non viene fuori. Il 2000 è stato un anno di forte presenza sui giornali. È vero, ce lo ha ricordato Ciotti prima, che non si è arrivati ad un provvedimento di indulto, però del carcere in qualche modo si è parlato, il carcere è venuto fuori, ha "bucato" l’informazione. Adesso, ho la sensazione invece che del carcere si ritorni a non parlare, si ritorni ad affermare soltanto che si sta dalla parte di "Abele". Beh, chi afferma che sta dalla parte di Abele (come ho letto in un’intervista recente del Ministro della Giustizia), o dice una cosa che è ovvia, perché tutti noi vorremmo stare dalla parte di Abele, o dice una cosa in qualche modo molto parziale e molto rischiosa. Perché diventa molto semplice stare dalla parte dove non c’è la contraddizione, in questo e in altri problemi, ma forse l’impegno sociale e anche, direi, l’impegno politico in senso alto è stare proprio dalla parte dove ci sono le contraddizioni, dove si richiede un intervento più preciso.
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