|
"Persone
dentro e volontari fuori"
Livio Ferrari (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia)
Prima
di tutto devo ringraziare il direttore Carmelo Cantone perché, da quando c’è
lui, in questo istituto sono cambiate molte cose per quelli che lo frequentano.
Siamo felici dell’invito del Centro di Documentazione Due Palazzi, che ci ha
coinvolto in questa iniziativa, e ringraziamo anche gli amici del D.A.P.,
attraverso il dottor Di Somma, che è qui presente. La
maggior parte di voi è da anni impegnata in questo mondo. Molti hanno speso
anni e anni della propria vita per entrare in questi luoghi e, se oggi siamo in
tanti, lo si deve anche a voi, soprattutto. Ho
molte cose, certamente, da raccontarvi, che non possono diventare ovvie, perché
voi mi insegnate la fatica, la difficoltà di un mondo troppo spesso lontano, di
un mondo emarginato, checché se ne dica, pur parlandone sempre di più,
soprattutto sull’onda lunga del Giubileo, un’onda che adesso si è un po’
rallentata: del carcere si è parlato molto, soprattutto lo scorso anno. Nonostante
tutto questo, però, il carcere rimane un luogo separato, rimane “altro” dal
territorio e, questo, lo dico soprattutto per gli amministratori degli enti
locali: aldilà di alcune situazioni particolari, di alcuni casi sporadici, il
carcere è sempre un luogo a cui destinare piccoli investimenti, un luogo dove
non c’è investimento da parte del territorio. Allora
abbiamo voluto fare una cosa: visto che oggi parliamo di volontariato, parliamo
di comunicazione, abbiamo voluto contarci, per contare un po’ di più, per
capire veramente chi siamo, perché in questi anni molte statistiche hanno
“dato dei numeri”, nel vero senso della parola. Abbiamo
voluto veramente, con l’aiuto dei vari Provveditorati regionali sparsi in
tutta Italia, del Dipartimento e degli Istituti, capire chi siamo. L’analisi
precisa, certamente con uno scarto che può essere dell’1 – 2 %, dice che in
Italia, tutte le settimane, nelle carceri entrano 6.500 volontari,
continuativamente, perché in questo numero non ci sono le altre 4 – 5 mila
persone che, a diverso titolo, entrano in carcere durante l’anno: per qualche
spettacolo teatrale, per una partita di calcio, etc., etc. Perciò
siamo 6.500 persone, un numero consistente, un numero probabilmente più grande
di quello che molti di noi pensavano. Però non dobbiamo farci trarre in inganno
da questi dati, perché in Italia sono attualmente funzionanti 206 Istituti
(questo, almeno, è il numero che abbiamo rilevato) e, su 206 Istituti, ce ne
sono 76 (che non è un numero basso) in cui il volontariato è praticamente
assente, o inesistente. Perché
non c’è, o c’è poco e niente? Perché è osteggiato, come succede in
alcuni casi: non solo al sud, badate bene, ma anche nel nostro civilissimo nord
industrializzato; o perché il territorio è assente, o perché fa fatica, o
perché c’è paura. Perché certamente non è la stessa cosa fare volontariato
a Padova o farlo a Palmi, o a Reggio Calabria, o farlo in altre località dove
la vita già tutti i giorni è più faticosa. In
questa elaborazione di dati, poi, il volontariato si mischia spesso anche al
privato sociale, alle cooperative. Ci sono alcuni dati che ci indicano anche da
chi è composto il volontariato penitenziario: in questi anni si è ridotta
sempre di più, praticamente sta scomparendo, la figura del volontario singolo e
sempre maggiore è il volontariato organizzato, e questo è un segnale positivo,
perché allora abbiamo un volontariato che vuole darsi dei mezzi, che vuole
darsi della formazione. Io
ho una mia idea in proposito, suffragata dall’esperienza di questi anni, che
dove il volontariato manca, perché “osteggiato”, o comunque dove non c’è
una cultura di attenzione da parte di alcuni soggetti istituzionali, molto
spesso la colpa non è soltanto di questi soggetti, ma anche di un volontariato
che non è capace di rappresentarsi, che non ha una cultura e una formazione
tale perché possa rappresentarsi. C’è
anche da dire, però, che a volte siamo di fronte all’autarchia, dello Stato,
di alcuni direttori. Il nostro Provveditore regionale, pur da pochi mesi qui nel
Veneto, sa di alcuni casi, anche da noi, dove c’è la difficoltà, alle volte,
di far comprendere quanto sia importante la presenza del volontariato per creare
condizioni di vivibilità, per portare aria di vita, non l’aria di morte che
si respira spesso nelle carceri. Francesco,
che prima mi ha preceduto, vi ha già detto una cosa sulla quale riflettere: il
dato che salta agli occhi è che in Italia, su 55 Centri di Servizio Sociale, ci
sono solo 35 volontari. Allora, uno si chiede come mai, da cosa nasce questa
distanza? I Centri di Servizio Sociale servono proprio per il reinserimento,
servono come presenza della comunità esterna che lavora per creare le basi per
cui la persona non abbia più problemi di recidiva. Perché c’è questo
fallimento? Io
ho una mia idea. Il fallimento più totale, in questi casi, avviene nei Centri
di Servizio Sociale del Sud, dove non c’è neppure un volontario. Ce ne sono
20, su 19 Centri al Nord; 10 volontari su 14 Centri al centro Italia; nessuno
nei 12 Centri del Sud e 5 nei 10 Centri delle isole. È un dato emblematico, sul
quale dobbiamo riflettere, da non prendere così alla leggera. C’è
ora una necessità, amici miei: tutti quanti dobbiamo fare un passo in avanti,
forte, veloce; un passaggio culturale forte, come volontari, perché il nostro
compito lo stiamo facendo ancora con dei mezzi impropri, in una modalità
assistenzialistica, non in una modalità che incide sull’emarginazione e crea
progetti e strade per uscire da questa emarginazione. Molto
spesso, nel nostro atteggiamento di generosità, d’impegno, di qualità, non
ci accorgiamo che siamo anche noi un anello di una macchina di emarginazione.
Spesso non ce ne rendiamo conto. È una riflessione forte, dura, ma dobbiamo
guardarci bene in faccia, rispetto a quello che facciamo. In
ogni caso, chiunque di noi deve avere anche un senso pratico nell’informazione
sui problemi del carcere, perché c’è il rischio, anche qui, parlando di
carcere, parlando da addetti ai lavori, di dare il senso della normalità e il
carcere non è un luogo normale! Non
possiamo continuare a parlarne come sia un luogo normale. Possiamo portarci
dentro tutte le televisioni, tutta la gente di questa terra, ma queste sbarre
che lo dividono dalla società non possono farne un luogo normale. E
poi tutti i problemi che ci sono dietro, come il rapporto con le vittime, di cui
si parla un po’ di più in questi anni ma che è ancora lontano dal divenire
un rapporto vero, reale, sentito. Perché c’è chi ha fatto del male ma c’è
chi l’ha subito, ricordiamocene. E c’è chi, dopo averlo fatto, subisce a
sua volta del male. Allora,
non possiamo far finta che tutto questo sia normale, non possiamo far finta che
sia un carcere normale quello che pagano le donne, in un carcere costruito al
maschile, con una legislazione che è ancora “occhio per occhio, dente per
dente”, che rispetto alla gravità del reato impone una gravità di pena,
senza nessuna restituzione, senza nessuna riconciliazione. L’altro
dato forte, emerso da quello che diceva Francesco prima, è la recidiva: se
nelle nostre case abbiamo qualcosa che non funziona cerchiamo di cambiarlo,
perché questo è intelligente e umano. In
molti posti (e il carcere è uno di questi), pur non funzionando le cose, pur
essendoci dei dati drammatici che parlano di autolesionismo, di suicidi, di
salute che non c’è più (l’Associazione Nazionale Medici Penitenziari dice
che l’80% delle persone, entrate in carcere sane, esce malato), non si sta
facendo assolutamente nulla per cambiare. Pochi
anni fa, quando era Direttore Generale il dottor Margara, sul giornale
“Repubblica” (che è uno dei quotidiani più letti, che fa opinione) c’era
un articolo di grande allarme: “Attenzione, ci sono quasi 49.000 detenuti!
Le carceri scoppiano!”. Sono
passati tre anni, ce ne sono oltre 58.000, che è un dato oltremodo drammatico,
e nessuno ne parla più. Non si sente, in questo momento, nessun progetto
politico che parli di carcere. Si è pensato di riportare i soldi dall’estero,
i soldi di quelli che li hanno truffati prima, e quello è stato fatto subito,
perché era un emergenza… Ma
ci stiamo prendendo in giro? Dov’era l’emergenza?! Qual era l’emergenza?
Probabilmente qualcuno ha pensato bene che in questo carcere non voleva venirci,
allora si è parato il fondoschiena. Questo, sicuramente… ma questi sono gli
atteggiamenti politici di questi giorni, nella nostra nazione. Allora,
con tutto il rispetto dovuto a chi lavora, a chi s’impegna politicamente e in
ogni ambito nel nostro territorio, noi non dobbiamo rimanere lì a fare le
formichine, non guardando più in là del nostro naso, ma dobbiamo affermare
quei diritti che sono di ogni essere umano, che sia o no rinchiuso in una
gabbia. Poi
ogni giorno noi ci rinchiudiamo nelle nostre case in gabbie mentali, nel
“Grande fratello” e in mille altre gabbie: quelle ce le facciamo da soli,
senza nessun giudice che ce le commini, perciò a volte certe gabbie non sono
così drammatiche come sembrano. Chiudo
il mio intervento, perché non voglio esagerare, ma mi piacerebbe parlare anche
di cose che riguardano l’informazione corretta che è la richiesta del Centro
di Documentazione Due Palazzi, ma che è la richiesta di tutto questo mondo
carcerato, perché non deve essere solo il volontariato a portare fuori le idee:
come diceva Ornella prima, i detenuti vogliono essere persone che hanno il
diritto di dire quello che pensano. Solo
per il fatto che stanno pagando una pena per un reato commesso, per un errore
fatto, non possono essere penalizzate anche nel diritto di dire quello che
pensano. Non ci debbono essere cittadini di serie A e cittadini di serie B, ci
devono essere cittadini in cammino, ognuno con la propria fatica, ognuno con i
propri sbagli, ognuno con le proprie qualità. Però, tutti insieme, per portare avanti quel cammino in cui crediamo e che fa sì che un nome come quello della nostra Associazione sia ancora un termine che abbia un significato, perché quello che sta succedendo in questi giorni mi fa pensare che tra poco sarà un termine desueto, sarà accantonato dal nostro vocabolario. Allora mettiamoci al lavoro perché abbia ancora un senso, per tutti noi, parlare di giustizia. Grazie.
|