Giuseppe Vaccari

 

Giuseppe Vaccari

 

Partecipo a questa sessione perché mi occupo di tossicodipendenza da diversi anni, ma soprattutto perché ho recentemente lavorato nella Commissione nazionale di valutazione dei progetti del Ministero del welfare, in particolare per i progetti di prevenzione, prima che con il cambio del Governo subentrassero altre persone.

A proposito dell’intervento di Riccardo Grassi dello IARD, credo che vi sia da fare una prima riflessione complessiva: se le risorse sono poche vanno utilizzate al meglio. Non è vero che non sono arrivate risorse alla prevenzione. Da quando c’è la legge del ‘90, sia nella prima fase di finanziamento di progetti, sia poi dopo la 45, sono stati stanziati svariati miliardi. Distribuiti però in modo sbagliato, perché si è puntato troppo su progetti episodici, straordinari, mega progetti nazionali che però quasi mai avevano radici forti, ben consolidate, concrete nel territorio, nella realtà dove vivono i giovani. Quindi si traducevano quasi sempre in progetti solo di studio, di ricerca, di analisi. Ben vengano - io sono sociologo, figuriamoci se vado a demonizzare il mio lavoro - ma cosa ne esce? Esce il profilo medio del giovane italiano o del giovane europeo, con degli elementi interessanti, ovviamente, delle costanti, degli elementi di cambiamento, dei trend e cosi via. Chi però lavora quotidianamente nella prevenzione sa che c’è una specie di frattura: c’è l’analisi, lo studio, che quando però sono calati in una realtà concreta, un quartiere, un contesto particolari, spesso non mi tornano utili.

Perché (questo è il primo punto che vorrei rimarcare) le analisi ci danno dei trend e servono a capire solo le macropolitiche, lo rispetto la riflessione che faceva Riccardo Grassi sulla contiguità: mi interessa, mi aiuta, mi rinforza. Quante volte abbiamo detto di non fare delle prevenzioni un fatto straordinario, emergenziale, ma di far si che nelle politiche locali, nell’attività educativa, nell’attività delle associazioni venga promosso quello che c’è di positivo nei giovani! Questo deve diventare qualcosa di routinario, di normale, che non deve far discutere una giunta tutte le volte che c’è da approvare un bilancio sul "mettiamo .5 lire in più o in meno", ma i progetti devono essere di lungo respiro, di lunghissimo respiro. La contiguità è un valore talmente alto che non si può parlare più di "gruppi a rischio" ma di "giovani". C’è un altro elemento che colgo come interessante: è necessario un picco di contiguità, si diceva, tra i 15 e i 20 anni. E guarda caso molte delle nostre attività, molte delle nostre attenzioni si accentrano su questa fascia di età. Perché? Perché è la fascia di età che esce dalla protezione della famiglia, che ha più libertà in termini di spazi, di tempo e quindi più voglia di provare a fare qualcosa, ma anche maggiori difficoltà nell’esprimere quello che vuole. Fa fatica a dare contorni ai propri desideri e ai propri sogni: ci sono, ma sono sfumati, sempre parziali. E quindi i giovani di questa fascia di età appaiono confusi, sembrano non sapere quello che vogliono, e si cerca di conseguenza di imporre loro dei modelli. Mi interessa allora tenere queste riflessioni di Riccardo Grassi perché mi aiutano a sottolineare una mia convinzione: la prevenzione è qualcosa che deve riguardare l’insieme della condizione giovanile. Ma le cose che spesso dicevo all’allora ministro Turco c’era che le campagne informative nazionali mi lasciavano perplesso, perché - anche se costruite bene, anche se fatte dalla migliore agenzia pubblicitaria italiana difficilmente erano adatte ai ragazzi dell’Alto Adige come a quelli della Sicilia che hanno storie di vita, condizioni sociali, economiche, aggregative totalmente diverse.

Questo è un po’ il filo conduttore per riflettere e per proporre, per progettare, per andare avanti. Vi rimando e rispondo alle analisi e ai sogni di Corrado Conte perché credo abbiano individuato il terreno giusto: la progettualità locale, un diverso atteggiamento di chi ha la responsabilità dei comuni, delle circoscrizioni, dell’associazionismo; non il mega associazionismo nazionale, ma l’associazionismo nelle sue espressioni locali, nell’ultimo dei club, delle sezioni, delle associazioni, di quelle realtà che operano sul territorio a contatto con una condizione giovanile che è mutevole, anche in una stessa città.

Ci ricordava appunto Grassi che i fattori di rischio sono: 15/20 anni – maschio – grande metropoli. Queste ultime non sono realtà virtuali, sono realtà concrete, sono luoghi. Canevaro ci ricordava il bisogno di contrastare la disgregazione rispetto all’appartenenza sociale: dobbiamo far fare esperienze in strutture alternative, esperienze di vita diverse. Forse questa struttura sociale violenta non è cosi intoccabile. Mi ha un po’ spaventato Riccardo Gatti, gliel’ho anche detto: "Riccardo, mi hai quasi dato l’idea che dietro ci sia il "grande vecchio" dello spaccio delle droghe". Se c’è davvero e ci condiziona cosi tanto che non sappiamo individuarlo, se è talmente subdolo che ha portato nel nostro modello di vita (che è il modello consumistico) anche il consumo di droghe... allora mi chiedo cosa ci stiamo a fare!

Credo che forse un senso di speranza viene proprio da quello che ci ricordava Canevaro: questo modello violento crea stress, sofferenza, disagio. Questo disagio è un sussurro. Forse il primo passo sarebbe riuscire ad ascoltare questo gemito, capire che non è vero che è tutto piatto rispetto al modello consumistico imperante. E allora ascoltarlo, e capire che dietro quel gemito forse c’è anche voglia di fare qualcosa di diverso, e dare gambe a questa voglia. Ci diceva Montecchi: "Fondamentale è produrre, moltiplicare spazi, centri di autogestione".

Lo aggiungo che non è solo un problema di spazi e di luoghi (certo sono fondamentali, specie nelle grandi aree urbane); c’è anche il problema di saper dare fiducia. La giovinezza è un’età in cui le idee ci sono, i segni ci sono, ma si fa fatica a renderli cosi chiari e logici come vorremmo noi adulti. Molte volte i giovani sanno da dove vogliono partire, ma non hanno cosi chiaro dove pensano di arrivare, però la voglia di essere protagonisti c’è. Questo è lo spazio che io chiamo della "microprogettualità". Un esempio: eravamo riusciti, nell’ultima ondata di finanziamento del progetto, a destinare 2 miliardi a sostegno della microprogettualità di realtà non solo associative. Uno dei limiti da superare, secondo me, è che le grandi associazioni hanno credibilità mentre quello che nasce da un gruppo che si vede con una certa continuità, che ha voglia di fare qualcosa, ma che è piccolo, non viene ritenuto degno di fiducia, lo ero in una comunità montana e in tre anni abbiamo sostenuto qualcosa come 20 microprogetti: il finanziamento massimo erano tre milioni!

Bisogna seguire queste logiche: sostenere anche i piccoli gruppi perché attraverso il loro progetto creano un momento aggregativo che li responsabilizza, li fa sentire protagonisti. Se poi alla fine dell’esperienza ci sono degli ammanchi, va beh, speriamo di no ma non è un dramma per l’ente locale. Quanti soldi si buttano via negli enti locali per cose inutili!

Per tornare ai sogni di Corrado, che credo non siano solo sogni, ma percorsi da tentare, oggi forse c’è da portare nella politica la normalità delle politiche giovanili. Dobbiamo entrare nell’ottica di un rapporto di fiducia e se c’è questa volontà poi si trovano anche i modi. So che è difficile entrare in contatto con i giovani, ma se ci sono dei progetti e c’è la volontà di provare a realizzarli, forse anche la relazione e la fiducia vengono da sé.

 

 

 

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