Marco Calvetto

 

Marco Calvetto

 

Cercherò di essere rapidissimo e di portare, partendo dall’esperienza che rappresento, descritta per sommi capi, alcune riflessioni, alcune questioni che mi pare possano essere utili alla discussione in atto. Visto i tempi purtroppo ragionerò a slogan, a parole chiave, che spero però possano essere spunto per alcuni temi generatori di riflessioni comuni ulteriori.

Partire dalle parole perché mi pare che siano importanti (lo diceva già Moretti), e ho l’impressione che oggi lo siano più del passato, perché stanno perdendo una serie di significati. Spesso utilizziamo termini, concetti che sono vuoti, che hanno perso di significato o, peggio, cui ciascuno attribuisce il suo. Mi piaceva molto il discorso oggi sviluppato che non soltanto i giovani devono essere oggetto della prevenzione primaria. Proprio questo tema è uno dei temi cardine dell’esperienza della GIOC.

La GIOC (Gioventù operaia cristiana) ha come suo obiettivo quello dell’educazione, della evangelizzazione, della coscientizzazione e della liberazione dei giovani ed in particolare dei giovani lavoratori e di ambiente popolare. In Italia la GIOC approda definitivamente, dopo una storia piuttosto travagliata, solo negli anni 70. Oggi l’associazione è attiva in 11 Regioni italiane e propone dei percorsi educativi che partendo dalle situazioni concrete di vita dei giovani (il lavoro, la scuola, la disoccupazione, il quartiere) permettano a questi di interrogarsi sulle loro aspirazioni di fondo, di prendere coscienza delle cose che non funzionano e di organizzarsi con altri assumendosi la responsabilità di realizzare in prima persona nella vita di tutti i giorni un mondo diverso. un percorso ed una proposta che parte dalla fiducia nelle nostre potenzialità di giovani, ma anche dalla consapevolezza che per molte persone l’interrogarsi sulla propria vita e sul suo significato rimane ancora un lusso.

Rimandando ad un altro momento l’approfondimento sul nostro metodo, la revisione di vita, e sul nostro progetto educativo, fondato sull’educazione solidale, riporto alcune questioni che sorgono dal quotidiano incontro con la realtà giovanile e con alcuni soggetti che se ne occupano, una prima questione che mi pare importante sottolineare rispetto all’universo giovani è l’approccio con cui ci si avvicina a questo soggetto. Spesso si dimentica che i giovani non sono un problema. I giovani non sono "il disagio". Si parlava prima di politiche sociali: oggi ho ancora in mente tutta una serie di commissioni che vengono fatte nelle nostre circoscrizioni (penso a Torino, ma così è in gran parte d’Italia) che hanno come obiettivo quello di programmare, verificare, promuovere politiche per gli adolescenti e i giovani, e che si chiamano "commissioni disagio".

I giovani, secondo questo approccio (magari generalizzando, ma sempre meno dei promotori stessi di queste commissioni), sono il disagio. Della mia esperienza mi pare di non poter assolutamente affermare questo. Il punto di partenza è che i giovani, oggi come ieri, sono una risorsa Sono una risorsa perché fra loro, nella loro vi nelle loro aspirazioni, nei loro sogni, nella vita di tutti i giorni non soltanto si manifestano alcune delle cose che sono sintomatiche della nostra società (che poi alcune sono quelle che più ci urtano e che ci fanno ansiosamente correre ai ripari per "salvarli"), ma sono anche portatori di una società nuova e diversa.

Sono lo specchio della società degli adulti, ma a differenza di questi spesso sono anche portatori di nuove energie e di nuove speranze. A volte ce ne si dimentica, e cosi invece di rimuovere ciò che impedisce alle persone di sognare si contribuisce ad accrescerlo.

I giovani non sono tutti uguali, le generalizzazioni a volte sono utili, ma rischiano di banalizzare la realtà.

I giovani che lavorano ad esempio sono una realtà sottaciuta, e se per caso si arriva a parlarne, la percezione e la generalizzazione più comune è che questi giovani siano "sfigati". Se un giovane inizia lavorare a 15-16 anni è veramente rovinato, "non ha possibilità nella vita", "non ce la può fare". Partire dai giovani come risorsa e come soggetto e non solo come oggetto forse ci può aiutare ad andare oltre questa percezione. Definito un approccio penso importante elencare alcuni fenomeni, come dicevo, che possano essere spunto per discutere di prevenzione primaria.

 

I giovani e il lavoro

 

È sempre un rapporto complesso" Se non vai a scuola agli occhi di buona parte della nostra società non sei messo bene. In realtà il lavoro per molte persone rappresenta una possibilità di riscatto. Di queste cose difficilmente si parla. Il lavoro minorile è quasi sempre collegato all’illegalità. Oggi sono in atto tutta una serie di riforme, però dai 15 anni in su, con tutta una serie di norme e di prescrizioni che andrebbero maggiormente rispettate (sto pensando all’obbligo formativo, ma non solo...), è legale lavorare. Di questa cosa ci si dimentica spesso. Il lavoro può essere un’opportunità, può rappresentare un’occasione di riscatto, può sostenere le persone nell’acquisizione di un’identità personale, spesso però, e non bisogna negarlo e dimenticarlo mai, il lavoro diventa particolarmente invasivo nella vita delle persone. Fra le tante questioni legate al lavoro e alla dignità delle persone, mi pare che il problema di fondo sia che il lavoro sta perdendo di significato, sta perdendo di senso. Occupa tante ore, è importante per me che lo faccio, ma non ha più una prospettiva, non ha più un nesso con il resto della vita, se non un nesso meramente strumentale. Cosa c’entra il lavoro che faccio con la società? Che rapporto c’è tra la mia vita e quel lavoro? Chi è che mi aiuta a fare un collegamento? Il lavoro è ancora un luogo in cui si costruiscono dei significati (nel lavoro si parla, si discute, si costruiscono opinioni, si osserva) non solo di ciò che si fa e di chi si è, ma anche di quanto ci circonda. Questo aspetto è particolarmente delicato e troppo poco considerato. È possibile che nel lavoro ci sia illegalità e poi ci sia la legalità nella società? È possibile che tu mi chieda di lavorare oltre le mie 40 ore, con sistemi di sicurezza che non funzionano, senza contratto, è poi quando esco tu mi chieda di comportarmi rispettando le norme di "civile convivenza"? È possibile passare 40 ore in un posto dove non mi vengono riconosciuti una serie di diritti, e poi fuori tranquillamente rispettare quelli degli altri? Perché dovrei farlo?

 

La flessibilità

 

È innegabile che spesso, per i giovani che iniziano a lavorare, la flessibilità non è una scelta o un’opportunità, ma piuttosto una condizione di precarietà. Senza entrare nel merito di tutte le questioni connesse a questo tema mi pare oggi importantissimo affrontare una delle conseguenze più marcate di questa situazione, e cioè la solitudine.

Sempre di più i giovani lavoratori devono sommare alla precarietà che da sempre caratterizza l’ingresso nel lavoro (la differenza è che quella precarietà non è più temporanea, ma rischia di diventare normalità) con la solitudine della transizione. Essere soli durante la transizione dalla scuola al lavoro, da lavoro a lavoro, per i giovani con meno opportunità culturali e soprattutto sociali è un elemento di estrema debolezza, che crea grandi disagi e senso di inadeguatezza. Non tutti possono essere dei super eroi, ma chi oggi si preoccupa di non far sentire soli questi giovani, chi li sa accompagnare a gestire la solitudine?

 

I territori

 

Si è accennato all’importanza dei territori dei quartieri per programmare politiche sociali efficaci. Anche su questa parola-concetto occorre avviare, mi pare, una riflessione che ridefinisca i significati. Che senso hanno oggi i quartieri nella vita delle persone"? Quali sono i percorsi, dovè che si vive, dovè che stanno i giovani, e soprattutto quali tempi vivono? Mi pare che siano cambiati o stiano cambiando molto" Si parla spesso di non luoghi, di luoghi del consumo come unici luoghi di aggregazione. Anche in questo caso penso che non si possa partire dalla demonizzazione di questa realtà, come fa una parte della società civile con un atteggiamento che a volte rasenta lo snobismo. Se l’unico modo per passare il tempo libero diventa il consumo nelle cattedrali a questo deputate, è logico che si smarriscono una serie di significati altri e più alti. Sarebbe utile partire non da un giudizio a priori e moralistico, ma dalla ricerca di che cosa ci sta dietro: perché i giovani stanno li, cosa c’entrano, cosa vogliono, a cosa aspirano? Anche solo partendo da questa curiosità probabilmente i giovani non si sentiranno più soli, ma avranno la possibilità di essere e di sentirsi ascoltati.

Oggi si avverte una grande necessità di relazioni significative fra pari, ma non solo. Oggi si è sempre più soli, e la sfida è quella di smettere di sentirci tali. Chi accompagna nelle transizioni, chi aiuta a costruire dei significati e non a fornirli a scatola chiusa? Spesso l’abuso di alcol e di sostanze non è tanto un fuggire dalla società, ma più spesso un fuggire momentaneo e senza avere un’altra prospettiva, senza proporre una nuova società. In passato gli hippies, per esempio, non erano persone che si isolavano soltanto perché pensavano di non stare bene in questa società, ma perché pensavano anche di essere portatori di un nuovo modello. Oggi non si fugge per proporre un nuovo mondo, ma per sopportare quello in cui siamo inseriti. Questo mettersi da parte è meno pensato, ma spesso inevitabile e necessario... Come si fa a ricostruire dei sensi, dei significati? Come si fa a ricreare cultura? Come evitare di creare solo tante subculture, ma iniziare a pensare ad una cultura, ad un’ipotesi, ad un progetto di società che possa dialogare con altri progetti?

Tutti questi temi mi sembra che rimandino ad un’unica grande tematica: la questione educativa oggi. La necessità di relazioni educative, ma anche di riflettere su quale progetto educativo, su quale metodologia educativa, non è indifferente, nel senso che non è indifferente l’approccio con cui ci si relaziona con e fra le persone.

La questione educativa è centrale per ogni società, occorre tornare a parlarne evitando il rischio di farlo sempre e solo tra addetti ai lavori, perché come detto è una questione che deve riguardare tutti. La troppa enfasi sulla professionalizzazione degli operatori, che, non fraintendetemi, è stata una grande conquista (mai definitiva), rischia di mettere da parte e di non responsabilizzare le persone e le istituzioni che debbono continuare a sentire la necessità di farsi carico di quanti li circondano e di costruire con questi significati e queste proposte, perché penso che questo sia un compito irrinunciabile di ogni uomo e di ogni donna. Mettere al centro la questione educativa fra educatori professionisti e altri tipi di figure, che hanno una professionalità e un ruolo educativo anche se non è necessariamente riconosciuto in un mestiere, è di primaria importanza. poiché di educazione poco si parla, se non appunto fra addetti ai lavori, ancor meno si parla di progetti giovanili, di prevenzione al disagio (brutta parola…), di progetti di pastorale giovanile che abbiano come prospettiva una proposta educativa. È l’esperienza quotidiana di chi fa questo lavoro, come la mia associazione prova a fare nelle periferie di alcune città o di piccoli paesi della provincia italiana. il non vedere riconosciuto, almeno immediatamente, quello che propone ai giovani e soprattutto di non vedere alcun tipo di promozione o di sostegno anche economico a queste attività.

Non forniamo servizi, facciamo una cosa diversa, mettiamo insieme le persone, le facciamo riflettere sulla propria vita, le accompagniamo a vivere da protagoniste andando oltre la rassegnazione e l’apatia: forse è poca cosa, ma forse non è completamente inutile nel contesto frammentato dell’oggi.

Un piccolo aneddoto, per concludere. Quest’estate come associazione abbiamo organizzato un piccolo campo estivo in provincia di Torino coinvolgendo dei giovani che provenivano da diverse realtà del Nord e del Sud Italia. I ragazzi che provenivano da Rossano Calabro per la prima volta uscivano dal proprio contesto territoriale. Nel viaggio di andata hanno fatto letteralmente impazzire la responsabile della GIOC che li accompagnava, mettendo a ferro e fuoco il treno su cui viaggiavano. Poi a Torino hanno avuto modo di ascoltare le altre persone presenti e di raccontare la propria storia e quella del paese da cui provenivano, raccontando le difficoltà a trovare un lavoro, di vivere in un paese che pare offrire poco... Alla fine del campo uno dei ragazzi si è avvicinato alla responsabile e le ha detto: "Quando torniamo a Rossano mi insegni a parlare italiano?"... Forse queste iniziative non offrono una grande visibilità, ma sicuramente nella vita di queste persone con quel campo qualcosa è iniziato a cambiare... Riconoscere, promuovere, valorizzare e far incontrare esperienze diverse mi pare un’altra sfida fondamentale per parlare oggi di prevenzione primaria.

 

 

 

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