Guido Savio

 

Guido Savio

 

Non è possibile parlare di inclusione degli immigrati senza fare i conti con quello che è il contesto, il dato normativo che ci troviamo di fronte. È un dato nuovo che, come tutti voi sapete, è entrato in vigore da pochissimi giorni e che, essendo portatore di un messaggio di esclusione, indebolisce alla radice qualsiasi progetto di inclusione sociale.

Si è realizzata una riforma la cui unica linea guida è il rifiuto dell’immigrazione clandestina, anzi il rifiuto dell’immigrazione tout court, che si realizza attraverso una drastica chiusura dei canali di ingresso regolari, attraverso una netta tendenza verso una precarizzazione del soggiorno, una revisione delle discipline delle espulsioni con moltissimi problemi di legittimità costituzionale (che non possiamo esaminare in questa sede) e lo svuotamento in termini di effettività del diritto d’asilo. Sarà più difficile entrare regolarmente in Italia perché viene introdotto il meccanismo del contratto di soggiorno quale presupposto per ottenere il permesso di soggiorno: esso vincola il datore di lavoro a dare vitto e alloggio e ad accollarsi le spese di rientro nella patria d’origine (alla faccia di chi voleva liberare le imprese da lacci e lacciuoli!). Imponendo nuovi oneri ai datori di lavoro, certamente si determinerà una diminuzione della offerta di lavoro e quindi un aumento del lavoro nero. Questo è un messaggio di esclusione, non certo d’inclusione.

Viene reintrodotto l’istituto della "verifica preventiva": prima di assumere, il datore di lavoro deve verificare che non ci sia nessun lavoratore nazionale o comunitario iscritto nelle liste di collocamento disponibile a svolgere quell’attività. Dulcis in fundo, il lavoratore extracomunitario che perde il lavoro ha solo sei mesi di tempo per trovarne un altro, perché il permesso di soggiorno per l’iscrizione alle liste di collocamento avrà durata massima di sei mesi. Tutto questo significa esclusione dal mercato del lavoro, esclusione dal circuito produttivo, che a loro volta determina esclusione non solo dall’Italia, ma dalla "fortezza" Europa. Questo significa che l’immigrato è visto solo come forza lavoro, solo in quanto merce.

Per non parlare, poi, dei restringimenti in materia di ricongiungimenti familiari, che incidono pesantemente su uno degli istituti più significativi nella prospettiva dell’integrazione degli immigrati: si tratta di un segnale inequivocabile della filosofia che ispira la nuova normativa in vigore nel nostro Paese.

Tutto il sistema così come è stato congegnato, si incardina su un punto fondamentale: la riforma della disciplina delle espulsioni, in un’ottica di facilitazione di quelle immediate. Come voi sapete, tutte le espulsioni sono da pochi giorni immediatamente esecutive, sia che siano determinate da mere irregolarità, sia che dipendano dall’avere commesso dei reati. L:unica risposta che si dà alla situazione di irregolarità è l’accompagnamento coattivo alla frontiera, ma siccome le persone da espellere sono troppo numerose rispetto ai mezzi in dotazione alle forze di polizia, è necessario raccogliere le persone in attesa di espulsione nei centri accoglienza temporanea.

Tuttavia neanche questi sono sufficienti. La loro disponibilità in Italia è di 1.800 posti, mentre il Ministero dell’Interno calcola, a regime, un ritmo di espulsioni di circa 36 mila unità all’anno. La nuova legge prevede che se lo Stato non sarà in grado di provvedere alle espulsioni coattive, dovrà intimare all’immigrato di lasciare il territorio nazionale con mezzi propri. In caso di inadempimento a tale obbligo scatta un’ipotesi delittuosa, punita con la reclusione da sei mesi ad un anno. In caso di recidiva le pene aumentano da 1 a 4 anni. In entrambi i casi si procede con arresto e processo per direttissima. Questo circuito perverso (centro di permanenza-carcere) sarà l’unico strumento di governo dell’immigrazione nel nostro Paese. Questo è un meccanismo di esclusione, non d’inclusione.

Concludo dicendo che occorre riflettere molto attentamente su queste cose. Quale prospettiva può esserci? Una è senz’altro quella di continuare a fare il lavoro sociale con gli strumenti che abbiamo, tutti i giorni, sapendo che i confini entro i quali possiamo agire sono quelli descritti. Ma io penso che si debba fare di più. Credo che sia indispensabile e quanto mai urgente agire culturalmente e politicamente per l’adozione di strumenti di regolarizzazione volti a far emergere l’immigrazione irregolare, fondati, per esempio, sul decorso del tempo, su indici integrazione reali, quali, ad esempio, la mancanza di commissione di gravi reati, e quindi l’ottenimento delle condizioni che avrebbero originariamente garantito e legittimato l’ingresso regolare nel nostro Paese.

 

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