Achille Saletti

 

Achille Saletti

 

Una premessa, di puro carattere stoico e politico, anche se può sembrare ovvia, è necessaria. Un Paese che vuole definirsi civile, che ricerca e persegue la tutela della salute di tutti, deve costruire sistemi di interento a partire dalla fortificazione del servizio pubblico e da un’elaborazione "forte" del concetto di gestione pubblica della salute. Credo che, da questo punto di vista, sulla base di processi di cambiamento che hanno subito improvvise (ma forse annunciate) accelerazioni, si rischi di incamminarsi verso un punto di non ritorno.

Entrano nuovi soggetti: non solo enti locali - che, gestendo la legge 328, avranno sempre maggiore centralità all’interno del sistema di intervento - ma anche parti importanti del privato profit. Questo potrebbe mettere a soqquadro dinamiche e sforzi riguardanti gli effettivi processi di integrazione tra un pubblico e un privato che, dopo essersi "annusati" per un lungo periodo, avevano deciso e provato a costruire percorsi comuni.

Partirei proprio dalla parola "integrazione" - termine che mai come in questo periodo rischia di essere abusato e di nascondere un concetto vUoto - per capire se effettivamente è a buon punto, o deve ancora decollare.

Il processo di integrazione pubblico-privato. come ha sottolineato Consoli, è oggi a macchia di leopardo, il che significa che ancora oggi l’integrazione dipende in buona parte dalla volontà dei singoli; l’integrazione si realizza quando un servizio pubblico e uno privato si cercano perché condividono alcuni aspetti, mentre ancora oggi mancano prassi codificate e protocolli operativi: un limite enorme.

Proprio a partire dall’evoluzione del fenomeno tossicodipendenza, invece, e dalle multiproblematicità delle persone che accogliamo e curiamo, ci si dovrebbe concentrare in una logica di prassi condivise e percorsi congiunti.

Uno dei banchi di prova sull’effettiva integrazione tra pubblico e privato, tra privato e privato, e tra pubblico e pubblico, è rappresentata dalla già citata questione della doppia diagnosi. Da questo punto di vista, è rarissimo trovare protocolli impegnativi che vengano poi attuati nel concreto. Proprio per questo credo che sulle doppie diagnosi sia possibile verificare se il sistema, nella sua interezza, sia ben calibrato o, quantomeno, abbia avViato un percorso di presa in carico dalle risposte credibili.

Se andiamo a verificare cosa accade a questo tipo di utenza rileviamo, all’interno di un percorso terapeutico, smagliature e buchi neri. Quando una persona abbandona i nostri programmi, il più delle volte ce ne disinteressiamo, non telefoniamo nemmeno al servizio pubblico per sapere se si è rivolta a loro, se è stata nuovamente intercettata: questo è una delle spine nel fianco che ci trasciniamo e che forse ha una sua ragione storica che risale a pregiudiziali di tipo ideologico tra servizi pubblici e servizi privati. Su questo occorre riflettere, perché se è vero che il Ser.T. è un po’ la memoria storica dell’utenza, è anche vero che in questi casi rischia di diventare una memoria storica intermittente, perché si hanno processi di iter terapeutico con moltissimi abbandoni.

soprattutto nelle strutture residenziali e semi-residenziali. L’incapacità di un sistema di assicurare continuità e competenze terapeutiche al paziente si traduce in una presa in carico frammentata e lacunosa, con conseguenze negative: sforzi che si moltiplicano, interventi che si succedono, disorientamento nel paziente.

Una prima soluzione potrebbe essere la cartella clinica comune. che possa essere condivisa da tutti, in modo da evitare che una persona venga frammentata in cinque, sei, sette, otto fotografie, a seconda dei servizi con cui è entrata in contatto.

Mi sembra poi che la separazione tra pubblico e privato si manifesti attraverso spazi sempre più medicalizzati rispetto a spazi connotati dalla psicoterapia o dall’intervento psico socio educativo. In pratica, ciò che si è nel tempo superato rispetto alle ideologie rischia di verificarsi nuovamente rispetto alle prassi operative. Certo ci sono ragioni molto pratiche come le difficoltà socio-economiche o la difficoltà di reperire soprattutto nelle aree metropolitane - una certa tipologia professionale.

Se dobbiamo parlare di integrazione di servizi diversi, del resto, dobbiamo recuperare anche una sorta di equilibrio tra competenze professionali diverse: negli ultimi anni mi sembra invece che ci sia stata una accelerazione a favore di alcune figure rispetto ad altre.

Intorno a questo nodo critico possiamo solamente rifarci ad alcune esperienze: a Milano, a livello di progetto cittadino (un progetto nato quindi, fin dalle premesse, con modalità integrate) abbiamo presentato un percorso che prevede l’ingresso del privato sociale - con le proprie figure professionali - all’interno del Ser.T.. La vera sfida, rispetto all’ipotesi contemplata di forme di presa in carico congiunte, investe direttamente le forme e i processi decisionali che si adotteranno. Del resto, proprio sulle forme decisionali di governo del sistema delle tossicodipendenze si gioca il futuro del sistema stesso.

Pari dignità, integrazione, controllo della spesa sono concetti vuoti se non si riesce a delineare con sufficiente chiarezza anche il processo preposto alle decisioni. Che la sede ideale di tale processo sia il dipartimento o altri organismi poco importa: ciò che è rilevante è la necessità di individuare sede e strumenti. Non riesco a scorgere alternative, posto che la subalternità del privato sociale al pubblico, oggi come oggi, non può definirsi valida alternativa e rischia, nel tempo, di acuire la frattura tra servizi rendendola non più ricomponibile.

Bisognerebbe allora sforzarsi di formulare un patto di reciprocità, che tenga presente quali siano, oggi più che mai, le difficoltà dei gruppi del privato sociale in termini economici, di turo aver del proprio personale, di equilibri gestionali sempre più difficili da raggiungere; un patto di reciprocità che tenga conto che una reciproca conoscenza, un superamento dei molti pregiudizi che hanno connotato la storia del sistema, è possibile ipotizzando corsi di formazione comuni, momenti di supervisione comune, magari anche "trasfusioni", anche solo per brevi periodi, dei nostri operatori nel mondo dei servizi pubblici e di operatori pubblici nei servizi privati, in una logica di interscambio proficua dal punto di vista socioculturale e da quello operativo. Una delle cose che necessariamente dobbiamo fare è proprio quella di avvicinarci ad una meta comune, e su questo patto di reciprocità chiarire le nostre difficoltà e i nostri obiettivi.

Quando si parla della legge 328, che introduce nuovi partner, con tutte le difficoltà, mi viene anche in mente il potenziale in termini di profit rappresentato oggi dai 3 mila utenti, dai loro bisogni clinici, di analisi, di cure, di patologie complesse e costose.

Si verificherebbe un salto culturale non da poco all’interno di un sistema che, con limiti e fatica, quantomeno condivide l’approccio che vede al centro la persona, che cerca di non essere sommerso da processi di razionalizzazione e massimizzazione del profitto. Potrebbe esistere un disegno, che guarda con interesse i numeri e le complicazioni patologiche dei consumatori problematici di sostanze e che comporti un graduale ingresso della sanità profit (certamente con l’ausilio delle case farmaceutiche) nel nostro settore.

A Milano, a Roma, a Napoli ne abbiamo avuto già qualche avvisaglia e questo dovrebbe spingerci a trovare un’effettiva integrazione, per superare questa dimensione a macchia di leopardo e codificare prassi operative che diano un’immagine di reparto compatto che lavora e interviene con competenza e professionalità.

 

 

 

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