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Augusto Consoli
Sono stato invitato qui dagli organizzatori come presidente dell’Associazione delle comunità pubbliche, ma sono stato delegato anche da parte del dottor Guelfi, presidente della SITD, che non ha potuto essere qui perché aveva un impegno già fissato a Genova. Mi ha chiesto di portare sia i suoi saluti sia alcune considerazioni su questa tematica. n mio breve intervento cercherà quindi di tenere insieme le due aree esperienziali e Cultl1rali che oggi rappresento. All’interno di questo aspetto dell’integrazione si potrebbero dire diverse cose, ma io mi soffermerei su un punto che è legato alla storia di questa società scientifica, alla sua anima e a come lungo gli anni quest’anima si sia modificata e integrata e a quale contributo specifico possa dare al collegamento tra realtà operative, professionisti e intenzionalità diverse. La SITD è nata diversi anni fa pensando che intorno alla problematica delle dipendenze ci fosse una scarsa attenzione alla ricerca, cioè alla possibilità di studiare un fenomeno. con un metodo scientifico condiviso, con contenuti trasmissibili. Come è noto, per diversi anni questa ricerca è stata prevalentemente di carattere neurobiologico. Un campo lontano da chi di noi ha una forn1azione più tendente all’intervento nel sociale, o nello psicosociale. Malgrado ciò, il contributo della società e degli studiosi, che inizialmente provenivano prevalentemente dal settore di ricerca farmacologico e neurologico, credo sia stato importante: la ricerca oltrepassava di per se questo tipo di contrasto pubblico-privato, nel senso che si rivolgeva in modo prevalente a chi, operando, aveva bisogno di riferimenti di tipo culturale e professionale. Nel corso degli anni questa visuale importante, ma eccessivamente focalizzata sugli aspetti biologici, si è allargata, e ultimamente la società ha cercato di occuparsi anche di divl1lgazione, di formazione che riguarda anche interventi più articolati, non soltanto connessi alla cura farmacologica e alla diagnosi, intesa nel senso medico-biologico. Si è occupata quindi di essere più presente sul versante del dibattito generale, sia in Italia sia all’estero, rispetto alle politiche di intervento e alla ricaduta di queste conoscenze nell’organizzazione dei servizi. Questa è una svolta degli ultimi due o tre anni, e si collega anche al tentativo di contribuire allo sviluppo di politiche di intervento e all’elaborazione di norme connesse al buon funzionamento dei servizi e alle buone pratiche dei singoli professionisti. In questo senso, senza entrare nei molti dettagli, vorrei sottolineare un punto su cui si è pensato di lavorare in questi ultimi mesi, cioè sulla possibilità per il medico di avere una maggiore tutela nell’attività di cura svolta attraverso la prescrizione dei farmaci. A proposito di questo aspetto, che mette in discussione chi opera sia nelle strutture pubbliche sia in tutte le comunità nelle quali vengono usati farmaci agonisti (molte comunità utilizzano il metadone per i propri pazienti), la SITD si sta occupando, in concerto con altre società scientifiche, di elaborare una proposta che abolisca l’articolo 83 del testo unico sugli stupefacenti (309/90), che penalizza il medico in modo specifico e non all’interno delle giuste nonne di penalizzazione dei comportamenti scorretti dei sanitari, confondendo la funzione sanitaria (cioè l’attività sanitaria e gli errori che possono essere collegati ad essa, quindi gli errori per colpa) con lo spaccio, cioè un’azione dolosa punita dall’art. 73 della stessa legge. Mi sembra che questo spunto e altre attività che la società svolge siano volte a costruire l’integrazione, nel senso che ciascuno, in termini individuali o all’interno di organizzazioni, può muoversi su un piano di costruzione dei legami e su un piano di rappresentazione del proprio posto dentro il sistema. Ma ognuno di noi ha un compito specifico e credo che avere un’idea chiara della propria funzione possa effettivamente essere di aiuto per dare contributi diversi e complementari ad elaborare profili di qualità dei diversi servizi, di linee guida, di aumento dell’investimento nella ricerca sociale e nella conoscenza ed esperienza clinica e neurobiologica. In questo senso l’ultimo interrogativo che vi propongo è questo: pubblico e privato sono uguali? Per la scienza si, per la ricerca si, per la professionalità si. Credo, raccogliendo cosi gli ultimi stimoli che Teresa Iarzocchi ci proponeva, che il passaggio da fare sia proprio aumentare il livello di competenza e di omogeneità, anche concettuale, delle cose che diciamo e facciamo, dei profili di qualità delle nostre attività, perché forse è l’unico terreno nel quale può emergere il valore condiviso delle nostre azioni. Stabiliamo poi quale sistema sia da regolare (da un punto di vista non solo normativo ma anche economico) e le modalità con cui si opera. In questo senso credo che la ricerca e la formazione, sia in campo biologico sia sociale, debbano ancora aiutarci molto. Oggi non ci sono linee guida condivise rispetto alle azioni che intraprendiamo in termini trattamentali, né nell’eroinopatia, né nell’alcolismo, né in altre forme di dipendenza. C’è un progetto nazionale al Ministero sulle linee guida in sanità che nel nostro settore ancora non ha prodotto ipotesi o documenti. Produrre dei documenti condivisi di questo tipo vuole dire avvicinare pubblico e privato su un piano sostanziale, nel senso che i contenuti diventano le cose che ampia parte della società, il mondo dei servizi e la comunità scientifica condividono. Le comunità terapeutiche pubbliche hanno avviato un processo di sviluppo dei sistemi di qualità e di verifica dell’efficacia insieme a molte altre strutture private, evolute sia sul piano organizzativo che professionale. Proseguire questo lavoro in modo sinergico con le diverse realtà presenti sul piano della ricerca, dell’assistenza e della terapia, è oggi di grande importanza. Definire in termini di qualità i servizi o elaborare analisi dei bisogni in modo condiviso vuole dire formulare una proposta ai politici riguardo ai bisogni da intercettare e ai modi con cui affrontarli. Allora credo che sia possibile l’avvicinamento tra queste parti, che peraltro in Italia è già in atto, ma in modo difforme nelle diverse realtà: ci sono profondi livelli di condivisione e di coprogettazione, ma ci sono anche situazioni di isolamento. Credo che questi supporti culturali, professionali e normativi possano aiutarci a superare quelle diversità disfunzionali che in alcune situazioni diventano delle barriere e, d’altra parte, stimolarci verso la promozione di una migliore attività, anzi della più adeguata attività possibile nei confronti dell’utenza e del cittadino che ci chiede aiuto.
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