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Teresa Marzocchi
Proverò ad affrontare questo argomento nel migliore dei modi, nella consapevolezza che è difficile dare conto di un tema che ci ha molto coinvolto in questi ultimi anni. Abbiamo da",-ero parlato molto di integrazione, di sistema pubblico e privato, forse ora ci ritroviamo a fare i conti di quello che abbiamo fatto, di quello che ci siamo detti, dei tentativi che abbiamo messo in atto anche nel livello non istituzionale del nostro rapporto. È evidente che rivestono però particolare interesse soprattutto le esperienze attuate nei territori regionali, dove l’impianto del sistema dei servizi è stato concretizzato con procedimenti istituzionali che l’hanno legittimato e riconosciuto. Questo momento di ripensamento è comunque in ugual modo importante per tutti, sia per i territori che hanno sperimentato sistemi ufficiali d’integrazione tra pubblico e privato, sia per quelli che non li hanno ancora messi in atto. Penso che oggi si possa dire che ci troviamo allo stesso livello, perché tutti abbiamo la necessità di pensare, nonostante le diverse esperienze, ad altro, a qualcosa di diverso, a qualcosa che vada oltre. Il sistema dei servizi che abbiamo percorso, è un sistema di servizi che regolava il rapporto tra il privato sociale (normalmente Ente ausiliario) ed il Ser.T. La situazione però è cambiata per effetto dei tanti procedimenti legislativi che hanno coinvolto il nostro settore (L. 229/99, Atto d’intesa, Atto d’indirizzo, 1.328/00 e piani di zona, il nuovo "444"). In questi procedimenti, seppure in maniera diversa, sono rivisti i ruoli e le competenze e si prevede, di conseguenza, un impianto diverso del sistema dei servizi con nuovi attori e nuovi temi sui cui orientare il dibattito condiviso. Questo è il motivo per cui s’impone una riflessione che ci dia la possibilità di andare oltre. Le comunità diventano servizi accreditati Già partendo dalla 229 per noi del privato si è evidenziata la necessità di ragionare non più come Enti ausiliari ma come Enti accreditati per essere assunti, a pari titolo, in una normativa di riorganizzazione generale è poi un segno che il settore delle tossicodipendenze sta uscendo dalla fase di emergenza per essere considerato argomento da trattarsi nella normalità, al pari degli altri servizi socio-sanitari. Un po’ di esperienza in questo senso la stiamo facendo tutti: il pubblico, nell’essere chiamato dalla direzione aziendale prima a contrattare il budget e poi a lavorare gestendolo; il privato, nella sperimentazione di nuove modalità di relazione (essere considerato come una casa di cura) e nel rapporto con nuovi interlocutori istituzionali. Ora rimane il problema di valutare appieno che cosa comporti divenire Enti accreditati; perché se passare all’accreditamento significa essere considerati dall’azienda esclusivamente come fornitori di servizi allora il percorso di integrazione sin qui fatto è fortemente a rischio perché cambiano le modalità di rapporto, la coprogettazione, la partecipazione alle scelte non contemplate da un meccanismo di semplice acquisto delle prestazioni ritenute necessarie. È la nostra identità che è a rischio, questo è il nodo problematico. Le nuove normative di riorganizzazione dei servizi hanno anche portato a lavorare per budget. La scelta è stata sicuramente giusta perché ha contribuito a dare un principio di realtà e trasparenza all’impegno del danaro pubblico (basti pensare agli eterni dibattiti sul costo delle comunità pubbliche mai chiaramente quantificato in termini paragonabili ai costi delle strutture private). Dopo alcuni anni di sperimentazione ci pare però di poter dire che c’è qualcosa che non funziona al meglio. Abbiamo visto, e a volte condiviso, la fatica dei nostri colleghi del pubblico costretti a realizzare le scelte terapeutiche facendo i conti col denaro ma nel continuo pericolo di essere governati dal denaro. Anche per il privato c’è questo rischio; c’è nella gestione quotidiana dei servizi (cambiamo target di utenza per scelta o perché abbiamo le comunità vuote?), ma soprattutto nella modalità con cui ci poniamo di fronte ai bisogni delle persone che incontriamo. Essere governati dal danaro, lo diceva Livio Pepino ieri, può far dimenticare l’esigibilità dei diritti. Ecco il nodo problematico: mantenere la lucidità dello stare dentro i conti con l’occhio attento a tutti i diritti e non solo a quelli economicamente esigibili. -Le comunità diventano servizi diversificati. Già l’Atto d’intesa ha dato avvio al riconoscimento, anche normativo, delle diversità dell’offerta residenziale delle comunità terapeutiche. Ora si ragiona per tipologia di intervento e si riconosce anche l’evidenza della specializzazione nel trattamento; il cammino intrapreso a seguito della necessità di dare risposte ad un fenomeno in continuo cambiamento diventa uno stile che riconosce nella flessibilità una chance per poter incontrare un’utenza sempre più difficile da avvicinare e trattare. Allora non è più sufficiente l’offerta residenziale: al privato è riconosciuta la possibilità di attuare anche interventi non residenziali o di proporre una diversa residenzialità; i servizi prestati diventano complessi, si va verso il superamento della retta come unico strumento di corrispettivo. Sempre più gli Enti ausiliari non sono solo comunità ma servizi, sempre più la missione terapeutica del privato si avvicina a quella tradizionalmente riservata al servizio pubblico. Ma questi strumenti normativi, questa nuova organizzazione (e lancio alcuni nodi problematici) che noi tutti ci siamo dati (perché l’abbiamo condivisa fin dalla sua formulazione) sono in grado di essere attuati su tutto il territorio nazionale? Ci saranno mai risorse economiche sufficienti a coprire il cambiamento che la specializzazione e l’individualizzazione degli interventi richiedono? Saranno questi strumenti, una volta tanto, adeguati al continuo cambiamento della domanda e conseguentemente alle risposte che questa domanda richiede? È possibile percorrere realmente un rapporto diverso con il Ser.T., come queste normative prevedono, un rapporto che ci veda alla pari sia come attuatori della fase trattamentale sia nella ripartizione delle risorse, pur riaffermando la titolarità pubblica dell’Azienda a garanzia dell’operato di entrambi i servizi? Sono quesiti quanto mai di attualità in questo momento politico. Il nuovo 444 ci chiama a riaffermare con forza il rifiuto della privatizzazione dei servizi come mezzo per delegare la gestione di un settore difficile e costoso, e a sostenere con convinzione il nostro si alla titolarità pubblica, nella consapevolezza che questo non significhi legittimare (proprio in questo momento politico) il superamento della compartecipazione, con il ritorno alla sola gestione pubblica. Il rapporto con i nuovi compagni di viaggio. L’Atto d’intesa, rAtto di indirizzo e la 328 hanno aperto le porte a nuove competenze, nuove titolarità. L’Ente locale ci autorizza al funzionamento e per la gestione dei casi dobbiamo sapere con quali interlocutori rapportarci, se in ambito sociale o socio-sanitario. L’analisi del bisogno e la programmazione degli interventi sono delegate ai piani territoriali, mentre la responsabilità delle scelte conseguenti è di chi li governa. Siamo senz’altro favorevoli a questo percorso di riordino dell’assistenza, alla valorizzazione del ruolo di responsabilità dell’Ente locale per leggere e dare risposte ai bisogni di tipo sociale (per noi prevenzione, reinserimento, esclusione sociale); è sicuramente positivo aver infine dedicato risorse certe a questo settore. Percorrere però la valorizzazione del territorio, l’integrazione tra sociale e sanitario. Il lavoro direte tra numerosi attori (comuni, azienda, terzo settore) è un obiettivo molto alto da raggiungere. Le fragilità di questo impianto, nel nostro settore, riguardano il rischio di parcellizzazione della riflessione di un fenomeno cosi complesso alla dimensione territoriale, la difficoltà di interagire anche operativamente con attori nuovi e non esperti di queste problematiche, la necessità di individuare la titolarità di ogni singolo caso e la cabina di regia, sia dei trattamenti individualizzati sia dell’intero sistema cosi com’è previsto. Come andare avanti insieme. Il nuovo che andiamo ad incontrare sicuramente ci sfida, la complessità aumenta portandosi dietro molti dubbi sulla fattibilità operativa, sull’applicabilità di questa ulteriore innovazione del nostro modo di lavorare. L’unica chance che abbiamo per poter interagire efficacemente con tutto questo è assumere la provocazione che Luigi Ciotti ci ha fatto ieri. Dobbiamo fregarcene delle normative (lui si riferiva alle convenzioni) non per proporre un cammino al di fuori della legalità ma per custodire la continua tensione a ricercare, quando ci vengono proposti, spazi ed opportunità di interpretazione che permettano di attuare le normative a beneficio delle persone e per la tutela dei loro diritti (tutti e non solo quelli esigibili). Se condividiamo questo obiettivo, dobbiamo però capire con chi portarlo avanti. I nostri colleghi dei Ser.T., coloro con i quali in questi anni abbiamo fatto o tentato di fare integrazione, sono disponibili a costruire il nuovo con noi? Se c’è un intento comune sarà possibile cercare insieme strumenti attuativi adeguati. In questo senso, secondo noi, andrebbe affrontato il discorso del dipartimento: non è importante come si chiama, chi lo coordina, l’importante è voler dar vita ad un’occasione di incontro, paritetica e legittimata, dove si possa accedere alla lettura dei bisogni, all’indicazione delle risposte adeguate, alla verifica delle scelte operate, alla conoscenza delle modalità di utilizzo dei fondi assegnati, sia in ambito sanitario sia sociale. In questo senso, ed è l’ultima postilla, il problema dell’accesso diretto è un falso problema, non è prerogativa essenziale se c’è dietro un impianto programmatico condiviso. Riteniamo giusto però non escludere questa possibilità a priori perché può essere un sistema di garanzia, una tutela per l’utenza, quando i servizi non lavorano in questa prospettiva. Tralascio, non perché meno importante ma per ragioni di tempo, tutta la riflessione sulla ricaduta di queste normative nel mondo del terzo settore. Saremo anche li chiamati a riscoprire nuovi rapporti con il mondo della cooperazione e dell’associazionismo, a trovare spazio per la nostra specificità anche al di fuori della nicchia protetta in cui siamo vissuti in questi anni come Enti ausiliari. Spero di aver dato un’occasione di dibattito.
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