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Vittorio Foschini
In questa sezione di lavoro ci occuperemo di una locuzione chiave: vil sistema dei servizi". A cosa ci stiamo riferendo? Il fenomeno dell’uso di droghe da parte di una crescente moltitudine di persone, scarsamente educate alla gestione dei rischi che derivano da tali pratiche, e dei problemi psicofisici e sociali che provocano, mettono in evidenza l’esigenza di organizzare un sistema di risposte adeguate a creare azioni di prevenzione più incisive, gestire le emergenze, organizzare percorsi di riabilitazione psicofisica e permettere un adeguato livello di inclusione sociale delle persone che hanno o hanno avuto a che fare con l’uso di sostanze. A ben osservare, in 25 anni la conoscenza sui modi di sviluppo di tale situazione si è approfondita e si sono sviluppate diverse tipologie di servizi capaci di dare buone risposte, anche se a volte centrate ad affrontare aspetti limitati della problematica trattata. Oggi, di conseguenza, a fronte di un problema che presenta aspetti diversificati e bisogno di interventi specialistici, articolati e complessi, possiamo assistere alla presenza di servizi molto diversi per tipologia e metodologia di intervento, in grado di intervenire in maniera altrettanto specialistica, ma che presentano una storia ed un limite particolare: tali servizi sono sorti in un contesto di autoreferenzialità, spesso si sono relazionati con altri simili attraverso feroci conflitti, quasi mai si sono sottoposti ad una seria verifica di qualità dei propri processi di lavoro e dei propri risultati. Cosicché i diversi servizi esistenti, pur potendo dimostrare innumerevoli ragioni e risultati, non possono essere messi a verifica sull’economicità del proprio operato (rapporto costi-benefici) e sulla qualità dei risultati raggiunti (rispetto dei diritti degli utenti e valorizzazione delle loro risorse) e ciò costituisce un grave limite, specie in un contesto di risorse scarse ed in una situazione in cui la posta in gioco è la salute e la dignità delle persone. Oggi questi limiti vorremmo superarli. N elle intenzioni e nelle volontà delle associazioni costituenti la consulta (ERIT-Italia, Itaca, SIA, Alea, SITD, SICAD e Federserd) e delle altre qui presenti (Saman, CNCA e Gruppo Abele) c’è la costruzione di un sistema dei servizi capace di connettere e coordinare tutti gli interventi necessari alla risoluzione dei vari problemi, creando sinergie fra le risorse reperibili sul campo e non solo conflitti od operatività isolate, come spesso avviene. Soprattutto c’è la volontà di creare un sistema dei servizi capace di innescare un processo di valutazione e di continuo miglioramento delle proprie parti e del proprio funzionamento. In questa direzione cito velocemente l’idea della creazione di un’agenzia super partes, che oltre ad occuparsi di ricerca e valutazione degli strumenti di intervento potrebbe occuparsi di accreditamento dei servizi e delle singole modalità operative, non distinguendo tra chi lavora nel settore del privato sociale e chi lavora nel settore pubblico. Tale idea di agenzia (avanzata di recente dalla Consulta all’alto commissariato per la lotta alla droga) potrebbe gestire il problema del "conflitto d’interessi" (conflitto di interesse fra le parti in relazione all’attribuzione delle risorse, alle modalità di verifica sulla qualità degli interventi, sulla questione delle competenze e dei requisiti necessari per certificare lo stato di tossicodipendenza) e facilitare il cammino verso la creazione di un contesto operativo che presenti maggiori vantaggi per tutti: operatori, utenti ed istituzioni. Un ulteriore aspetto che mi preme sottolineare è quello della definizione dei confini operativi di tale sistema dei servizi. Mi è impossibile immaginare un sistema di servizi che si debba occupare di tutto. Nella legge del ‘90 ci si riferiva ai Ser.T., come all’unico servizio con compiti di prevenzione, cura e reinserimento. Penso che oggi un’efficace prevenzione e un adeguato livello di inclusione sociale possano derivare esclusivamente da un’assunzione di responsabilità di tutte le parti sociali, istituzionali e non, e che tali questioni non debbano essere circoscritte in ambiti specialistici e definiti dall’etichetta "sistema dei servizi". Non è possibile che la cura della salute, della promozione di migliori condizioni sociali, della vivibilità della città siano demandate ad un gruppo di operatori. Ci vuole un grande coordinamento delle risorse da spendere per lo sviluppo della nostra civiltà. I grandi mezzi di comunicazione, ad esempio, devono riconvertire i fondi e i metodi di certa pubblicità per divulgare conoscenze e messaggi educativi. Un altro grande sforzo andrebbe compiuto nell’ambito dell’istruzione, affinché la scuola diventi da un lato un luogo d’informazione sui rischi e di prevenzione all’uso e, dall’altro, un luogo di formazione di operatori; inoltre l’Università deve cominciare a collaborare con il sistema dei servizi nella ricerca sul campo, formazione e supervisione degli operatori impegnati in un lavoro specialistico ed emotivamente logorante. Su questi aspetti oggi in Italia siamo presso che all’anno zero: manca un percorso organico, mancano obbiettivi, manca tutto anche se ci sono alcune esperienze, sparse un po’ qua e un po’ là, che andrebbero recuperate. Tali considerazioni valgono anche per altri aspetti della nostra realtà sociale. Oggi sono lieto che i grandi sindacati si stiano muovendo, ma lo sarò ancora di più quando il Ministero del Lavoro, i grandi industriali ed altri addetti avvieranno un dibattito sulla qualità del lavoro, sul bisogno e sui modi di includere socialmente anche persone che per anni sono state con la mente imbrogliata e con il corpo martoriato dalla droga. Perché se i criteri dell’inclusione sociale verranno sempre più dettati da una certa parte dell’industria, allora il discorso è chiuso, perché mi pare impossibile che persone già deboli o indebolite dalle droghe possano andare a lavorare 8 ore di seguito e magari nei turni di notte o in una stressante catena di montaggio senza ricadere nell’uso delle sostanze. C’è bisogno di percorsi protetti, di riumanizzare il modo di vivere e anche di produrre: pur imponendosi una grande attenzione al dato economico bisogna ritornare a lavorare per vivere anzi che a vivere per lavorare. Oggi abbiamo l’occasione di focalizzare il dibattito su alcune questioni cardine del sistema dei servizi, dobbiamo sfruttare l’occasione anche per chiamare alla collaborazione la società a cui apparteniamo. In fondo questi anni di lavoro ci hanno permesso di vedere attorno a quale substrato culturale si sviluppi il problema delle tossicodipendenze, e se non si agirà sul doppio binario della cura del contesto socio-culturale che permette l’espandersi del fenomeno droghe (e l’aumento dei problemi da esso derivati) e della cura delle singole persone, tutto i nostri sforzi e le nostre acquisizioni saranno inutili. Voglio denunciare due ultime importanti questioni: la prima, legata alla difficoltà e alla lentezza di applicazione della legge che istituisce i servizi alcologici e per questo invito il vicepresidente della SIA, dott. Greco, di soffermarsi, se possibile, su questi aspetti; la seconda legata all’emergere di due filosofie di intervento che devono essere dibattute per evitare pericolose contrapposizioni e confusioni operative. Faccio riferimento al fatto che da sempre i servizi per le tossicodipendenze hanno messo al centro del loro intervento il rispetto della persona e della sua motivazione al cambiamento, rispettando di conseguenza i tempi ed i bisogni dei pazienti, cercando di promuovere le loro risorse, accettando nel contempo aspetti comportamentali centrati sull’uso di sostanze. Mentre ora e da un po’ di tempo, con lo svilupparsi del dibattito sulla questione delle doppie o triple diagnosi, della cosiddetta "comorbilità psichiatrica", si è importato dal mondo della psichiatria il concetto di disabilità del paziente ed il conseguente bisogno di intervenire anche in modo coattivo, prescindendo dalla volontà delle persone.
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