Massimo Pavarini

 

Massimo Pavarini 

 

"‘Partire oggi dal carcere" significa partire tanto dalla definitiva crisi dell’ideologia e del modello correzionale, quanto dalla nuova legittimazione dal basso (certo più populista che democratica) della penalità, il che un po’ ovunque si traduce anche in maggiore penalità e nel diffondersi di retoriche "militariste" di incapacitazione selettiva del tipo: più nemici faccio prigionieri, meno nemici possono nuocermi".

Tre osservazioni preliminari, di carattere generale.

1. Nella sua essenza, l’esperienza di educare (o rieducare, risocializzare, emendare, recuperare e reintegrare socialmente, ecc.) si iscrive nel registro ambiguo della modernità, sospeso tra una metafora egemonica e una speranza di liberazione. È metafora egemonica nell’espressione che vuole che gli esclusi dalla proprietà - e quindi socialmente pericolosi perché sempre potenzialmente attentatori a essa - possano essere socialmente accettati solo ed in quanto educati a vendersi come forza lavoro; è speranza di liberazione nella nascita e crescita della coscienza di classe, come fiducia nelle virtù proletarie, le sole che consentono di liberarsi definitivamente dai pericoli di un destino sciagurato per i membri del lumpen proletariat. Da un lato, pedagogia (sognata in verità, più che effettivamente realizzata) alla nuova schiavitù della razionalità capitalistica: dall’altro lato: virtuoso percorso (anch’esso in verità immaginato piuttosto che effettivamente praticato) per liberarsi dallo status di "canaglia" e contare come soggetto storico, come proletariato.

Su quest’ambiguità di fondo si stende la ricca e contraddittoria trama della pedagogia penitenziaria. Non esiste esperienza detentiva del mondo occidentale che non veda (o abbia visto) nella risocializzazione dei condannati lo strumento principe di difesa sociale dal crimine; non esiste pensiero progressivo e volontà solidarista che non abbiano visto nell’integrazione dei condannati la strada maestra di una loro auspicabile emancipazione sociale. Ma è un’ambiguità che si è costruita prevalentemente intorno a due volontà politiche che sono sovente rimaste solo allo stato di aspirazioni. Due prospettive ideali radicalmente opposte di apprezzare il medesimo bene.

In effetti, storicamente, la pratica correzionalistica non è mai stato antidoto efficace alla recidiva, come altrettanto raramente la stessa ha prosciugato l’universo sociale di chi ha continuato a confidare nella lotta individuale, egoistica e illegale, piuttosto che in quella collettiva, organizzata e nel tempo legalizzata. Ma tant’è: come idee esse hanno significato molto, hanno fatto parte della storia della modernità.

Questa storia "ideale" di un’irrisolta ambiguità tra volontà di egemonia e volontà di liberazione percorre, come ho già premesso, tutta la modernità e quindi tutta la storia del carcere, che come si sa è solo una istituzione della modernità.

2. Un dato cui si presta poca attenzione: il carcere nella sua bisecolare storia è stato prevalentemente egemonizzato da retoriche elitarie, nel senso che la legittimazione di questa modalità di punire è risultata essenzialmente appannaggio di movimenti culturali e politici minoritari, spesso composti da soli professionali, animati sovente da intenti progressisti, che hanno espresso sulla pena e sul carcere un punto di vista di parte. Per quanto di parte e minoritario allorigine, questo punto di vista si è storicamente imposto nelle politiche penali e penitenziarie: in alcune realtà - penso agli Stati Uniti d’America - ciò si è determinato anche attraverso processi di ampia condivisione democratica (e forse varrebbe la pena di riflettere criticamente sul rapporto tra legittimazione democratica del sistema repressivo e qualità e dimensioni della repressione): in altre - penso all’Italia - lo stesso si è realizzato sovente per astuzia giacobina.

In Italia, non mi risulta che nel passato il carcere sia mai stato condiviso da culture diffuse e popolari. Insomma: il carcere non ha mai avuto sociologicamente una legittimazione democratica. E neppure, forse, la pena e il sistema penale nel suo complesso. È difficile pensare che l’idea del carcere come extrema ratio, in altre parole del carcere che rieduca, abbia mai potuto incontrare un consenso sociale diverso da quello guadagnato all’epoca del Beccaria dalla proposta di abolire la pena di morte.

Ma ciò vale per il passato. Nel presente, sembra che le cose stiano cambiando. La topica carceraria vive oggigiorno la singolare avventura di essere diversamente intesa e spiegata. Quantomeno due distinte retoriche leggono la sua presenza.

La prima - oggi in crisi - è quella appunto elitaria, di carattere prevalentemente progressista; la seconda, oggi in forte crescita, è invece più vicina al modo di intendere della maggioranza, apparentemente più democratica, certamente più populista. La prima lettura - si è detto - è oggi fortemente in crisi, anche perché non riesce ad uscire da uno stato di depressione profonda. Essa si esprime prevalentemente sulle riviste scientifiche, nel linguaggio della giurisprudenza, nella voce di chi ha responsabilità istituzionali. Questa narrativa penologica oggi sopravvive raccontando la propria nevrosi: il lamento di fronte ad una pena che nei fatti non è come avrebbe dovuto essere. Da qui il palese imbarazzo di fronte a qualche cosa che sempre più appare come scandaloso: non solo - e forse non tanto - perché il carcere "non funziona", quanto piuttosto perché la pena carceraria si è storicamente imposta nell’illusione delle sue incontestabili quanto evidenti virtù. E nella fede in queste si è edificato l’intero sistema della giustizia criminale e la sua legittimazione. È difficile immaginare di potere fare a meno del carcere al di fuori di un’idea diversa di giustizia penale.

L’invenzione penitenziaria, infatti, si celebra nella sua presunta capacità di dare piena soddisfazione alle necessità di un sistema moderno di giustizia penale, cioè ad una giustizia uguale, mite ed utile. Constatare che a fronte di questi fini ideali della pena, le funzioni materiali del carcere sono invece quelle determinate dalla produzione e riproduzione della diseguaglianza sociale, attraverso l’irrogazione di una violenza segnata da elementi irriducibili di crudeltà e con effetti di elevata nocività sociale, induce al pessimismo penologico, ulteriormente esasperato dalla constatazione di non possedere alcuna strategia valida per un effettivo contenimento o abolizione di questa modalità di infliggere la pena, sempre che si convenga sulle necessità e/o opportunità, presenti e future, di un sistema legale di penalità.

Il secondo discorso penologico - oggi in forte crescita - non mostra alcun imbarazzo di fronte al carcere. Esso è certo dell’utilità della pena detentiva, anche se invoca modalità nuove di applicazione della stessa. Questa "nuova" idea di penalità appare sovente rozza nelle sue estreme semplificazioni e comunque non ama celebrarsi in dissertazioni accademiche. Essa si esprime nei discorsi della gente. E parla direttamente alla gente nelle parole dei politici e prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione di massa; ma si diffonde e finisce per articolarsi in topiche che trovano, o cercano di trovare, anche una loro legittimazione scientifica. E ovviamente non manca chi si cimenta scientificamente nell’impresa. Si sta diffondendo oggi una cultura populista della pena, che pone, forse per la prima volta, la questione di una penalità socialmente condivisa "dal basso".

Credo che per un complesso di ragioni comprensibili, ma difficilmente giustificabili, in Italia la cultura scientifica presti poca attenzione a questa nuova cultura della penalità legittimata "dal basso", di cui è imprudente dire che sia sempre "di destra" (la politica penale del governo democratico negli USA, di quello laburista in Inghilterra e alcuni intenti emersi nei "pacchetti giustizia" dei due passati governi di centro-sinistra in Italia, lasciano sospettare che il "nuovo realismo di sinistra" ben poco abbia da invidiare a quello dei governi conservatori).

3. Da un punto di vista esterno - ci ricorda Levi Strauss - le società sembrano atteggiarsi in due modi opposti di fronte a chi è avvertito come pericoloso: o sviluppando un atteggiamento cannibalesco, cercando di fagocitare chi è avvertito in termini di ostilità, nella speranza così di neutralizzarne la pericolosità attraverso l’inclusione nel corpo sociale; o esasperando le pratiche di vero e proprio rifiuto "atropemico", vomitando al di fuori di sé tutto ciò che è socialmente avvertito come estraneo.

Ma ogni società è ugualmente afflitta sia da anoressia sia da bulimia, cioè ogni organizzazione sociale esclude ed include nel medesimo tempo, determinando contingentemente una soglia di tolleranza, oltre alla quale non c’è più inclusione ma solo esclusione. Ciò che importa è riuscire ad intendere ove questa soglia si situa o arretra e perché essa non riesca ulteriormente ad estendersi.

Osserviamo la realtà. Percentualmente, sia pur di poco, la presenza dei tossicodipendenti in carcere è in contrazione. L’apice si è raggiunto nel 1996. Lì abbiamo sfiorato il 30%. Da allora è in lieve ma costante calo. Attualmente siamo sull’ordine percentuale del 26%. In effetti, il totale dei tossicodipendenti in carcere nell’ultimo decennio è costante (circa 16.000 presenze giornaliere), ma nel frattempo la popolazione complessiva è aumentata, ergo percentualmente quella dei tossicodipendenti è diminuita.

Ma di poco, per cui è assai imprudente ricavare da questo dato un segno in equivoco di tendenza. Più interessante, semmai, è osservare come la crescita esponenziale degli stranieri verificatasi in questo decennio tra i detenuti sia stata segnata da una crescita ancora più accentuata tra questi ultimi della percentuale di coloro che sono anche tossicodipendenti. Uno straniero su quattro che finisce oggi in carcere è tossicodipendente. E forse in futuro la percentuale è destinata a crescere.

A ben intendere questo ultimo dato è alquanto significativo. Sappiamo che i percorsi di differenziazione trattamentale per ragioni terapeutiche (in primis l’affidamento in prova in casi particolari o soprattutto nelle ipotesi in cui questo venga concesso dallo stato di libertà) è cresciuto nell’ultimo decennio di molto, sia in assoluto che percentualmente alla popolazione detenuta. Ma sappiamo anche che i percorsi di alternatività privilegiano i detenuti italiani, per ragioni fin troppo ovvie e ripetutamente chiarite.

Ergo: sembrerebbe ragionevole sospettare che se anche i detenuti stranieri tossicodipendenti potessero in eguale misura godere effettivamente di percorsi di alternatività a contenuto terapeutico, la percentuale dei tossicodipendenti in carcere dovrebbe essere oggi significativamente più bassa di quanto non risulti. Questo ragionamento, ipotetico nella dimensione quantitativa, può avere un significato importante per quanto concerne invece un profilo qualitativo. Nel processo complessivo che determina l’esclusione sociale, è dato assistere ad una sovrapposizione significativa tra lo stereotipo del drogato con quella dello straniero. Meglio o diversamente detto: se negli anni Ottanta e primi anni Novanta il "nemico" da escludere era il giovane emarginato metropolitano che faceva uso di eroina, oggi parrebbe essere il giovane maschio immigrato sempre più coinvolto passivamente con il mondo della droga. Questo ragionamento, mette in conto - tenendo presente quanto per altro è successo in termini ben più eclatanti negli LSA - mutamenti significativi nella cultura giovanile della droga, in cui esistono evidenze empiriche di come i giovani italiani si siano progressivamente allontanati dal consumo di eroina verso altre droghe, mentre l’eroina sia diventata sempre più una cultura tossicomanica segnata dalla marginalità conseguente i processi di immigrazione (in LSA si direbbe qualificata "dal punto di vista razziale", la c.d. droga del ghetto).

Insomma: la costruzione sociale che presiede le politiche di inclusione/esclusione della problematicità sociale potrebbe essere cambiata o in corso di mutamento e all’interno di questo mutamento la dimensione di differenziazione sarebbe portata a segnare ancora una volta negativamente la "nuova" e fin troppo "facile" e quindi "utile" vittima da escludere: l’immigrato. E il coinvolgimento di quest’ultimo con una certa cultura della droga finirebbe per rafforzare ulteriormente il processo.

Per il resto, in armonia con le prime due osservazioni di carattere generale, "partire oggi dal carcere" significa partire tanto dalla definitiva crisi dell’ideologia e del modello correzionale, quanto dalla nuova legittimazione dal basso (certo più populista che democratica) della penalità, il che un po’ ovunque si traduce anche in maggiore penalità e nel diffondersi di retoriche "militariste" di incapacitazione selettiva del tipo: più nemici faccio prigionieri, meno nemici possono nuocermi.

Volgendo anche lo sguardo curioso e alquanto preoccupato a quanto avviene in altri contesti occidentali, personalmente non colgo resistenze significative a queste due tendenze, se non appunto espresse da ceti professionali minoritari ed elitari. Certo è poi possibile che in tutto ciò il tema della guerra alla droga lasci progressivamente lo spazio ad altre guerre nella costruzione del nemico interno.

 

 

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