Alessandro Margara

 

Alessandro Margara

 

C’è un modo di valutare l’efficacia o inefficacia del nostro sistema sulle dipendenze, la presenza massiccia in carcere di persone con questi problemi. La considerazione è semplice: se si trovano in carcere persone che potrebbero o dovrebbero essere fuori a partecipare a programmi riabilitativi, è il sistema complessivo a non funzionare, a non funzionare fuori e a non funzionare dentro.

È il modo consueto e più semplice con il quale si nega il problema sociale, il disagio di chi vi è inviluppato, valutato soltanto come trasgressione, e si considera segno di debolezza la politica dei servizi di stabilire e mantenere ad ogni costo la relazione con l’interessato, anche accettando le politiche di riduzione del danno, riconosciute nelle Conferenze nazionali e condivise da vari paesi europei. Di qui, poi, ripetuti pronunciamenti che delegittimano l’attività dei servizi pubblici e rinviano al carcere - rivalutato non per ciò che potrebbe essere se fosse diverso da ciò che è, ma proprio per ciò che è, per il suo essere punizione meramente repressiva - o ai trattamenti privati, con il privilegio delle comunità di lavoro e di lungo inserimento, cui si ha tutta l’aria di pensare a delegare la stessa gestione della fase carceraria.

Se è chiaro che questo è uno dei tanti settori su cui non è possibile alcun dialogo con chi vuole fare piazza pulita di quanto si è detto e fatto nei decenni scorsi, si deve, però, non solo difendere tutto questo, ma ripensarlo, anche nelle sue debolezze e incompletezze, che non sono poche e che certamente espongono a critiche abbastanza facili il sistema dei servizi pubblici e quello complessivo. Bisogna pensare a un completamento e a una generalizzazione di operatività per quei principi e quelle idee maturate negli anni, temporaneamente oscurate, ma che devono tornare ad essere il riferimento di tutti in questo e negli altri Paesi.

Negli anni passati il Servizio delle tossicodipendenze e delle alcoldipendenze è diventato una presenza diffusa nel nostro paese, ma è pacifico che siano eterogenei i risultati raggiunti. Intanto, è mancata in molte sedi la continuità organizzativa. È stata faticosa la creazione di un organico credibile e faticosa anche la copertura dello stesso e, quando si è raggiunta la copertura, il mantenimento di quella situazione. La legge del 1990 portò quantomeno le risorse finanziarie a questo fine, ma quella fase non fu seguita da una copertura costante, che era indispensabile. Arrivarono in certi periodi gli operatori, per poi, progressivamente essere assorbiti da servizi diversi e, forse, professionalmente più appetibili. La completezza dei gruppi operativi attraverso la partecipazione di tutte le professionalità necessarie è un altro risultato raramente raggiunto e ancora più raramente mantenuto. Le risorse, si noti, non sono necessarie soltanto per la presenza del personale, ma anche per la qualità della sua attività. Sotto questo profilo, l’esperienza degli anni scorsi per i programmi di recupero è stata spesso molto povera ed andrebbe ripensata in base a ciò che è accaduto di meglio presso i vari servizi. È chiaro che le risorse sono la chiave necessaria per risolvere questi problemi e che senza risorse si può fare poco, ma l’apprestamento di programmi più sostanziosi, di partecipazione e anche di lavoro, da parte dei Ser.T., potrebbero fare risparmiare sui ricoveri comunitari, che sono particolarmente costosi. Questo senza concorrenza, ma ricorrendo agli stessi quando sia realmente necessario.

E c’è un altro punto da considerare: la collaborazione dei Ser.T. con gli altri servizi pubblici, di cui c’è bisogno per i medesimi utenti. Per i casi di doppia diagnosi il rapporto con i servizi psichiatrici appare indispensabile, ma la collaborazione può presentare problemi. E, in genere, i servizi trovano difficoltà (il che è ragionevole) ad affrontare le variazioni dei fenomeni di dipendenza. Non sembra accettabile rifiutare prese in carico dei casi con nuove problematiche, ma può capitare anche questo. Come conclusione di questo punto, completare i servizi, dare continuità e qualità agli stessi, dovrebbe elevare la appetibilità professionale degli stessi e liberarli dalla fama di attività secondarie, marcate dalle difficoltà di relazione con gli utenti e dagli insuccessi. Sarebbe importante formare una specificità professionale, basata su una acquisizione estesa e continua di competenze. Finora ho focalizzato il discorso sui servizi pubblici, ma c’è un modo di valutare l’efficacia o inefficacia del nostro sistema sulle dipendenze: la presenza massiccia in carcere di persone con questi problemi.

La considerazione è semplice: se si trovano in carcere persone che potrebbero o dovrebbero essere fuori a partecipare a programmi riabilitativi, è il sistema complessivo a non funzionare: a non funzionare fuori e a non funzionare dentro. In carcere, i tossicodipendenti sono circa il 27%.

L’impressione è che questa cifra sia sottostimata. La ricerca è stata sovente condizionata dal timore che vi fosse chi "vantava", per così dire, una tossicodipendenza per i presunti vantaggi che consentiva. Ma in carcere c’è anche un mascheramento della dipendenza o il mancato riconoscimento della stessa, che impediscono di individuare una casistica più ampia. Si tenga conto, poi, che può sfuggire il conteggio di una parte dell’area della dipendenza presente nei detenuti stranieri. Ne consegue che il numero dei tossicodipendenti può superare i 16 mila, che sarebbe circa il 27%, e salire fino a 20 mila. Mancano numeri attendibili sugli alcoldipendenti.

Ora, da un lato, bisognerebbe ricordare che la nostra normativa privilegia per i tossicodipendenti detenuti, sia in custodia cautelare che in esecuzione di pena, l’attuazione di programmi riabilitativi fuori dal carcere: in proposito, la linea appare chiara, per la custodia cautelare, negli artt. 89 e 96 del d.p.r. 309/90, e, per la esecuzione di pena, negli arti. da 90 a 94 dello stesso d.p.r. La presenza così massiccia di tossicodipendenti e alcoldipendenti in carcere è segno evidente che il sistema pensato dal legislatore non funziona e che, in sostanza, la esecuzione all’esterno della custodia cautelare o della pena presso strutture di recupero pubbliche o private, non è realizzata che in parte molto modesta. La spiegazione è agevole.

Il d.p.r. 309/90, all’art. 95 aveva pensato alla creazione di un circuito penitenziario per tossicodipendenti, che avrebbe dovuto essere realizzato rilanciando le case mandamentali, che avrebbero consentito un regime aperto di gestione (a custodia attenuata, come si è poi detto) e il ricorso a personale dipendente dagli enti locali: il numero di tale personale sarebbe stato modesto, la preparazione specifica, basata sul tipo di gestione indicata, concreta la possibilità dei servizi pubblici di essere presenti in tali strutture e di lavorativi senza condizionamenti negativi (come inevitabilmente accade nelle strutture maggiori). Questo progetto non ha avuto alcuna attuazione.

In effetti, è iniziata la costruzione di varie strutture, da destinare a case mandamentali con la funzione indicata, ma non si è perseguita con chiarezza la via indicata dall’art. 95. Risultato: molte strutture non sono state finite: molte sono state riciclate per usi degli stessi Enti locali, che le avevano costruite; quelle finite, ad eccezione di pochissime (una o due), sono state poi utilizzate come istituti penitenziari ordinari.

È vero che l’intenzione di realizzare un circuito a custodia attenuata per i tossicodipendenti disponibili ad impegnarsi su un programma riabilitativo interno è andato avanti, ma più per iniziative locali che per un disegno unitario. Tale circuito, distribuito fra piccoli istituti autonomi e sezioni di istituti maggiori, ha interessato e interessa, però, non più di un migliaio di persone.

Le custodie attenuate hanno visto anche risultati buoni, con la partecipazione significativa, in alcuni casi, dei servizi pubblici. Posso citare degli esempi: presso la Casa Circondariale di Torino funziona una custodia attenuata, suscettibile di superare le 100 unità, ma nelle sezioni ordinarie del carcere restano oltre 300 tossici, pochissimo seguiti dai servizi pubblici, con i quali i rapporti non sono mai stati semplici. A Roma, l’istituto a custodia attenuata di Roma - Rebibbia, che avrebbe una capienza maggiore, accoglie 40-50 detenuti, ma le altre case circondariali della città hanno molte centinaia di tossicodipendenti, raggiunti in modo inadeguato dai servizi pubblici. E così altrove.

Anche il rapporto non facile fra istituti penitenziari e servizi pubblici è stato un classico di molte sedi: da un lato. posizioni inaccettabili degli istituti, che contestavano. in qualche caso, il ricorso al metadone: dall’altro, insufficienza e discontinuità delle equipes dei servizi pubblici. Il risultato, in un’estesa fascia di utenti, era una presa in carico mancante o tardiva, l’inadeguatezza delle risorse, la perdita dell’occasione. sollecitata dallo stato detentivo, per coinvolgere le persone in un progetto costruttivo. Nel corso del 2001 coloro che hanno fruito dalla detenzione di affidamento in prova per tossicodipendenti sono stati 837: rispetto al numero dei detenuti siamo ben lontani e l’inadeguatezza del sistema di alternative alla detenzione in questo settore è evidente, proprio in quel settore in cui la esecuzione esterna al carcere dovrebbe essere privilegiata.

Ov-viamente, pesa anche la povertà delle risorse trattamentali degli istituti. Lasciano, a mio avviso, la situazione senza grandi variazioni i c.d. presidi per le tossicodipendenze, previsti dal d.p.r. 309/90, che avrebbero il compito di interfaccia fra istituti e servizi, ma sono condannati a combinare quando il rapporto che dovrebbero favorire è inadeguato, se non, come accade spesso, inesistente. Anche qui la mancanza di personale educativo impedisce anche la sola fiera rilevazione e messa a fuoco dei casi.

 

 

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