Francesco Maisto

 

Francesco Maisto

 

Il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale non influenza solo i meccanismi di esclusione sociale, ma, agendo sulla contrazione della spesa pubblica, influisce sulla riduzione dei diritti nello stesso luogo dell’esclusione.

Edward Bunker, l’autore di Educazione di una canaglia (Einaudi), oggi sessantacinquenne, entrò nel penitenziario di San Quentin a diciassette anni e in totale ne trascorse diciotto in carcere, in tre periodi successivi, rimanendo fuori per venticinque. È autore di romanzi di successo e famoso attore, e avendo passato in carcere quasi metà della sua vita adulta, ci consegna la rappresentazione più potente del nostro tempo del complesso e sofisticato sistema penitenziario americano. Il risultato è agghiacciante.

A dispetto delle più moderne teorie ripropone una tesi semplice, valida per gran parte dei detenuti, già alla base della riforma penitenziaria italiana del 1975: riferendosi al figlioletto scrive: "ma le carte che gli abbiamo offerto sono infinitamente migliori di quelle che il destino ha dato in mano a me". I dati sulle "canaglie", questa tipologia dei detenuti, ci vengono forniti da Pavarini e dalla recente "Inchiesta sulle carceri italiane", dell’Associazione Antigone. Più controversa è invece la questione dell’educazione delle "canaglie", in quanto la sinergica azione della tolleranza zero da una parte (attraverso la sola punizione), e della critica radicale dell’ideologia e del modello correzionale dall’altra (con la presa d’atto della nuova legittimazione populista e giustizialista della penalità) ha offuscato proprio quella logica della chances che può consentire di colmare i gap di inserimento sociale. In realtà la carcerazione della marginalità sociale è una delle variabili della logica dell’esclusione sociale.

Il sovraffollamento. "Quando le celle sono strapiene, le condizioni carcerarie si degradano e i penitenziari diventano polveriere", ha osservato di recente, con ingenua meraviglia, Florence Raynal, allargando la sua analisi all’Europa, a partire dal sistema penitenziario francese, per delineare il passaggio "dallo Stato sociale allo Stato carceriere".

Il carcere aumenta le sue dimensioni e regredisce nella qualità del trattamento non solo in Italia, soprattutto per l’implementazione di politiche criminali che orientano le dinamiche della repressione penale, all’insegna della copertura teorica della certezza della pena, con evidente riduzione sia degli spazi di flessibilità dell’esecuzione, sia delle misure alternative alla detenzione. L’assunto non dice naturalmente: "più carcere e meno misure alternative", bensì "più carcere e più misure alternative", con una espansione globale del controllo penale, da quello soffice a quello duro. Nessuna meraviglia dunque se aumentano gli atti di autolesionismo, i suicidi, gli atti di violenza, insomma la crudeltà e l’elevata nocività sociale del carcere. Il sovraffollamento non è solo una questione di numeri e di trattamento degradante nei fatti, ma anche un fenomeno preoccupante in quanto, in concreto, riduce o limita veri e propri diritti soggettivi, pur senza una preventiva scelta normativa di abrogazione.

Il contrasto che sta segnando la giurisprudenza di legittimità su alcuni aspetti del procedimento di sorveglianza non è delimitato alla materia processuale, ma evidenzia in tutta la sua portata il bisogno non soddisfatto di esercizio di diritti, pur l’inerzia legislativa sulla previsione dello strumento di tutela di diritti da tempo configurati per legge. Di più, la Corte Costituzionale, in relazione all’annosa questione delle perquisizioni personali in carcere, ha sollecitato interventi normativi ormai indispensabili, osservando che nulla avrebbe potuto aggiungersi quanto di sua competenza, e per altro introducendo un significativo inciso: "spetta ai giudici individuare nell’ordinamento in vigore lo strumento per concretizzare il principio affermato".

Vero è che più volte, anche autorevolmente, in questi ventisette anni di vigenza della riforma penitenziaria, è stato affermato che questa "carta dei diritti" del detenuto ha previsto diritti su carta. Come è vero che la dottrina ha mancato di evidenziare la fragilità dell’azione garantistica dei diritti da parte della Magistratura di sorveglianza all’interno dell’istituzione carceraria nonché l’insufficienza normativa per un adeguato rilancio dello stesso giudice, che continua a scorgere la sua collocazione di giudice "tutelare", nell’ambito di una carta configurante posizioni solo eccezionalmente azionabili.

Non c’è però oggi chi non veda la necessità di un punto di svolta: l’Ombudsman, il difensore dei detenuti. Lungi dal voler configurare un’istituzione nuova e diversa di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti, si avverte la necessità di prospettare un ruolo istituzionale che consenta all’Amministrazione Penitenziaria, alle altre amministrazioni e alla Magistratura di sorveglianza, di svolgere meglio le loro funzioni.

Gran parte delle posizioni espresse negli scritti teorici e nelle prassi giurisprudenziali della Magistratura di sorveglianza oscillano tra una messianica attesa delle pene alternative applicate dal giudice di cognizione, e la predilezione di un giudice-terzo, ben fuori dal carcere e dai suoi coinvolgimenti, garante essenzialmente della legalità formale dell’esecuzione della pena. Queste opzioni, per un verso e per l’altro, portano alla vecchia giustizia penale o, meglio, sempre di più verso il carcere.

Un ottimo alibi è anche offerto dall’inadempienza legislativa dopo la sentenza n° 26/99 della Corte costituzionale (di cui si è detto prima): ma, a questo punto, il difensore civico penitenziario è ancor più necessario perché, nonostante la previsione astratta di una batteria legale di controlli e di tutele (tutte in "Diritti in Carcere - li difensore civico nella tutela dei detenuti Quaderni di Antigone n. I "), è unanime il riconoscimento della loro insufficienza fattuale.

Se da una parte, in sede sopranazionale, il Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura, all’esito delle visite effettuate nel nostro Paese, ha auspicato la previsione di ispezioni da parte di specifici organismi indipendenti a garanzia di un dignitoso trattamento di tutte le persone private della libertà personale (come già avviene in Austria, Danimarca, Finlandia, Olanda, Norvegia, Portogallo, Svezia e Inghilterra, Spagna e Francia, con diverse denominazioni e competenze, ma comunque concentrate sulla tutela dei diritti), dall’altra parte ci sono, in sede nazionale, più segnali di saturazione funzionale della Magistratura di sorveglianza che tolgono spazio all’esercizio degli strumenti apprestati dagli artt. 35 e 69 della legge penitenziaria. E non è un caso isolato di delusione di ruolo e di conato giudiziario l’apparizione della radicalità paralizzante di talune rarità di magistrati che reclamano sic et simpliciter l’ottemperanza al decisum giudiziario da parte del DAP, ogni qualvolta venga emesso.

Nella speranza che sia di breve durata il disorientamento giurisprudenziale (che pur ritarda i meccanismi di applicazione e revoca delle misure alternative) sui limiti di applicazione dei principi del giusto processo (art. 111 della Costituzione) al procedimento di sorveglianza, certamente invece due nuove previsioni legislative influirebbero sulla ridefinizione materiale del ruolo e delle funzioni del Magistrato di sorveglianza.

}li riferisco innanzitutto all’attribuzione al Giudice monocratico della competenza alla concessione della liberazione anticipata ( estesa anche all ‘ affidamento in prova al servizio sociale in corso di esecuzione), e alle modifiche degli artt. 4 bis e 41 bis della legge penitenziaria in tema di trattamento, che rendendo permanente, in modo discutibile, il circuito penitenziario più rigoroso, e quindi più sensibile al rischio di lesione di diritti costituzionali, soprattutto con la generica "adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna", provocheranno un più frequente ricorso alla Magistratura di sorveglianza.

Tutti gli analisti del sistema penitenziario italiano individuano le aree di crisi nei settori delle tossicodipendenze, degli extracomunitari, della salute: tuttavia è proprio in relazione a queste aree che in questi ultimi anni, modificando culture, esperienze e normative, anche esterne al carcere, si sono create le condizioni delle crisi medesime.

Di queste scrivono ampiamente di seguito Pavarini, Margara e Sorgi: invece, credo sia utile evidenziare qui il contributo, anche di mediazione, che potrebbe dare l’Ombudsman alla soluzione di alcune questioni scottanti.

Nessuno nega che il condannato sia titolare di un vero e proprio diritto al procedimento per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e alla concessione delle stesse, se ne sussistono i presupposti. ma quella dei tempi delle istruttorie e delle decisioni sulle istanze è questione fondamentale che coinvolge la stessa esistenza del diritto.

Il riferimento vale non solo per le istanze dei detenuti che prolungano una carcerazione altrimenti e utilmente declinabile secondo un percorso alternativo responsabilizzante, ma anche a coloro che chiedono la misura in stato di libertà. perché la tempestività dell’esecuzione penale è elemento indispensabile dell’efficacia del sistema.

Un altro limite all’azione della Magistratura di sorveglianza che richiederebbe un’integrazione operativa da parte del difensore civico penitenziario è rappresentato da quella "zona grigia del diritto" in cui la violazione del diritto umano non si è ancora consumata, ma al contempo l’azione amministrativa ha affievolito il rispetto del diritto stesso: cioè si tratta di situazioni strutturali o di rispetto intermittente odi trattamenti sanitari puntiforme. È vero che l’art. 69 della legge penitenziaria prevede la vigilanza generica. Ma quanto può reggere un sistema in cui il giudice garante (e controllore) della legalità dell’amministrazione periferica è a sua volta controllato dal vertice dell’Amministrazione Centrale, che comunque ha la copertura del Ministro pro-tempore?

Non manca una casistica di intreccio tra diritto alla salute e regimi carcerari differenziati. Nei seminari di autoformazione per i magistrati di sorveglianza emergono casi di applicazione di un regime rigoroso a persone diverse da quelle per cui tali restrizioni furono previste, cioè a quelle di un certo livello di pericolosità, anche penitenziaria: si tratta di quelle persone che invece avrebbero bisogno di una maggiore attenzione sanitaria e psichiatrica.

Queste persone, con l’applicazione dell’art. 14 bis legge penitenziaria, vanno a finire in un sostanziale regime di isolamento dopo avere esaurito varie osservazioni in ospedale psichiatrico giudiziario e questo isolamento non può che accrescerne l’intrattabilità. Dal presente (i diritti negati) all’auspicio per il futuro (l’Ombudsman), nella convinzione che si tratta di una funzione difensiva (e non di giustizia e tanto meno giurisdizionale) o di garanzia, meritevole di una forte legittimazione del Parlamento perché o con la persuasione o coi c.d. poteri sanzionatori, i diritti vengano presi sul serio.

L’analisi della tipologia dei detenuti evidenzia come gli istituti di pena siano la rappresentazione dell’ingiustizia sostanziale. Basta aggiungere che, in meno di due anni, c’è stato un ulteriore aumento di 3.521 detenuti che peraltro confermano la forte percentuale della tipologia giovanile – maschile - meridionale.

Ancora una volta il sottoproletariato urbano meridionale è il prototipo del "prigioniero". Si incarcera di più e si offrono o si lasciano meno alternative sanzionatorie alla detenzione. Il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale non influenza solo i meccanismi di esclusione sociale, ma, agendo sulla contrazione della spesa pubblica, influisce sulla riduzione dei diritti nello stesso luogo dell’esclusione.

Dalla legge finanziaria si traggono 3 esempi: vengono sottratti 20.000.000 di euro ai 95 destinati, nell’anno in corso, all’assistenza sanitaria in carcere: le prime strette avranno effetti nella drastica riduzione della somministrazione di antiretrovirali ai malati di Aids e sull’interferone per l’epatite cronica B e C; la stessa legge ha escluso tutti i fondi per le agevolazioni del lavoro penitenziario, da stanziare ogni anno secondo le previsioni della legge Smuraglia; la contrazione delle somme destinate in precedenza ogni anno agli enti locali per i servizi sociali, già oggetto di contenzioso tra gli stessi enti e lo Stato, avrà inevitabili effetti sui percorsi di alternatività al carcere.

Sono lontani gli anni 70 in cui si avanzavano tesi sull’influenza tra fabbrica e carcere, quasi come vasi comunicanti dell’esclusione sociale: tuttavia, pur riconoscendo i deficit teorici nei modelli esplicativi dei nuovi percorsi di ricarcerizzazione, bisogna prendere atto che in Italia, in questi ultimi anni, nessuna delle tre ipotesi scientificamente offerte (v. per tutti Pavarini) per la spiegazione del fenomeno dell’aumento dei detenuti, è da escludere: l’aumento della criminalità per effetto della lievitazione degli indici di disoccupazione, della crisi dei sistemi di welfare, dell’inasprimento dei sentimenti di deprivazione relativa da parte di ceti marginalizzati; l’attuazione di politiche criminali più repressive; la diffusione nella società civile del sentimento di insicurezza sociale.

Ripartire dal carcere oggi in Italia significa avere a cuore e operare senza preclusioni preliminari su alcuna delle scelte di valore operate dalla nostra Costituzione formale e materiale: la questione centrale dei diritti e dei relativi strumenti di tutela non consente più il "duello al fioretto sui modellini di giustizia penale che, comunque, fanno sempre le stesse vittime sul campo di battaglia.

 

 

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