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Vittorio Agnoletto
Nelle condizioni attuali si pone una questione complessiva, sociale e politica: non potremo mai vincere queste battaglie se non riusciremo ad uscire dall’angolo. Dobbiamo trovare il modo di far vivere questa questione del diritto alla salute in carcere come un problema sociale che non riguarda solo coloro che ne sono coinvolti per la loro attività professionale: siamo di fronte ad una battaglia culturale complessiva. Possiamo sperare di intraprenderla con successo solo se riusciremo ad inserirla in un impegno più ampio per il diritto universale alla salute. Questo convegno si colloca dopo una settimana di grandi mobilitazioni nelle carceri tese a rivendicare obiettivi, per noi tutti qui riuniti, basilari: condizioni di vita più umane e rispetto sostanziale di quelli che sono diritti umani ancor prima che costituzionali. Spero che questa sia anche un’occasione per rilanciare questo tema. Per quanto mi riguarda, parlando di diritto alla salute - che è il mio settore e il settore nel quale la Lila opera ormai da quasi due decenni - inizierei con una considerazione che mi sembra incontrovertibile: la riforma della sanità penitenziaria, voluta dal ministro Bindi con la legge del 21 giugno 1999, oggi è nei fatti, prima ancora che sul piano legislativo, morta e sepolta. L’obiettivo cioè di trasferire la responsabilità della sanità in carcere dal Ministero di Grazia e Giustizia al Servizio sanitario nazionale è un’ipotesi ad oggi bloccata. E con essa è bloccata la garanzia di un diritto sancito nella nostra Costituzione. Ma non è solo un problema di tempi. L’obiettivo è che dentro e fuori il carcere sia possibile accedere alla stessa diagnostica e alla stessa terapia; su questo credo che noi tutti non abbiamo fatto fino in fondo il nostro dovere: non abbiamo appoggiato con forza sufficiente l’unica Regione - mi riferisco alla Toscana - che ha cercato di condurre ad un esito positivo la sperimentazione. Non c’è stata la capacità di costruire un progetto che indicasse con forza quello come un percorso da seguire e quindi oggi, di fatto, si torna a una sanità penitenziaria divisa dal Servizio Sanitario Nazionale: i detenuti non hanno il medesimo diritto alla salute degli altri cittadini. Questo mi pare sia il punto da cui partire per una riflessione collettiva, dentro la quale si collocano più questioni specifiche. La prima: ho l’impressione che la legge 231 del ‘99 quella che ha stabilito l’incompatibilità tra il carcere e l’Aids - stia facendo la stessa fine della riforma sanitaria del ‘78: buone leggi che rimangono sulla carta e che non vengono applicate. lo ho sperimentato personalmente in termini professionali la legge 231, infatti in due occasioni ho svolto l’incarico di perito di parte per un detenuto malato di Aids: in entrambi i casi non ho ottenuto alcun successo. Il detenuto, per quanto fosse in fase avanzata di malattia, è rimasto in carcere. Ma se questa legge non funziona non possiamo addossare tutte le responsabilità all’attuale governo. Entro negli aspetti un po’ più tecnici: durante la discussione di questa legge abbiamo fatto una pressione molto forte sulle Commissioni Giustizia alla Camera e al Senato chiedendo che non fosse una legge unicamente per l’Aids (che può essere utilizzato come un grimaldello al fine di tutelare la salute in senso più ampio) ed infatti la legge stabilisce l’incompatibilità con la detenzione per chi è in Aids conclamato o per chi è affetto da una grave patologia cronica per la quale non è possibile in carcere usufruire delle terapie necessarie. Nei fatti, delle persone con Aids conclamato che si trovano in carcere non esce quasi più nessuno. L’interpretazione utilizzata da quasi tutti i magistrati ha trasformato la "o" in una "e", con il risultato che l’incompatibilità scatta solo quando un malato di Aids è affetto contemporaneamente da una grave patologia cronica per la quale non sia possibile usufruire in carcere della terapia necessaria. Ho letto moltissimi documenti processuali che respingono la scarcerazione sostenendo che il detenuto, seppure in Aids conclamato, risponde alle cure e ai farmaci e non vi sarebbe quindi alcun motivo per procedere alla scarcerazione. Ma la legge non afferma questo: infatti restare in carcere per una persona malata di Aids significa rischiare di raggiungere una bassissima aderenza terapeutica, dato che le terapie oggi disponibili sono complesse, spesso generano diversi effetti collaterali ed è molto difficile rispettare il protocollo terapeutico in un ambiente inidoneo. Meno di un anno fa c’è stato un convegno a Milano in cui i medici del carcere di Opera hanno presentato una ricerca molto interessante secondo cui anche quei detenuti che continuano a seguire in carcere le terapie antiretrovirali hanno bassissime possibilità di aderenza terapeutica e gli stessi dati clinici di quelle persone difficilmente migliorano, perché non si è in grado di garantire nella maggior parte dei casi, durante l’arco della giornata, la corretta somministrazione dei farmaci. Ma cosa accade nella concreta applicazione della legge? Ho constatato che molti magistrati rispondono alle istanze di scarcerazione dicendo: "Il detenuto è in Aids conclamato, è di conseguenza incompatibile con la detenzione, quindi lo si invia a un centro clinico penitenziario". Ma questi centri clinici sono, sotto tutti gli aspetti, dei veri e propri reparti penitenziari istituiti dal governo precedente con l’obiettivo di rinchiudervi i detenuti malati di Aids. Vi è quindi un’evidente contraddizione: un detenuto malato di Aids è incompatibile col regime carcerario e quindi va al centro clinico. Come è possibile? Dovremmo capire anche perché un magistrato risponde così. Di fronte a campagne mediatiche molto aggressive sul tema della sicurezza svolte negli anni precedenti, e attive ancora oggi, un magistrato cerca tutte le modalità per evitare di esporsi e di essere sottoposto ad un vero e proprio linciaggio da parte di un’opinione pubblica fomentata da gran parte dei media. L’invio del detenuto malato di Aids ad un centro clinico penitenziario mette a posto la coscienza e pone il magistrato al riparo da eventuali critiche. La situazione diventa ancora più complicata in mancanza di una convenzione tra istituti penitenziari e ASL: attualmente circa solo il 500/0 dei penitenziari hanno ratificato una simile convenzione. Una delle cause di tale situazione è che i costi che il sistema penitenziario è disposto a pagare per le prestazioni sanitarie sono talmente bassi che le ASL, che oggi funzionano in modo molto simile alle aziende private, ritengono che non sia conveniente fornire tali servizi. Risultato: non viene stipulata la convenzione o viene realizzata in modo parziale per cui, ad esempio, l’ospedale è disposto a fornire l’assistenza ma senza inviare proprio personale in carcere; è il detenuto che va trasportato al reparto malattie infettive, con tutte le difficoltà organizzative che si possono facilmente immaginare: scarsità del personale addetto al trasporto dei detenuti ecc. Inoltre il Ministero della Salute ritiene che i centri clinici penitenziari (che secondo i magistrati funzionano come reparti di malattie infettive) non siano rispettosi dei criteri di legge per essere considerati a tutti gli effetti reparti di malattie infettive; di conseguenza il personale operante in tali centri non può prescrivere i farmaci antiretrovirali a meno che non sia convenzionato con un reparto di malattie infettive ed in tal modo il cerchio si chiude: una dignitosa assistenza sanitaria continua ad essere, in tali condizioni. un puro miraggio. Ci sono istituti penitenziari che sono riusciti ad organizzarsi meglio e quelli che invece restano in condizioni disperate, questa è la situazione in Italia. L’assistenza "a macchia di leopardo". La legge afferma che il giudizio sulla compatibilità tra detenzione e Aids dovrebbe essere espresso dai magistrati, pur nella loro discrezionalità, in base ad una valutazione sulla pericolosità sociale del singolo detenuto. Spesso invece i giudizi espressi non c’entrano nulla con tale valutazione. Tornando all’Aids, è noto come oggi se ne parli molto meno, tutti sappiamo perfettamente che le terapie possono prolungare la sopravvivenza anche per 20 anni, ma questo non significa che il virus sia stato sconfitto. Non esiste infatti nessun cocktail di farmaci in grado di distruggerlo e chi maneggia un minimo i numeri epidemiologici sa che, in assenza di efficaci campagne di prevenzione, l’aumento dell’attesa di vita delle persone sieropositive comporta il moltiplicarsi dei potenziali "vettori d’infezione" e quindi della possibilità di diffusione del virus Hiv. Nell’attuale contesto mediatico e governativo l’Aids è stato completamente rimosso, figuriamoci quale attenzione può essere riservata ai detenuti malati di Aids! E su questa evidenza si innesta la perdita dell’Aids come chiave paradigmatica intorno alla quale porre il problema della sanità in carcere. Questo è, a mio avviso, lo scenario al giorno d’oggi, salvo interessanti ma limitate eccezioni. Non è migliore la situazione rispetto alla tossicodipendenza. Rischiamo di perdere una battaglia storica nel momento in cui da parte del governo si cerca di azzerare l’utilizzo del metadone, di depotenziare i Ser.T. e, contemporaneamente, si progetta di ricondurre tutto ad un’impostazione esclusivamente clinica all’interno dell’ospedale. Nel caso tale impostazione dovesse realizzarsi la somministrazione del metadone diventerebbe un’esclusiva delle strutture ospedaliere. Gli interessantissimi dati di un lavoro dell’associazione Antigone dicono che, in carcere, sono circa l’8% i tossicodipendenti che usufruiscono del metadone. In base alla mia esperienza professionale mi pare di poter affermare che la maggioranza di costoro sono in trattamento con metadone "a scalare". È interessante analizzare come, molto spesso, questo protocollo terapeutico venga applicato. Il detenuto inviato nel "braccio dei tossicodipendenti" può usufruire del metadone a scalare ma, in tale braccio, non può farsi da mangiare per proprio conto, né può usufruire di facilitazioni disponibili in un’altra zona del medesimo penitenziario; in tal modo il detenuto aspetta solo di poter abbandonare tale collocazione e di tornare in un braccio normale dove, mentre non potrà ricevere del metadone, verrà imbottito di psicofarmaci. Purtroppo tutto lascia pensare che questa sia una situazione destinata a peggiorare perché l’offensiva ideologica e culturale contro l’utilizzo del metadone è tutt’altro che superata ed anzi agisce a tutto campo ed infatti è rivolta sia verso chi sta dentro, così come verso chi sta fuori dal carcere. Sembra quasi di poter dire che in questo campo non vi sia un limite al peggio. In un convegno svoltosi a Milano nel maggio del 2000 era stato, già allora, lanciato un messaggio di forte preoccupazione: si sosteneva che nei penitenziari del nord Italia il 40% dei tossicodipendenti faceva uso di eroina durante la detenzione e che il 7% dei tossicodipendenti dichiarava di essersi fatto il primo buco proprio in carcere! Io non so se sia i17% o il 10% o il 2%: penso che questi siano elementi comunque preoccupanti e che in simili condizioni risulta evidente come il carcere non possa rappresentare certo un ambito di recupero dalla tossicodipendenza. Anche perché, senza andare a scomodare i lavori di Perucci sulle overdosi nel primo periodo di scarcerazione e sull’assenza di un valido servizio di sostegno e di collegamento tra l’uscita del carcere e i percorsi di reinserimento sociale, tutto questo è ulteriormente complicato dalle nuove figure di detenuti: immigrati tossicodipendenti, utilizzatori di cocaina, di "nuove" droghe e non solo di ecstasy. Mi sembra che anche su questi specifici aspetti non si stiano compiendo passi significativi. Tutti noi abbiamo una battaglia in comune che è rimasta in sospeso ormai da cinque anni. Mi riferisco alla vicenda che coinvolse nel ‘97 Cinzia M.: nonostante dopo un periodo di tossicodipendenza avesse portato a termine con successo un suo percorso di reinserimento sociale, rischiava di rientrare in carcere, perché nel frattempo era diventata definitiva la condanna per reati commessi in anni precedenti e il cumulo di pene era tale che non vi era spazio per misure alternative. Altro che ruolo riabilitativo della detenzione, per Cinzia il rischio era quello di rientrare in un circuito a forte rischio di ricadute! Il caso esplose durante la Conferenza nazionale sulle droghe e da parte di tutti ci fu un grande pronunciamento in solidarietà di Cinzia ed il Presidente della Repubblica le concesse la grazia non senza invitare il Parlamento a modificare la legislazione. Una proposta era quella di istituire una sospensiva: se per 6 anni la persona condannata per reati connessi con la sua passata condizione di tossicodipendente non commetteva altri reati non avrebbe dovuto scontare la pena. L’idea era quella di una scommessa sulla capacità di portare a termine un percorso di reinserimento sociale. Non se ne fece nulla. Nelle condizioni attuali si pone una questione complessiva, sociale e politica: non potremo mai vincere queste battaglie se non riusciremo ad uscire dall’angolo. Dobbiamo trovare il modo di far vivere questa questione del diritto alla salute in carcere come un problema sociale, che non riguarda solo coloro che ne sono coinvolti per la loro attività professionale: siamo di fronte ad una battaglia culturale complessiva. Possiamo sperare di intraprenderla con successo solo se riusciremo ad inserirla in un impegno più ampio per il diritto universale alla salute. Voglio ringraziare Luigi Ciotti perché sabato scorso dal palco di Roma non solo ha criticato il disegno di legge Cirami, una legge finalizzata alle esigenze di un paio di parlamentari un po’ particolari, ma perché ha sottolineato con determinazione che quando si parla di carcere e giustizia si deve parlare anche di immigrati e di tossicodipendenti. Questi sono i messaggi forti che noi dobbiamo lanciare a quel settore di società civile che si è mobilitata contro la legge Cirami per ribadire che la legge deve essere uguale per tutti. Infatti se la legge è uguale per tutti deve essere uguale per il Presidente del Consiglio così come per l’immigrato e per il tossicodipendente ed avere uguali diritti significa, tra l’altro, poter usufruire del diritto all’assistenza sanitaria. C’è un ultimo argomento che vorrei ricordare brevemente: è relativo all’ipotesi di privatizzazione delle carceri. Una scelta gravissima anche in termini culturali perché rappresenta una rottura totale con la concezione del diritto su cui poggia la nostra Costituzione. Se il meccanismo federalista conduce al fatto che l’assistenza sanitaria viene diversificata a secondo delle regioni di residenza e quindi anche del reddito, la privatizzazione delle carceri condurrebbe ad un trattamento differenziato con un grande potere discriminante e discriminatorio nelle mani del singolo gestore privato. A queste considerazioni si aggiungerebbero, nel breve periodo, una serie di incentivi di cui andrebbero a beneficiare tutte quelle comunità che dovessero decidere di candidarsi a gestire i penitenziari. Non si può non ricordare a questo proposito che tra le comunità che si candidano già ora a questo ruolo ve ne sono alcune che sono escluse dalla convenzione con il Ministero degli Affari Sociali perché non rispettano i parametri previsti, ad esempio per la formazione degli operatori. È assurdo: si delega la gestione di una struttura come il carcere a coloro che hanno scelto di non rispettare i parametri minimi indicati come indispensabili dallo Stato nel campo dell’assistenza socio-sanitaria! Credo che su questo punto dobbiamo opporci fino in fondo e nessuno deve accettare di stare dentro tale ipotesi magari invocando il solito alibi che tante volte ci siamo sentiti ripetere: "Se non prendo io questo servizio, se non ne accetto le regole, se non sto al passo con il politico locale, quanti poveretti rischiano di rimanere per strada! Chissà chi gestirà quelle carceri, in fondo è sempre meglio che in tali ruoli vi siano persone come me, attente, disponibili...". Noi tutti abbiamo vissuto questi dilemmi ma su alcune questioni di principio non si può cedere: se saltano i diritti, saltano i principi e salta l’equità.
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