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Claudio Cippitelli
In quale direzione, oggi, si devono muovere gli interventi di prossimità e il lavoro di strada che hanno come focus di impegno e di azione i nuovi stili di consumo di sostanze psicoattive"? In che modo devono essere presenti gli adulti nei nuovi luoghi della notte che si sono andati affermando, soprattutto tra i giovani, a partire dalla metà degli anni 80? Quali riflessioni avanzare e quali metodologie d’intervento applicare di fronte ai rapidi mutamenti degli stili di fruizione della notte e ai cambiamenti (qualitativi e quantitativi) che sono intervenuti nella scena techno italiana? Il mio compito è quello di rendere operativi concetti che a questo tavolo sono stati tematizzati con grande capacità, acutezza e intelligenza da chi mi ha proceduto. Tenterò di svolgere questo compito sulla scorta dell’esperienza maturata all’interno del Coordinamento nazionale nuove droghe, esperienza che in questi anni ha visto tanti colleghi dei servizi pubblici e di associazioni del privato sociale impegnarsi nell’animare la riflessione e organizzare interventi in questo campo. La scelta di continuare a chiamarci Coordinamento nazionale nuove droghe (CD), esponendoci alle critiche di chi (giustamente) afferma che in verità non c’è nulla di nuovo nel panorama degli stupefacenti, è dettata senz’altro da motivi affettivi rispetto ad un periodo nel quale a interessarsi di queste cose si era davvero in pochi. Più seriamente, riteniamo che tutto sommato sia ininfluente sapere che nel 1930 qualche decina di individui usasse metamfetamine: nella realtà dei consumi illegali in Italia parlare di "nuove droghe" individua un ambito specifico, un inedito uso e modo d’uso di sostanze stupefacenti che, pur sintetizzate agli inizi del secolo, solo alla fine del millennio hanno assunto significato per chi le andava consumando e per chi, professionalmente, ha voluto occuparsene. Quello che interessa, inoltre, è che attraverso (e per mezzo) di un nuovo fenomeno di consumo (l’ecstasy), la policy community impegnata nell’implementazione delle politiche pubbliche sulla droga e, più in generale gli adulti, sono stati costretti a riparlare di giovani e a riparlarne in modo nuovo. In qualche modo abbiamo assistito a quello che gli anglosassoni chiamano serendipity: partendo dalla ricerca su quello che sembrava semplicemente una nuova forma di consumo di un diverso gruppo di stupefacenti, abbiamo incontrato ben altro (la notte, le nuove sonorità, la danza, le nuove forme di espressione giovanili, il piacere...) e con questo altro siamo stati costretti a confrontarci. Il CND raccoglie una buona parte delle realtà, del pubblico e del privato sociale, che in questi anni hanno condotto programmi di ricerca e di intervento in questo campo. Avremmo potuto fare di più, e soprattutto lo avremmo dovuto fare prima. Siamo arrivati con grande ritardo. Sono stati più attenti altri: ad esempio è arrivato prima Carlo Verdone con il suo film: Al lupo, al lupo, nel quale descriveva, grottescamente, una realtà assolutamente osservabile (da parte di chi ne avesse avuto voglia). Noi ci abbiamo messo un po’ più di tempo, superando routine organizzative e diaframmi culturali che ci facevano velo. Alla fine ci siamo arrivati e, nel prendere in mano un oggetto, i nuovi stili di consumo, crediamo di aver contribuito a rivoluzionare approcci, metodologie e strumenti del lavoro di prevenzione e riduzione dei rischi. Quello che mi spetta è tentare una riflessione sul processo che ci ha portato alla costruzione di metodologie nuove, che ci ha fatto frequentare posti assolutamente estranei alla normale prassi dell’intervento sociale. Quella che abbiamo davanti è una realtà dove è assolutamente importante esercitare ciò su cui ci ha richiamato Luigi Ciotti aprendo questo convegno: si tratta di luoghi dove esercitare il dubbio piuttosto che brandire certezze ed esercitare facili slogan. Per quanto riguarda alcuni fenomeni giovanili, risulta già difficile solo osservarli nella fase embrionale, molto spesso li rincorriamo e soltanto per rincorrerli fatichiamo molto. Come siamo riusciti a recuperare il tempo e rincorrere utilmente (almeno spero) i "nuovi stili di consumo"? Qual è il valore aggiunto che abbiamo proposto in questi anni come ulteriore oggetto del nostro intervento? Lo ricordava questa mattina Roberto Merlo quando diceva che non si può fare intervento sociale senza ricerca. Penso che questo sia un punto di partenza sul quale dobbiamo tornare continuamente a riflettere. Con la ricerca, magari a carattere longitudinale, forse non capiremo ugualmente la complessità della realtà sociale ed in particolare il turbolento (e vitalissimo) mondo giovanile, ma forse aiuteremo i decisori politici e noi stessi a non compiere gli errori più gravi ed evitare i danni più macroscopici. Purtroppo lo stato della ricerca in Italia, a parte esempi di grande valore come le periodiche ricerche IARD sui giovani, non è tra i più brillanti. Se poi ci si basa su quanto viene riportato dalla stampa, il panorama si fa desolante. Per fare un esempio, ho portato quattro titoli di articoli che intendono definire il mondo giovanile, presi dallo stesso importante quotidiano nazionale, apparsi nel breve lasso di tempo che va dal 23 aprile 2002 al 13 agosto dello stesso anno: 23/04/02, "Generazione Y: i ragazzi no logo nella trappola del mercato. Figli di Internet, hanno enorme potere d’acquisto e la pubblicità studia come catturarli". 08/06/02, "I brontosauri del paradiso Italia. Identikit dei giovani under 24. Sono sempre meno, adorano vivere in famiglia senza contribuire alle spese e ai lavori domestici, sono apatici ma felici". 27/06/02, "Figli egocentrici e senza illusioni. "La loro è solo una vita di riflesso". Madri e padri cinquantenni più impegnati socialmente della prole, conservatrice e viziata". 13/08/02, "I nuovi giovani. Che bravi i ragazzi italiani, sono i meno sbandati d’Europa. {;n rapporto traccia l’identikit degli adolescenti. Quindici paesi a confronto: assolta la famiglia, lo Stato no". Se un decisore politico dovesse tenere conto di questo tipo di approccio e di ricerca, io non so quale policy sarebbe spinto ad implementare. Da queste titolazioni compaiono, con grande chiarezza, quale distanza cognitiva separa gli adulti (almeno quelli che scrivono i titoli) dalla realtà del mondo giovanile, quanto disprezzo trasudi dal loro pensiero nei confronti della discendenza, quanto questi adulti siano alla ricerca, piuttosto che di un confronto vero, di una qualche forma di rassicurazione ("brontosauri conservatori e viziati", "apatici". "egocentrici e senza illusioni". "ma i nostri pupi sono i migliori d’Europa", evviva). Quella cui noi siamo chiamati è un’attività di ricerca (speriamo) davvero diversa. Si tratta di utilizzare tutti gli approcci che le scienze sociali e dell’uomo mettono a disposizione, dall’osservazione partecipante agli strumenti sociologici quantitativi. L’obiettivo da ricercare non deve essere la costruzione del famoso identikit (dei giovani, degli adolescenti, del consumatore di ecstasy...) cosi patetico nel suo non identificare in realtà nessuno, ma cosi offensivo nel suo ricondurre ad un grottesco indistinto individualità, gruppi, movimenti di ben altra ricchezza e complessità. Preferiamo una ricerca anche limitata, provvisoria nei risultati, che apra più domande di quante ne chiuda, ma condotta tentando un certo rigore scientifico e (sempre) nel rispetto per il soggetto - oggetto della ricerca. In questo periodo è in corso di realizzazione, a cura di diversi gruppi del coordinamento nazionale, una ricerca che chiede ai ragazzi che incontriamo nei contesti (commerciali o auto organizzati) del loisir notturno di raccontarci quali problemi, contrattempi o malori ricordano di aver avuto conseguentemente all’assunzione di sostanze stupefacenti. L’elenco che sembra risultarne è abbastanza lungo, le risposte che ci stanno arrivando ci dicono che i ragazzi ricordano eventi più o meno spiacevoli legati al consumo di alcool e di droghe, che vanno dalla mancanza dell’appetito sino alla crisi psicotica. Nella domanda successiva, quando abbiamo chiesto loro a chi si erano rivolti per un consiglio o un aiuto, emerge chiaramente che non si rivolgono a nessuno. che non hanno nessuno con cui parlare di queste piccole, grandi crisi del loro quotidiano. Quando viene indicato qualcuno, quel qualcuno sono gli amici, alcune volte operatori incontrati li dove i consumi avvengono. Davanti a questo tipo di realtà un decisore di politiche sociali cosa dovrebbe fare? Dovrebbe pensare che, forse, la peer education potrebbe essere un an1bito dove investire: dovrebbe pensare, forse, che sia utile costruire, implementare, lanciare politiche di empowerment dei contesti locali, potenziando ed arricchendo le occasioni di relazione, sia tra le generazioni sia tra pari, che possano in qualche modo raccogliere le istanze, i problemi che i ragazzi incontrano nel loro processo di crescita. Dovrebbe, infine, rendersi conto dell’estrema importanza che riveste la presenza di servizi e di operatori nei luoghi informali di aggregazione giovanile, sia diurni che notturni. La ricerca quindi può utilmente orientare razione, come la raccolta di storie di vita ed altri strumenti qualitativi possono aiutare a comprendere fenomeni nuovi e modificazioni di comportamenti che, pur riguardando in modo particolare i giovani, avvertono mutamenti che riguardano anche il mondo adulto. Alberto Melucci, un sociologo recentemente scomparso e verso il quale abbiamo un debito di riconoscenza, scriveva che i giovani non sono come tali attori conflittuali ma, quando questo accade, le mobilitazioni giovanili funzionano da rilevatore, portando alla luce domande profonde, problemi e tensioni che riguardano l’intera società. Partendo da questa considerazione, forse possiamo comprendere che fare ricerca sui diversi stili di vita dei giovani e sui loro stili di consumo può aiutarci a comprendere qualcosa in più anche su come siamo noi, scoprendo, ad esempio, che la ricerca del piacere non è qualcosa che appartiene soltanto a loro, ma che essa è qualcosa di costitutivo anche nella nostra vita. Se partiamo da qui, dalla comune ricerca e dal comune bisogno di piacere, possiamo comprendere qualcosa anche degli abusi; se neghiamo questa comune propensione, o peggio, se gli attribuiamo una valenza negativa, difficilmente riusciremo a fare utilmente lavoro di prossimità con gruppi giovanili. Altro ambito importante rispetto al quale il coordinamento si è impegnato in questi anni è come fare comunicazione preventiva e informazione sulle nuove droghe. Spesso si sente parlate con una certa sufficienza di inforn1azione, riducendo tutto alla semplice produzione testuale del materiale informativo. Eppure, se prendiamo tutto il materiale fatto in 2.5 anni di intervento sulle tossicodipendenze e lo mettiamo, fisicamente, vicino a quello che abbiamo inventato per parlare di nuove droghe, chiunque si può rendere conto della grande innovazione che ha riguardato tutti i linguaggi che determinano lo strumento, a partire dalle grafiche sino al tipo di supporto, Per fare informazione su temi che, direttamente o indirettamente, ritenevamo interessassero e coinvolgessero i giovani in generale, siamo stati costretti ad abbandonare routine consolidate (il volantino, i librettino delle avvertenze, "l’esperto" a scuola). Abbiamo voluto rinnovare le nostre metodologie comunicative, spesso mutuando vivacità e creatività direttamente dal rapporto con i gruppi che andavamo incontrando. Tutto quello che abbiamo fatto, e che continuiamo a fare, ha significato riconoscere che i linguaggi da adoperare non possono essere esclusivamente verbali (ovvero quelli più rassicuranti per gli adulti), ma che occorre cimentarsi su terreni inediti, rispetto ai quali sono indispensabili i contributi dei giovani ai quali è diretta la comunicazione: le immagini, prima di tutto, rispetto alle quali i giovani possiedono codici interpretativi e cataloghi immensi; ma anche linguaggi che coinvolgano il corpo e i suoi sensi (i video, la musica, body e hair painting). Fare informazione, inoltre, significa rendersi conto che non è utile semplicemente "parlare ai giovani". ma che dobbiamo continuamente scomporre il nostro target, offrendo informazioni specifiche per gli adolescenti e per i giovani adulti, per chi frequenta contesti commerciali e per chi preferisce i rave; soprattutto ci siamo resi conto che rinformazione non può mai prescindere dalle differenze di genere, che verso le ragazze vanno garantite attenzioni specifiche. Fare informazione, naturalmente, è solo un aspetto del lavoro di prevenzione e riduzione dei rischi. Ma l’approccio che si sceglie, ad esempio, nel confezionare il materiale informativo può dire molto sull’etica che sta alla base dell’intero intervento. Ed è particolarmente significativo che nella "Terza conferenza sulla droga" di Genova, tra le altre, vi fosse una sessione dedicata all’etica dei trattamenti e delle prevenzioni, nel cui documento di sintesi si raccomanda "...la necessità di un profondo rispetto dei soggetti destinatati. È indispensabile conoscere ed accettare, non sfidare le convinzioni dei gruppi target, sia che si tratti di azioni informative che di azioni dirette agli stili di vita o alla rimozione di alcune concause". A Genova ci sembrava, sulla scorta di queste affermazioni, di aver raggiunto un punto cardine. Quello cui stiamo assistendo ultimamente, ad esempio la nuova campagna governativa che ha scelto lo slogan "O ci sei o ti fai" ci amareggia molto. prima di tutto come scienziati sociali: riteniamo sia un approccio inutile in generale (perché è discriminatorio), lontano da quanto raccomandato nella letteratura scientifica e del tutto inservibile per chiunque voglia agire nei contesti dove i consumi avvengono. E in quei contesti. la nostra volontà, la volontà dei gruppi del CD è di continuare ad esserci.
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