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Salvatore Cacciola
Le politiche sociali sulle tossicodipendenze nelle Regioni del Sud per molti versi appaiono paradigmatiche delle scelte che si stanno realizzando a li vello nazionale. Per sintetizzare l’attuale fase di transizione che vivono le Regioni meridionali si potrebbe prendere a prestito il titolo di un libro di Leonardo Sciascia, la Sicilia come metafora. È infatti una Regione emblematica del nostro Paese che da oltre mezzo secolo ha ampi poteri di autonomia conferiti dallo statuto speciale ma che attua politiche sociali residuali e per nulla innovative, in particolare sul tema della lotta alla droga. In diverse Regioni meridionali siamo ancora lontani dal delineare un diverso modello di welfare da contrapporre allo Stato sociale tradizionale, per il semplice fatto che di welfare se ne è visto poco e quasi esclusivamente nella versione dell’assistenzialismo e della monetizzazione del bisogno. Le politiche contro la droga avviate negli ultimi anni sono sembrate frammentarie, improvvisate e discontinue. In Sicilia è stata parzialmente applicata la legge 45/99 e il trasferimento del Fondo nazionale di lotta alla droga alla Regione ha prodotto circa tre anni di ritardo nell’utilizzazione delle risorse finanziarie destinate al finanziamento dei progetti di prevenzione e di reinserimento sociale. Se il federalismo avrà la Sicilia come esempio, gli entusiasti sostenitori della riforma del titolo V della Costituzione avranno qualche difficoltà a riconoscere maggiore efficienza ed equità nel ruolo delle Regioni meridionali, almeno di alcune. Nell’evidenziare questa incongruenza tra aspettative di efficienza e di sussidiarietà della maggioranza degli italiani e i concreti risultati realizzati dalle Regioni meridionali non c’è alcuna nostalgia dello Stato centralista ma una preoccupazione: che una devoluzione più o meno spinta potrebbe acuire le differenze territoriali in tema di politiche sociali, con il rischio di abbandonare ad una deriva di marginalità e di inefficienza i servizi sociali di una parte consistente delle Regioni del Sud. Queste affermazioni non intendono proporre nessun ripensamento ad un progetto di riforma istituzionale, ma avviare una riflessione critica e disincantata sugli "effetti taumaturgici" del federalismo. A conferma di quanto prima affermato basterebbe analizzare lo stato di attuazione della legge quadro 328/00. Ad eccezione della Regione Campania, in tutto il Mezzogiorno non sono stati predisposti i piani di zona e sembrano improbabili modalità di allargamento universalistico delle prestazioni e dei servizi alle fasce più deboli della popolazione. I ritardi nella applicazione nazionale della 328 non giustificano un sostanziale immobilismo di molte amministrazioni regionali, a statuto ordinario o speciale. Le Regioni appaiono scarsamente attrezzate a governare i processi di innovazione delle nuove politiche sociali. Oltre le dichiarazioni di principio, si assiste ad una utilizzazione del Fondo nazionale per le politiche sociali come un’occasione per integrare le scarse risorse finanziare degli Enti locali. A tal riguardo la Regione Sicilia rappresenta un laboratorio di questo "ritorno al futuro" che si esprime in una sostanziale continuità con il passato con alcuni ritocchi d’immagine. Si registra, con le rare eccezioni, un generale immobilismo delle politiche pubbliche regionali caratterizzate da: progressiva riduzione della spesa sociale e dei trasferimenti dalle Regioni ai Comuni; mantenimento di una quota prevalente dei servizi sociali al privato (profit e non); disomogeneità della presenza dei servizi sociali sul territorio; discontinuità ed eccessiva precarietà dei progetti di prevenzione e di inclusione sociale. Paradossalmente, il Mezzogiorno è più attrezzato ad un modello di welfare residuale, si tratta di dare continuità a una consuetudine di delega al privato di mercato senza alcuna capacità di riqualificazione della spesa ne di governare le risorse limitate. Le esperienze realizzate in questi anni, sia dal terzo settore che da diversi servizi pubblici, vanno valorizzate e sostenute, ma sarà indispensabile associare al decentramento delle competenze istituzionali dallo Stato alle Regioni anche le expertise e le professionalità di cui attualmente sono carenti le amministrazioni regionali e comunali. Senza una forte capacità di governo degli Enti locali, le differenze territoriali e sociali rischiano di aumentare. Anziché costruire un sistema di sicurezza sociale si potrebbero consolidare nel nostro Paese tanti ed esasperati municipalismi. Così come sembrano oltremodo prevedibili conflitti tra un neocentralismo regionale e le spinte all’autonomia ed al decentramento dei comuni. Senza un’idea condivisa di un nuovo welfare la riforma del titolo V risulterà per il Mezzogiorno una delle tante riforme incompiute, seppur irreversibili. Lo scenario si presenta quindi pieno di incognite e con tanti segnali che preludono nel Mezzogiorno, e non solo, al "welfare della beneficenza" e dell’assistenza. Se alcune tendenze non inducono a facili entusiasmi, bisogna comunque considerare il ruolo particolarmente significativo che è stato svolto in questi anni dagli operatori impegnati in alcuni servizi territoriali collocati all’interno del Servizio sanitario nazionale, ma con un alto livello di integrazione socio-sanitaria. I Ser.T. hanno rappresentato in molte Regioni meridionali la possibilità di avviare volta una rete articolata di servizi pubblici sul territorio. I.:unico servizio pubblico territoriale sanitario, a parte le condotte mediche e le guardie mediche, erano i consultori. I Ser.T. hanno costituito una modalità abbastanza diffusa di una presenza di un servizio pubblico sul territorio, integrandosi con le esperienze del privato sociale. Realizzare un’analisi sul sistema di welfare nel Mezzogiorno significa pensare, oltre ai dati istituzionali, economici e politici, agli operatori, alle famiglie, alle persone. Se per un momento consideriamo il punto di vista degli operatori, si registra un vissuto di smarrimento. Le notizie più inquietanti della chiusura dei Ser.T. arrivano anche al Sud, ma si ha la netta sensazione che il messaggio più forte sia quello del mantenimento di un’omeostasi. I servizi socio-sanitari non verranno cancellati, ma da tempo vengono progressivamente svuotati di significato e di legittimazione. Al territorio vengono assegnate meno risorse di personale, meno attenzione culturale, riducendo la 328/00 ad una banale legge di spesa. li dibattito sulla costruzione di un nuovo sistema di sicurezza sociale nel Sud non può ridursi alla mediazione di un conflitto tra le lobby forti: da una parte quella degli operatori, dall’altra una parte del terzo settore. Nel Mezzogiorno non è così semplice individuare un fronte unico del terzo settore, in particolare delle comunità terapeutiche. Anche nel no profit ci sono inclusi ed esclusi. Ci sono soggetti del terzo settore che contano e hanno più potere contrattuale di molti operatori pubblici e di molti assessori, e accanto ad alcuni colossi dell’assistenza vivono organizzazioni di volontariato deboli. È quindi comprensibile che nel dibattito sulle tossicodipendenze sia alto il rischio di autoreferenzialità e di un neocorporativismo strisciante. Bisognerà chiedersi quanto attualmente venga tenuto in considerazione il parere degli operatori, dei consumatori e delle loro famiglie. Ho l’impressione che sempre di più si sia inaugurato una modalità di gestire le risorse nella quale l’utente finale, gli operatori, sia delle comunità sia dei Ser.T., diventano sempre più un disturbo. Nel ripensare a nuove politiche sociali nella lotta contro la droga bisognerà porre a vecchi e nuovi decisori politici alcune questioni di metodo senza le quali si costruirà sulla confusione. Quale sarà il ruolo del servizio pubblico? Il dibattito sulla creazione del Dipartimento delle dipendenze, così come prefigurato, probabilmente entrerà in conflitto con regole e stili di comportamento delle Aziende sanitarie locali. Bisognerà capire come rendere conciliabili i vincoli di budget con l’autonomia gestionale e di programmazione del dipartimento. Come valorizzare le esperienze pluriennali di collaborazione tra Ser.T. e comunità terapeutiche realizzando nuove alleanze con gli enti locali (vedi legge 328/00)? Gli impegni che ci attendono nei prossimi anni sono particolarmente difficili poiché sarà indispensabile valorizzare alcune esperienze di integrazione e buone pratiche. Queste pratiche sociali, di inclusione e di cura, appaiono in questo momento storico particolarmente prezioso. li lavoro comune tra servizi pubblici e terzo settore è un lavoro che non verrà cancellato, ma è anche importante immaginarsi nuovi percorsi di condivisione di un’appartenenza ad un progetto comune e nuovi percorsi di condivisione di linguaggi, di contenuti e di strumenti nuovi per organizzare la risposta dei servizi. In tutto questo nuovo scenario la fragilità delle burocrazie regionali rappresenta un punto di criticità che non va sottovalutato. Nel prossimo futuro un ruolo promozionale continueranno ad assolverlo le amministrazioni locali, con le quali è indispensabile definire nuove forme di collaborazione. L’elaborazione dei Piani di zona ai sensi della legge 328/00 rappresenta l’occasione per dare concreta attuazione ai suoi principi e potrebbe diventare un concreto banco di prova per sperimentare una serie di contenuti presenti nel dibattito nazionale sui nuovi modelli di welfare. Rispetto allo smarrimento delle persone che in questi anni hanno lavorato nel campo delle tossicodipendenze, proprio a partire da questo convegno di Torino, si tratta di rilanciare il dibattito, non soltanto pensando che la frontiera nuova degli operatori sarà il dipartimento, ma riconoscendo il bisogno di operatori e amministratori locali di riaggregarsi e di condividere un’idea nuova di welfare. L’elaborazione scientifica e politica di Strada facendo avrà un significato se sarà in grado di diffondersi nelle realtà locali e se sarà in grado di attivare processi di elaborazione culturale. Le politiche sociali non possono più attendere produzioni ambigue o confusione tra spinte neocorporative e un federalismo o una devolution che, permettetemi la battuta, si potrà rappresentare, come nel film di Troisi, con il pagamento di un fiorino ogni qualvolta si passi il confine di un territorio comunale. A questo federalismo siamo poco interessati. |