Renato Bricolo

 

Renato Bricolo

 

Quando si cominciò a considerare la necessità di iniziare ad incontrare i giovani nei loro luoghi di riunione e di divertimento, l’operazione appariva impossibile: la maggior parte di noi viveva questi luoghi, e le ritualità ad essi collegati, non solo come lontani, ma come inaccessibili. D’altro canto, quando manteniamo lontani ed estranei luoghi o persone, è facile proiettare su questi le interpretazioni e le rappresentazioni peggiori, (ma queste fantasie dimostrano che in qualche modo questi temi ci appartengono).

I luoghi fisici e psichici dove si realizzano i primi incontri spontanei, la scoperta dell’altro, dove l’adolescenza comincia ad esprimersi in modo autonomo e celato ai "diversi" dagli adolescenti stessi, ci apparivano come luoghi assolutamente negativi, da distruggere, violare, non rispettare; le persone che ci lavorano, soprattutto quelle delle discoteche, apparivano poco più che protettori di malaffare, spacciatori di droghe e alcol, sordidi soggetti che approfittano degli istinti e dell’inesperienza dei giovani per lucrare indegnamente su di loro.

Pur tuttavia, era incontrovertibile che anche nel nostro Paese stava prendendo piede una ritualità, un modo di vivere, e di vivere la notte soprattutto, originali rispetto al passato: appariva dunque logico e sensato pensare di andare a lavorare in una prospettiva di conoscenza, prevenzione e informazione proprio nei luoghi in cui avvenivano questi incontri spontanei di gruppi sostanzialmente omogenei.

Le esperienze straniere ci rassicuravano e da li cominciò la lunga marcia di avvicinamento al mondo della notte, che ci portò non solo a lavorare - molto spesso felicemente - in quei luoghi, ma addirittura a collaborare con i gestori e, più in generale, con il mondo della notte. Maria Teresa Torti fu uno splendido e sicuro punto di riferimento, accanto a molti DJ, organizzatori e operatori con i quali fu possibile iniziare e proseguire nell’intesa, nella comprensione e nella collaborazione reciproche. A mano amano che l’esperienza procedeva, si cominciò a legare all’intervento prevalentemente - e goffamente, forse di prevenzione, anche un intervento di conoscenza, di relazione e rapporto, attraverso questionari, dialoghi; i gruppi romani che facevano capo al "Mosaico" di Roma e il CAT di Firenze cominciarono per primi a proporre questionari, ai quali, inaspettatamente, risposero in molti. Fu cosi possibile iniziare a raccogliere dati e notizie su quell’universo quasi completamente sconosciuto, sulle abitudini, sulla propensione all’utilizzo delle sostanze, sulla collocazione sociale dei giovani, consumatori e non.

Questo processo permise di documentare il fenomeno, di connotarlo nella sua drammaticità - che non venne mai nascosta, con buona pace dei detrattori di simili iniziative, che si limitavano ad accusarci di essere fiancheggiatori, se non istigatori, di esperienze legate all’assunzione di droghe da parte dei giovani e di vedere come questo fenomeno coinvolgesse per la grande maggioranza giovani con stili di vita normali, studenti e lavoratori. E permise di comprendere come, anche nel nostro Paese, stesse prendendo piede una tendenza spontanea di spostamento dell’esperienza, che, in questi contesti, lasciava la dipendenza in favore dei consumi, consumi molto rischiosi, ovviamente, ma comunque "altri" da quelli che avevano connotato le tossicodipendenze. Per la cultura del nostro Paese si trattò di una grande novità, di uno storico capovolgimento di fronte, con il passaggio di operatori dai luoghi tradizionali di offerta di servizi, all’offerta di interventi di prevenzione nei luoghi del consumo e del divertimento, in un’apertura di orizzonti ed una "sprovincializzazione" eccezionali.

Questa nuova modalità di approccio - che è si organizzativa, ma anche e soprattutto di prospettiva culturale (basti vedere come continui a non essere accettata da molti, e con quali motivazioni) - chiamerebbe ora una pacata revisione dei metodi e dei risultati ed una riproposizione continuativa nel tempo, in stretta relazione di rete con i servizi esistenti. In altri termini, bisognerebbe che questa strategia di intervento venisse integrata nelle prassi routinarie dei dipartimenti e dei servizi per le dipendenze, in stretto collegamento con altri servizi, in modo da garantire continuità operativa, formazione, supervisione, anche nella prospettiva di trasformare questi interventi in accompagnamenti di giovani in difficoltà.

Nell’adolescenza non è facile distinguere momenti difficili da patologie vere e proprie: l’esserci, l’essere in relazione con gli adolescenti nei loro contesti, integrando il gruppo dei pari, può essere un’eccellente occasione e possibilità di incontro e di crescita.

Ancora, poi, va ribadita la necessità di riprendere una capacità, e prima ancora una passione, per la clinica e per definizioni puntuali delle situazioni cliniche dei ragazzi con cui si entra in contatto, evitando accuratamente l’etichettatura oggettivante, ma senza per questo rinunciare ad orientamenti e definizioni diagnostiche, premessa di prassi adeguate (che possono andare da psicoterapie e farmacoterapie a counseling). Purtroppo nel nostro Paese il termine "tossicodipendenze" ha assorbito ogni altro termine:

è arrivato a coincidere con il mondo dei consumi, ha atrofizzato il vocabolario e la capacità di distinzione e classificazione diagnostica. Ci sarebbe da fare una lotta proprio contro l’abuso del termine "dipendenza", sempre più usato in modo improprio e fuorviante. Per poter intervenire adeguatamente - ma anche per poter avere armi di ulteriore dissuasione dal consumo, armi più potenti di quanto non siano le urla scomposte di allarme continuamente lanciate - bisognerebbe invece poter isolare e definire i sintomi, aiutare il giovane a comprendere se stesso, a poter confrontare il prima e il dopo.

Altri punti irrinunciabili per un corretto operare nel versante della diagnosi, della terapia e della prevenzione (secondaria e terziaria, per usare la vecchia classificazione) - sono le analisi delle sostanze in circolazione, la definizione della loro formula, delle loro caratteristiche, degli effetti che producono, sia come effetti acuti che cronici.

Proprio perché il dato centrale non è la dipendenza, ma la sintomatologia, dobbiamo fare lo sforzo di accettare l’idea di dover documentare i sintomi, di dover documentare le sostanze, le loro caratteristiche. N on è pensabile basare gli interventi su sintomi spesso non chiari (descritti, fra l’altro, da giovani poco avvezzi a dialogare con se e riconoscere segnali, e la loro variazione), riferiti a sostanze di cui non si sa nulla, se non quanto ha assicurato il venditore.

In tal modo non si inizia mai un processo di accumulazione di notizie degno di questo nome, ne si possono mappare eventuali cambiamenti di abitudini; operatori non specialisti sono costretti a confrontarsi con gli effetti prodotti da sostanze sconosciute o poco note, con il risultato che non raramente si ricorre al concetto di dipendenza e alla relativa terapia, perché non si hanno altri strumenti di intervento. Credo, e accenno appena, che anche un corretto e sensato utilizzo delle più moderne tecniche neuroradiologiche potrebbe permettere di documentare eventuali danni organici, valutare la loro evoluzione, se esiste, e anche qui, finalmente, permettere un sapere non improvvisato e non ripetitivo. Non mi sembra che si tratti di un programma permissivista, di un fiancheggiamento, di un’istigazione al consumo: mi pare invece un programma di attività e di ricerca, di accompagnamento, per fare in modo che "strada facendo", insieme, si resti aggiornati, e in adeguata relazione con i giovani, con i loro gusti e con i guasti che possono incontrare.

 

 

 

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