Sergio Segio

 

Certezza della pena o certezza del recupero?

San Servolo (VE) - 22 settembre 2002

Sergio Segio, Gruppo Abele di Milano

 

Sul titolo di questo dibattito, utilmente provocatorio, credo che il presidente Margara abbia detto tutto quanto c’era da dire. Se la finalità della pena è, e dovrebbe essere, quella dell’inclusione, vuol dire che il carcere va cambiato radicalmente.

Attorno al carcere, si stanno facendo tante parole, da troppi anni. Anche stamattina, scherzando, dicevo che noi siamo un po’ una compagnia di giro e troppo spesso ci ritroviamo nei convegni a dire non sempre le stesse cose ma, in qualche modo, ad essere testimonial di una causa persa in partenza: quella della riforma del carcere, delle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri.

Una causa persa un po’ in partenza, perché le carte del gioco sono truccate e non da oggi ma da un certo modo di mediare e di trattare l’argomento, di non dare una esauriente e completa informazione all’opinione pubblica, da una politica che troppo spesso litiga o finge di litigare attorno alle proposte del sistema penale e giudiziario, quando invece è in qualche modo omogeneizzata. La sfida è "fare", perché a livello di proposte e di parole, troppo spesso tutti quanti dicono le stesse inconseguenti cose. Tutti, anche l’ingegner Castelli, perché proprio in questa città domenica scorsa il ministro Castelli ha parlato di dignità del detenuto e di necessità di tutelarlo. Ecco, forse anche l’ingegnere ha scoperto che le parole non costano niente e quindi è meglio spendere parole buone, anziché parole offensive, come in precedenza andava facendo.

Però, di queste parole anche noi siamo un po’ stanchi, io personalmente sono un po’ stanco di essere testimonial di questa causa che non sta facendo grandi passi in avanti e anzi ne sta facendo indietro, e non solo per l’inconseguenza delle parole ma per le scelte sbagliate che vengono fatte e per quelle cose che spesso non si ha il coraggio di dire.

Negli ultimi anni c’è stata una svolta in negativo delle dinamiche e delle politiche sul carcere, a partire dall’allontanamento del presidente Margara dai vertici del DAP. Ecco, anche quello fu un episodio che passò in qualche modo sottotono, all’opinione pubblica, ma anche negli stessi ambienti del volontariato e delle associazioni. Ma fu un punto di svolta in negativo veramente pesante, ed io credo che quello, più della frustrazione delle speranze di amnistia e indulto nell’anno del giubileo, sia una chiave di volta che andrebbe riletta, per capire come andare avanti e dove andare.

Sennò anche noi rischiamo di rimanere impigliati in questo gioco, delle parole che non sanno diventare politiche, e dico "politiche" e non semplicemente "leggi", perché fare leggi sul carcere non basta, questo lo abbiamo visto negli anni passati col governo del centrosinistra, con quel regolamento penitenziario che, appunto il presidente Margara, assieme a Franco Corleone, a Michele Coiro e ad altri, hanno tenacemente voluto e prodotto e che è diventato carta scritta, ma che al contempo è rimasto carta straccia, come molto spesso succede per le leggi buone e giuste.

Sempre nella scorsa legislatura e, anche di questo, astrattamente ma correttamente, va dato atto al centrosinistra, è stata fatta una legge sulle detenute madri che consente di scarcerare madri e bambini a determinate condizioni etc. Anche lì, a distanza di due anni, i bambini stanno come e forse più di prima dietro alle sbarre, assieme alle loro madri.

È stata fatta una legge sul lavoro penitenziario, la cosiddetta legge Smuraglia, che dovrebbe facilitare la possibilità di portare lavoro dentro le carceri, ma anche qui legge fatta ed inganno trovato o, comunque, legge non applicata e di nuovo daccapo.

Quindi, oltre alle leggi, occorrono le politiche, occorre una diversa cultura sociale riguardo alla pena e al carcere. Occorre un concetto nuovo di buona volontà, ma quella buona volontà che non sia fatta semplicemente di buone parole ma che diventi concretezza. Anche le proteste nelle carceri di questi giorni hanno trovato, in qualche modo, la via della visibilità, dei giornali, ed anche la via, a mio parere, di una poco onesta attenzione politica. Dico "poco onesta" perché, nell’immediato, sembra aver prodotto alcune proposte di legge, in materia di indulto, depositate dagli onorevoli Taormina e Biondi. Biondi è stato anche ministro di Grazia e Giustizia e, lo dico da detenuto ma anche da operatore, i detenuti non si sono accorti di un lascito positivo della sua permanenza da ministro.

Se c’è una protesta che ha trovato la via della visibilità, ce n’è una che permane quotidianamente da alcuni anni e invece non la trova, è una protesta strisciante, quella dei morti, dei suicidi, dell’autolesionismo, che tutti i giorni, da tanti anni, avvengono nelle carceri. Il carcere, propriamente, è ancora una pena corporale: le specie di nuovi detenuti, i poveri, i tossicodipendenti, gli immigrati, protestano ancora attraverso il proprio corpo. Ogni giorno, nelle carceri italiane, centinaia di persone esprimono la propria protesta e il proprio disagio tagliandosi la carne con dei pezzi di vetro, con delle lamette.

Di tutto ciò noi non abbiamo coscienza, non abbiamo coscienza perché all’esterno non esce questa protesta quotidiana e, soprattutto, non trova un’attenzione vera da parte della politica. Si tratta di passare dalle parole ai fatti, dando una risposta anche a queste persone, a questo disagio, all’urgenza drammatica di questa situazione.

Ed anche su questo l’ingegner Castelli ha detto delle solenni sciocchezze, parlando di una regia occulta dietro le proteste carcerarie, ma io credo abbia ragione su un punto: anch’io sono fortemente preoccupato del clima, che potrebbe degenerare per le troppe parole al vento, che tutti, da troppo tempo, disseminano incautamente. Perché quando rimane solo la disperazione, rimane solo la lametta con cui tagliarsi pezzi del corpo, vuol dire che tutto è possibile e, se tutto è possibile, una nuova responsabilità grava sulla classe politica, grava sull’amministrazione penitenziaria, grava su chi ha il dovere e il potere di intervenire nei tempi dovuti.

Segnali positivi, da questo punto di vista, francamente non se ne vedono, non solo per le incaute parole del ministro Castelli, ma non se ne vedono perché di nuovo il carcere sta tornando ad essere terreno strumentale di scontro tra le forze politiche. Lo vediamo da alcuni anni, lo ricordiamo particolarmente nel 2.000, quando veramente nelle carceri la speranza crebbe, sia tra i detenuti, sia tra gli operatori penitenziari, perché anche loro hanno legittime richieste da avanzare.

Ecco, la speranza è andata delusa proprio per questo gioco - non esito a definirlo un gioco al massacro - che la classe politica troppo spesso fa sulla pelle dei reclusi, quella pelle che cerca di comunicare all’esterno il proprio disagio, l’insopportabilità della propria condizione.

C’è una Commissione europea, che si chiama Commissione per la Prevenzione della Tortura e delle pene degradanti che, ciclicamente, visita le carceri italiane. La prima visita è stata nel 1992, l’ultima nel 2.000. Per rendere noti i risultati di queste visite occorre un permesso del governo e pare che, finalmente, questo permesso sia stato dato, a distanza di due anni dalle visite, e questo è sintomatico. Quindi tra pochi giorni ci diranno cos’hanno riscontrato, però le anticipazioni ci dicono che hanno riscontrato le solite cose che vanno riscontrando dal 1992, il problema gravissimo del sovraffollamento, il problema della violenza nelle carceri.

Uno dei grandi hotel di cui parlava il ministro Castelli si chiama Poggioreale: ebbene, gli ispettori europei hanno verificato che i detenuti di Poggioreale, quando incontrano un agente penitenziario, sono tenuti ad abbassare gli occhi e a tenere le mani dietro la schiena. Quindi questo è un carcere che produce sapientemente e coscientemente, non solo malessere, ma anche una disciplina stupida, che ammaestra il detenuto alla violenza.

Qui veramente si può comprendere Morelli quando dice "io mi stupisco che il livello della recidiva sia soltanto del 70%". Voleva dire che il reinserimento sta solo dentro la buona volontà e la tenacia dei detenuti. Ma di fronte a questa buona volontà e a questa tenacia bisogna che altri pezzi della società e della politica facciano la propria parte, dalle parole bisogna passare ai fatti. Le proteste di questi giorni all’interno delle carceri sono un contributo pacifico, non violento, responsabile, ma credo sia un grido in extremis, un grido disperato, e tutti dobbiamo cercare di raccoglierlo.

 

Francesco Morelli

 

Chiudiamo questa prima tornata d’interventi con Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, da Padova.

 

Precedente Home Su Successiva