Alessandro Margara

 

Certezza della pena o certezza del recupero?

San Servolo (VE) - 22 settembre 2002

Alessandro Margara, ex Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

 

Certezza della pena o certezza del recupero. Il tema è stimolante, nel senso che mette di fronte una formula pacifica, condivisa, spendibile e spesa troppo frequentemente, che è quella della certezza della pena, cioè una di quelle formule con cui si sciacquano la bocca un po’ tutti quanti, che trova approvazione comunque. Molti di coloro che la usano non sanno cosa vuol dire, ma questa è una cosa secondaria, soprattutto di questi tempi, in cui molti dicono cose che non sanno.

L’altra è una formula che potremmo cominciare a spendere, che però non ha la stessa "moralità": la certezza del reinserimento. Si dice, anche, una politica di inclusione sociale, anziché di esclusione sociale.

"Certezza della pena" cosa vuol dire? Questa formula la si può usare così, un pochino come un pass partout logico, che sembra voler dire molto… ma se "certezza della pena" vuol dire inflessibilità della pena, o almeno tendenza all’inflessibilità, si contrappone in sostanza con quella che è la flessibilità della pena, che è la possibilità che la pena abbia una durata conseguente all’andamento dell’esecuzione della stessa, cioè possa interrompersi prima del termine stabilito, ed essere sostituita da modi di esecuzione diversi da quelli che erano previsti inizialmente.

La pena inflessibile è stata la bandiera, la prospettiva, l’impostazione unica delle normative precedenti alla riforma del 1975. Il Codice penale del 1930 prevedeva, in effetti, un’unica formula di uscita dal carcere prima del fine pena, ed è la sostituzione della pena in carcere con una forma diversa, che è la libertà vigilata, e quindi attraverso lo strumento della liberazione condizionale, che era data dal ministro della Giustizia. Un provvedimento molto raro, come poteva essere anche il provvedimento di grazia, che non modificava nella sostanza il funzionamento dell’esecuzione della pena, che rimaneva tendenzialmente rigido.

Ma quando si dice "tendenzialmente rigido" si dimentica che, ricorrentemente, con tempi che variavano dai tre a i cinque anni, arrivavano i condoni e le amnistie, che buttavano fuori tutti quanti, senza discriminazioni e scelte, ed erano quegli strumenti con i quali si riduceva la popolazione detenuta quando cresceva troppo.

Flessibilità o inflessibilità della pena? La risposta sta non soltanto nell’articolo 27 della Costituzione, quanto nella interpretazione sistematica, continua, che ne ha fatto la Corte costituzionale. La Corte costituzionale, fin dal 1974, disse che c’è un diritto del condannato a che sia valutato se la parte di pena che ha scontato è servita a prepararlo ad un processo di recupero sociale all’esterno, in forme che devono essere diverse dall’esecuzione della pena in carcere.

Questa sentenza fu quella con cui - sulla base di questo diritto a veder valutata la possibilità che il condannato fosse già pronto per l’uscita - la liberazione condizionale, prima data dal ministro, diventava di competenza di un giudice, che in un primo tempo venne individuato nella Corte d’appello e poi, con la legge Gozzini, nel Tribunale di sorveglianza.

Questa prima sentenza della Corte costituzionale stabilisce che la flessibilità della pena è il modo, l’utilizzo, l’impostazione, con cui l’esecuzione della pena dev’essere attuata, e in tante sentenze successive, che cominciano dal 1985 e continuano tuttora, il discorso della Corte costituzionale si articola meglio, e dice che non solo la pena deve essere flessibile, ma questa flessibilità, questo sistema di prova controllata con cui la pena si esegue, devono essere seguiti da una struttura che svolge, al tempo stesso, una funzione di controllo, di recupero e di sostegno.

Quindi ci deve essere un sistema che convive col sistema carcerario, perché il carcere c’è, c’è anche una fase dell’esecuzione della pena, che in linea di massima va fatta in carcere, però accanto a quel sistema ci dev’essere un altro sistema, quello delle misure alternative al carcere, il sistema chiamato "area dell’esecuzione penale esterna", il quale si organizza con personale che ha la specifica funzione di controllare e sostenere la persona condannata.

La Corte è dettagliata, dice addirittura che, quando si ricostruirà la validità del percorso che la persona ha fatto all’esterno, si dovrà vedere se certi insuccessi sono legati alla mancanza di efficacia del sistema esterno, per esempio se questa persona ha perso il lavoro, se la perdita del lavoro ha coinciso con la perdita della correttezza dell’inserimento sociale, etc.. Si dovrà tenere conto di quello, per valutare se veramente tutti gli sbagli, tutta la responsabilità deve essere attribuita a lui, se tutta la pena deve essere nuovamente espiata, a partire dal momento in cui si era interrotta per la concessione della misura alternativa.

Sembra chiaro che sono due sistemi diversi: pena fissa; pena inflessibile. Pena che porta la persona, fino alla fine, nelle condizioni in cui si trova in carcere. Pena flessibile, che valuta il percorso interno del soggetto, che decide ad un certo momento se questo percorso debba cambiare e, al posto del carcere, del trattamento penitenziario interno, debba esserci un trattamento penitenziario esterno che dà alla persona la possibilità veramente di misurarsi, fuori dal carcere, con le difficoltà della sua situazione, e di superarle.

A questo punto si tratta di chiederci, rispetto alla seconda parte dell’interrogativo, se la prima parte abbia a che fare con questa certezza del reinserimento sociale. In una valutazione spontanea, che una persona può fare, si dice "è bene che stia in galera, perché solo così impara e solo così, quando uscirà, sarà un’altra cosa, sarà un’altra situazione".

Questo discorso è un discorso che può andare bene per chi valuta le cose da fuori, ma mi sembra chiaro che una persona che ha fatto tutta la sua pena in carcere, che è stato dentro per non poco, quando esce non è che trovi le cose molto diverse da quelle che erano prima di entrare. Pensare che il reinserimento si leghi all’uso del bastone del carcere, nei suoi confronti, è lontano dalla realtà. Il discorso, molto più semplice, è che l’inserimento si realizza attraverso quel periodo di prova controllata e sostenuta, quello di cui la Corte costituzionale ci parla.

Sostanzialmente il primo quesito, quello della certezza della pena, è un quesito a cui costituzionalmente si deve rispondere di no. Se "pena certa" vuol dire "inflessibile", non può essere inflessibile. Per la Costituzione, per l’integrazione articolata che ne ha dato, in tantissime sentenze, la Corte costituzionale. La pena deve essere flessibile e deve servire alla inclusione delle persone. Su questo si articola l’interrogativo che è dentro l’interrogativo della certezza dell’inserimento. Includere o escludere le persone? Noi abbiamo ragionato, la Corte costituzionale ragiona, e in tanto tempo si è pensato, con abbastanza tranquillità, che la finalità dell’esecuzione della pena dovesse essere l’inclusione, e non l’esclusione delle persone.

Invece abbiamo sempre colto i processi di carcerazione come processi di esclusione delle persone. Le persone ricevevano una stigmatizzazione, dalla quale non riuscivano a liberarsi, che l’accompagnava poi nel resto dell’esistenza. Erano detenuti, o ex detenuti in procinto di tornare detenuti… questa era la loro vicenda esistenziale, in tanti casi, cioè nei casi sicuramente prevalenti.

Il concetto di inclusione è stato via via sempre più contestato da quella che oramai è la parola con cui si fa bella figura: la parola "sicurezza". Senza aggettivi, perché la parola sicurezza", in tutte le politiche sociali degli ultimi 30 anni, è apparsa ripetutamente, ma veniva accompagnata dall’aggettivo "sociale".

Sicurezza sociale. Tutti gli Enti locali avevano un Assessorato alla sicurezza sociale. Sicurezza sociale voleva dire cercare di costruire le condizioni per cui c’era una vivibilità dell’ambiente in cui si stava, e cogliere gli aspetti critici che queste situazioni urbane e sociali presentavano, perché così potessero essere rimossi. La sicurezza sociale lavorava in particolare sulle situazioni di disagio, di emarginazione, proprio per eliminarle, proprio per includere quello che era nella situazione reale escluso.

Invece, ora, il discorso diventa diverso. Diventa quello di una sicurezza che deve essere sicurezza, che coglie i punti deboli e, diversamente dai bei manifesti che sono usciti, per chi cade non c’è nessuno che vada a raccoglierlo ed a rimetterlo in piedi. Chi cade le busca, le prende, chi cade è colui che disturba la situazione sociale generale, di persone che sono garantite, nel senso che vivono una situazione normale, una vita tranquilla e, molto spesso, non sono ricchi signori, sono anche persone modeste, che vivono una vita tranquilla, integrata, e questi sono disturbati da chi è escluso.

Sono la maggioranza, ovviamente, mentre dall’altra parte ci sono i tossici, gli stranieri senza arte né parte, o con arte e parte ma sempre stranieri, quelli che vivono nella precarietà, le persone che hanno problemi di ordine psichico, di insufficiente integrazione sociale. Ecco, allora, i poveri barboni massacrati e qui bisognerà vedere bene perché accadono queste cose. Tutte queste sono persone che non tornano, con la politica complessiva, e quindi ci dev’essere questa scopa che spazza via e che le mette al margine.

Ci sono certe situazioni in cui si sviluppa una politica di questo genere, come la situazione degli Stati Uniti, dove ci sono due milioni e duecentomila detenuti, dai sette agli otto milioni di persone in trattamento alternativo alla detenzione. E questi sono trattamenti che, se non seguiti puntualmente, si risolvono in ulteriore detenzione.

Ecco, questi numeri enormi, in quel particolare sistema, funzionano come "bombe intelligenti" che colpiscono in un largo raggio, quello della precarietà, della povertà, della non collocazione sociale, e lentamente questo raggio viene colto, visto, definito e, in qualche modo, distrutto, nel modo in cui si distrugge socialmente una persona, escludendola nelle galere.

Il problema è che questa esplosione diventa sempre più grande, fino a che sarà difficile difendersi da essa. Siccome poi le politiche sociali sono state sospese per un problema di spese e di costi, va detto negli Stati Uniti la spesa per la sicurezza è incredibile, sta superando ogni livello, fino a che si renderanno conto che è essa stessa insostenibile.

Il vostro interrogativo parla di questi nodi che, effettivamente si devono risolvere. Ci penseremo, effettivamente, per ispirarci alla Costituzione, ispirarci a quello che si è detto, ispirarci ai principi, anziché ragionare in termini di sola suggestione davanti a quelle ossessioni che accompagnano i nostri giorni, giorni in cui tutte le sicurezze sono lentamente erose.

 

Francesco Morelli

 

Grazie ad Alessandro Margara. Riguardo alla flessibilità o all’inflessibilità della pena, va detto che in Italia è un po’ paradossale parlare di una pena inflessibile, perché abbiamo pene che sono sproporzionate rispetto alla media europea. Ci sono Stati nei quali manca la varietà di misure alternative che ci sono in Italia (si può citare la Germania, ad esempio), però hanno anche pene più contenute. Da loro la pena è più certa, nel senso che è meno flessibile rispetto all’Italia, ma hanno pene massime di 15 anni, mentre in Italia abbiamo pene doppie, abbiamo l’ergastolo, e allora la flessibilità è quasi una necessità. Riguardo invece alla sicurezza, mi pare che racchiudere e relegare il disagio sociale all’interno del carcere sia un tentativo di nasconderlo, perché la società è un organismo che produce anche del disagio e questo può essere curato, oppure può essere nascosto alla vista. Il carcere è, sempre di più, il luogo in cui nascondere il disagio prodotto dalla società, si veda appunto tossicodipendenza, il disagio psichico, la situazione degli immigrati irregolari. Adesso la parola a Giuseppe Caccia, Assessore ai Servizi sociali del Comune dei Venezia.

 

 

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