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Pier Giorgio Licheri (Presidente Nazionale S.E.A.C.)
Questa mattinata di lavoro non ha molto tempo a disposizione, ma ha l’ambizione di affrontare l’argomento "Il ruolo del cappellano, tra istituzione penitenziaria e impegno sociale". Per introdurre questo momento, prima volevo leggere l’articolo 26 dell’Ordinamento penitenziario: "Religione e pratiche di culto - I detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto è addetto almeno un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti". Ci sono delle leggi successive che riconoscono un privilegio alla Tavola Valdese, e quant’altro. E l’articolo 58 del Regolamento, che è intitolato "Manifestazioni della libertà religiosa", in particolare al quarto comma, dice "Per la celebrazione dei riti del culto cattolico, ogni istituto è dotato di una o più cappelle in relazione alle esigenze del servizio religioso… le pratiche di culto, l’istruzione e l’assistenza spirituale dei cattolici sono assicurate da uno o più cappellani in relazione alle esigenze medesime…". Per l’Ordinamento penitenziario, il cappellano cattolico rappresenta l’opportunità per l’esercizio di un diritto: quando nacque la Riforma si parlava di facoltà, ora si parla di diritto. I detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa. Quindi, il cappellano è figura istituzionale e testimonia, in qualche modo, il privilegio del culto della Chiesa cattolica. Secondo l’Ispettorato dei cappellani, che ha prodotto, dopo l’approvazione del nuovo Regolamento, un volumetto "I volontari nelle carceri", non so a quanti noto, dice: "È compito dell’Ispettore coordinare l’attività dei volontari e promuoverla, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge e dalle esigenze dell’ambiente carcerario, non dimenticando che anche i volontari hanno bisogno di solida formazione umana e spirituale. L’orizzonte dell’azione del volontariato non può limitarsi ai problemi economici o al reinserimento dei detenuti nella società, ma deve estendersi a tutti i problemi delle famiglie dei carcerati e di quelle delle vittime della criminalità. La presenza e l’azione dei cristiani, che operano in carcere come volontari, per la sua stessa qualità di assistenza, in forza del battesimo e praticata con fede, è evangelizzazione ed esprime la presenza della comunità cristiana. È il singolo volontario che, unendosi ad altri volontari, forma le Associazioni di volontariato, e non viceversa". Ecco, mi è sembrato giusto richiamare questa posizione ideologica, di monsignor Caniato. Io credo che anche un volontario, che testimonia il Vangelo, possa far fatica a condividere questa posizione. La Legge penitenziaria e il Regolamento riconoscono qualche ulteriore funzione, al cappellano. L’articolo 16 dell’O.P. dice: "Le modalità di trattamento da seguire in ciascun istituto sono disciplinate nel regolamento interno, che è predisposto e modificato da una commissione composta dal magistrato di sorveglianza, che la presiede, dal direttore, dal medico, dal cappellano, dal preposto alle attività lavorative, da un educatore e da un assistente sociale". Poi c’è l’articolo 36 del Regolamento, che dice cosa contiene il regolamento interno: "Oltre alle modalità degli interventi di trattamento e a quanto previsto dagli articoli 16 e 31 della legge e dagli articoli 8, 10, 11, 13, 14, 37, 67 e 74 del presente regolamento, disciplina, in ogni caso, le seguenti materie: gli orari di apertura e di chiusura degli istituti; gli orari relativi all’organizzazione della vita quotidiana della popolazione detenuta o internata; le modalità relative allo svolgimento dei vari servizi predisposti per i detenuti e per gli internati; gli orari di permanenza nei locali comuni; gli orari, i turni e le modalità di permanenza all’aperto; i tempi e le modalità particolari per i colloqui e la corrispondenza anche telefonica; le affissioni consentite e le relative modalità; i giochi consentiti". Il cappellano partecipa alla Commissione che predispone questo regolamento interno, quindi la legge ci dice che la sua è una figura forte, sebbene vincolata dall’essere istituzione, certamente mai annichilita. Nei confronti del cappellano, quale aspettativa da parte dei volontari? È lecito attendersi un impegno assoluto per il rispetto della dignità della persona, per il rispetto dei diritti, la salute, gli affetti, il rapporto con le famiglie e, in esso, la gestione dei permessi. Una sollecitudine ad aprire spazi operativi al volontariato. Faccio riferimento a tutto quello che prevede il Protocollo di Intesa, senza continuare a leggere. Ma, di quanto è oggetto dell’opuscolo edito dall’Ispettorato, sarebbe appunto utile rileggere alcune righe della Circolare del dottor Mancuso che faceva parte del pacchetto del 2000: "Tutto dovrà concorrere al superamento di una collaborazione estemporanea e collegata alla disponibilità delle singole strutture. L’intervento del volontariato dovrà acquisire sempre più caratteristiche di organicità e funzionalità, in relazione alla grande risorsa che nel nostro paese esso costituisce, in ogni settore della vita sociale ove è presente la marginalità e lo svantaggio. L’opera del volontariato e dei singoli volontari si è rivelata molto preziosa per la costruzione di varie opportunità trattamentali, siano esse di carattere formativo e lavorativo, che culturale e sportivo. Le direzioni degli Istituti e dei Centro di Servizio Sociale per Adulti devono impegnarsi per creare condizioni favorevoli e recepire tale contributo". Leggo soltanto ancora una cosa, che è un dramma che invece segna la stragrande maggioranza degli Istituti in Italia. È previsto, quindi è regola: "Superamento del sistema delle domandine di colloquio con i detenuti, che non ha motivo…". Non leggo altro, perché tanto sappiamo… Ecco, il tema di stamani ci spinge in avanti, tra istituzione penitenziaria ed impegno sociale, recuperando, anche per il cappellano, e per le relazioni tra cappellano, reclusi, volontari, questa prospettazione di impegno sociale che, nelle cose che ci siamo dette nei giorni precedenti, si caratterizza con un’attività di prevenzione, con un’attività di sostegno, con un’attività di alternativa al carcere, non tanto per lo stare fuori dal carcere, ma per il carcere com’è oggi e per quello che riteniamo sia utile, per una persona che si è caricata di una responsabilità, che con un comportamento ha creato una frattura, tra sé e la vittima del reato – se questa si può identificare in una persona, o in un gruppo di persone – o, più in generale, nei confronti della società. Questo discorso è stato abbastanza affrontato ieri: si tratta, appunto, di costruire una esperienza faticosa di impegno duro, per le persone, di applicazione, di lavoro, che consenta di provvedere a se stessi, alle proprie famiglie. Di impegno volontario, speso come risarcimento del danno prodotto. Di momenti di studio, di riflessione, per consentire di riappropriarsi del proprio io, delle potenzialità della propria personalità, per progettare, dopo il compiuto, la vita di oggi e la vita di domani. Noi, nei confronti di tutto questo, nutriamo grandi aspettative per il ruolo, per le persone dei cappellani. Spesso, purtroppo, abbiamo perplessità e sconforto. Il problema non riguarda soltanto i cappellani, spesso riguarda l’atteggiamento degli ordinari diocesani, per il modo come arrivano a scegliere i cappellani.
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