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Celso Coppola
Grazie, penso che nella discussione potremo tornare su questi problemi, che sono estremamente di attualità. Non ci sono più i rappresentanti degli enti locali, cioè i rappresentanti del Comune di Verona, che stamattina ci hanno illustrato l’attività del Comune. Io avrei voluto fare loro una domanda, che mi permetto di enunciare ugualmente, anche se non ci sarà la risposta, ma potrà servire alla discussione. Perché penso che siano dei quesiti che possano essere posti a tutti i sindaci e a tutti gli assessori di tutti i Comuni. Per l’occasione erano qui quelli di Verona e quindi erano loro i capri espiatori. Però non è detto che le cose non si ripresentino in tutti i Comuni in cui voi lavorate. La domanda, essenzialmente, era questa. Un Comune, quale tipo di modello di azione si propone, nell’affrontare il problema che ci sta a cuore? Schematizzando al massimo, i possibili modelli sono tre: il modello assistenziale, cioè l’intervento caso per caso, man mano che si presenta. Oppure un Comune che è attento a tutti gli aspetti della condizione della persona che entra nel circuito penitenziario, ma con una risposta più globale, non più caso per caso, che s’interessa – come è stato detto anche stamattina – dell’alloggio, dell’informazione, del trattamento, dell’assistenza, di tutto quello che può essere utile. Però è un modello d’azione, anche questo, diciamo "di settore", un modello che opera per il "settore - giustizia". Un terzo modello, potrebbe essere quello che cerchi l’integrazione del disagio sociale, spalmando tutti gli interventi su tutti i settori di attività del Comune, quindi che impegni tutti gli assessorati: quello dell’abitazione, quello economico, quello del lavoro. Il conflitto, che è stato ricordato qui, tra amministrazione provinciale e Comune di Verona mi sembra facilmente superabile, perché è il Comune che ha – ai sensi della legge 328 e di tutte le leggi di delega alle autonomie locali – ha il potere di fare le politiche sociali. Le politiche sociali sono di competenza del Comune. Se la Provincia vuol lavorare anche in base alla legge 328 può benissimo farlo, ma deve collaborare. Non è che possa porre paletti o, comunque, ogni Comune può agire intanto per conto suo. Poi, chi vuole aggregarsi, si aggrega. Allora, un progetto che non porti ad un’organizzazione speciale per la giustizia, ma porti a trattare il problema della giustizia come vengono trattati tutti gli altri problemi, quindi il problema dei minori, degli anziani, dell’handicap, etc.. E, come, fare questo? La legge 328 lo dice molto bene, con i Piani sociali di zona: l’articolo 19 della legge 328, per esempio, spiega molto bene il rapporto anche con il sistema penitenziario e i Piani sociali di zona. L’organizzazione illustrata stamattina dall’Assessore di Verona mi sembra - adesso mi spiace che non sia qui – appartenga al secondo modello. E non è sbagliato che vi sia un’organizzazione specifica, ma deve essere un’organizzazione di settore solo a livello di conoscenza e di programmazione, ma poi l’operatività va ai servizi territoriali polivalenti, in sostanza. Perché ci vuole chi affronti il problema e lo capisca in tutte le sfaccettature, lo studi… e quindi, ecco, il Comitato delle Associazioni, tutto quello che è stato detto stamattina è importantissimo, perché sennò nessuno se ne occupa. I servizi polivalenti di zona hanno tanti problemi, non possono approfondire il problema dei disabili, il problema della giustizia, etc., devono esserci dei poli di secondo livello che studiano e propongono, diciamo. L’operatività spetta a chi fa il lavoro polifunzionale di base, in sostanza. Questo è il terzo modello. Poi, ovviamente, ogni Comune decide come meglio ritiene e con i mezzi che ha. In sostanza, si tratterebbe di chiedere agli Assessori qual è il rapporto tra i servizi di base, previsti dalla "328", i Piani sociali di zona, e le attività e gli interventi che esigono conoscenze più specialistiche, quali quelle nel settore della giustizia, ma questo non significa che sia il solo, perché anche quello dei disabili, o dell’infanzia, esige delle conoscenze importanti in diversi campi. Dopo i Comuni, avevamo la Regione. Io sono rimasto felice che la Regione, firmando, il 4 aprile di quest’anno, il Protocollo d’Intesa con il Ministero della Giustizia, abbia contratto un solenne impegno all’integrazione e all’inclusione, non alla separazione, all’espulsione, alla rigidità, alla repressione. Un’altra cosa molto importante è che il Protocollo d’Intesa viene inserito di peso nel piano socio-sanitario della Regione. Restano dei problemi tra gli assessorati, perché è chiaro che un progetto di quel genere – penso che abbiate visto tutti il Protocollo d’Intesa – esige una collaborazione fra tutti gli assessorati. Quindi, io avrei voluto chiedere all’Assessore De Poli, qual è lo stato di collaborazione tra i vari assessorati per poter realizzare questo Protocollo d’Intesa. Lì non basta l’assessorato alle Politiche sociali. Quindi, qual è il parere, nel suo complesso, della Giunta, sul problema. E quali sono le possibilità di una diffusione omogenea degli standard previsti dal Protocollo in tutto il territorio regionale, perché non basta realizzarlo in una zona, in una Provincia, in un Comune. Qui abbiamo tante province, da Belluno a Rovigo, da Padova, a Vicenza, a Verona, a Venezia, etc., e le situazioni sono molto diverse. Come si può assicurare uno standard minimo di quel livello, buono, di attività, in tutte le province del Veneto? Ecco, dunque, il ruolo della Regione, che deve programmare, che deve dare assistenza tecnica ai Comuni. Perché ci sono Comuni o consorzi di Comuni che indubbiamente non riescono a gestire problemi di questo tipo, non li conoscono. È necessario un lavoro della Regione. Poi c’è un’altra domanda: qual è il ruolo della Regione nella Commissione nazionale per i rapporti tra il Ministero e la Regione? Sapete che a Roma, presso il Ministero, c’è una Commissione per i rapporti tra le Regioni e il Ministero della Giustizia, gli enti locali e il volontariato. Questa Commissione, nella quale ovviamente le Regioni sono in maggioranza, perché le Regioni sono 19. Questa Commissione ha un ruolo importantissimo, perché ha emanato tutti gli indirizzi, che riguardano ad esempio la collaborazione del volontariato. Gli indirizzi in materia di Protocolli d’Intesa. Praticamente è la madre di tutti i Protocolli d’Intesa che sono stati fatti. Siccome l’Assessore del Veneto è il capofila, è il responsabile per tutte le Regioni nella Commissione, come intende avvalersi di questo ruolo per dare una propulsione a quest’azione? Per ultimo, tornando al discorso sicurezza, il Protocollo d’Intesa rappresenta una sintesi tra sicurezza e integrazione: evidentemente, se la Regione lo ha firmato, riconosce anche all’inclusione, anche alla reintegrazione un ruolo di sicurezza. Forse la sicurezza migliore, quella data dalla reintegrazione sociale delle persone interessate. Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria doveva esserci Sebastiano Ardita, anzi qui sarebbero stati necessari, per dire la verità due direttori generali: Sebastiano Ardita, direttore generale del trattamento in istituto e Turrini Vita, direttore generale dell’area penale esterna. Abbiamo la collega Nanda Roscioli e la domanda che le rivolgo, anche a fini di trasmissione, è questa: il Protocollo d’Intesa, che da una parte ha firmato la Regione, l’ha firmata anche il dottor Tinebra, il direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, quindi impegna entrambi. Come il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ritiene di poter assolvere al gravoso impegno che ha sottoscritto. Spero che non l’abbia firmato così, per compiacenza… con riserva mentale, diciamo. Perché poi l’ha firmato con molte altre Regioni, con qualche variazione, ma la sostanza è la stessa. Quindi questo tipo di protocollo rappresenta anche un orientamento culturale e politico, per il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Questo, come ricordava prima Romano, discende dalla legislazione, perché la legislazione in campo penitenziario chiede protocolli di questo tipo. Non sempre l’azione, né delle Regioni, né del Ministero della Giustizia, è coerente, a mio parere, con queste linee. Vi faccio un esempio… siccome stamattina si è parlato di bilanci, in qualche momento. Le risorse date, per un verso, agli istituti, e per l’altro alle misure alternative, fino a qualche anno fa erano divise così: su un totale di circa 5.000 miliardi delle vecchie lire, il 96 - 97% era per gli istituti e il 3 - 4% per le misure alternative, nonostante le misure alternative tengano in carico 30.000 persone. Come sappiamo, il costo delle detenzioni è di 250 - 300 mila lire al giorno e il costo delle misure alternative è un decimo, cioè 25 - 30 mila lire al giorno. Allora, avrei chiesto al Ministro, a Tinebra, e ai due direttori generali, e alla Roscioli, adesso: avete idea di cambiare questa proporzione? Se vogliamo fare meno carcere e più impegno sociale, vogliamo arrivare, non dico tanto, ma al 90% per gli istituti e al 10% per le misure alternative? Gia sarebbe un passo grosso… perché gli istituti costano, sono un buco nero, una voragine, per tanti motivi, per l’edilizia, per il vitto, per la sanità… invece le misure alternative sono molto più leggere, molto più flessibili, e costano molto meno. Allora, il Ministero, ha intenzione, visto che approva questi Protocolli di Intesa, di modificare questo equilibrio? E, poi, di cosa si è parlato, finora, nell’ambito dell’Amministrazione penitenziaria. Io non ho sentito parlare di fondi per le misure alternative. Ho sentito parlare di programma per l’edilizia penitenziaria e di nuova costruzione di istituti, quindi, oltre che di nuove assunzioni per il personale di polizia penitenziaria. Sappiamo bene qual è la proporzione attuale tra agenti di polizia penitenziaria e educatori, assistenti sociali, operatori amministrativi che lavorano nel D.A.P.. Anche qui, c’è volontà di riequilibrare questo?
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