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Antonino Cappelleri (Magistrato di Sorveglianza di Padova)
Mi permetto di non essere d’accordo con l’ultimo inciso, che restano tutti in carcere e, proprio stimolato da questa bilancina sbilanciata, che è il simbolo del convegno, sono andato a cercare le statistiche di applicazione attuale delle misure alternative, che sono, in sostanza, "l’altro dal carcere", nel quale poi il volontariato s’impegna. Sappiamo che la storia inizia nel 1975, con l’Ordinamento penitenziario, che pone la possibilità delle misure alternative al carcere, delle espiazioni extramurali. C’è una rivoluzione e, ogni realtà nuova, ha un rodaggio e poi, progressivamente, si afferma. Le statistiche alle quali mi riferisco si fermano all’anno 2000, però registrano un dato importante, che ritengo giusto comunicare. Il 1998 è l’anno del sorpasso, nel senso che dal 1998 in poi le persone che espiano una pena fuori dal carcere superano quelle che la espiano dentro il carcere In particolare, abbiamo un totale di persone ammesse a misure alternative di 37.500, 36.500, 38.000, a seconda degli anni che si succedono, rispetto a persone in espiazione intramuraria, che nel 1998 sono 24.700 - parlo di quelli esecutivi e non di quelli in attesa di giudizio -, nel 1999 sono 26.700, nel 2000 sono 27.400. Abbiamo, nella proporzione, il 60 - 65% di condannati definitivi che espiano fuori dal carcere, in questi negli ultimi anni, e forse non è poco. Tenuto anche conto che, dei 37 - 38.000 mila in espiazione di misure alternative, circa 25.000 mila non transitano dal carcere, cioè vengono ammessi alle misure alternative attraverso la sospensione della pena, introdotta dalla cosiddetta legge Simeone. Vengono ammessi ad un giudizio immediato, ancora dallo stato di libertà, di non esecuzione, dal Tribunale di Sorveglianza e, dunque, transitano direttamente, già dall’inizio dell’espiazione, in una misura alternativa. Il che significa, quindi, che quella porzione di persone, prima detenute e poi ammesse alla misura alternativa negli ultimi anni, a conti fatti è di 10 - 12.000 mila che, rispetto a 25.000 mila circa, che sono i condannati definitivi che rimangono in carcere, è quasi un terzo. Tutto sommato, in maniera magari paradossale, per tutti quelli che si scontrano quotidianamente con le difficoltà del lavoro di recupero, che comunque si impegnano contro la realtà difficile, forse un pizzico d’ottimismo io tenterei di portarlo, rispetto all’attuale funzionamento che, ripeto, è un funzionamento che ha vissuto momenti di rodaggio molto rischioso dell’alternativa al carcere. In effetti, l’alternativa al carcere esiste e funziona, non è completamente debilitata, come magari l’angoscia quotidiana ci porta a pensare. Ho trovato anche un’altra ricerca, che c’è stata comunicata, se ben ricordo, dal professor Massimo Pavarini, ordinario del Diritto Penitenziario dell’università di Bologna, all’incontro dei Magistrati di Sorveglianza dell’anno scorso. Era una ricerca comparativa tra la realtà italiana e le altre realtà mondiali: com’è il nostro sistema penitenziario, in tema di misure alternative, e come sono gli altri. È emerso che, in buona sostanza l’Italia, è allineata alla media mondiale dell’utilizzazione delle misure alternative al carcere: non ne abbiamo né più né meno, di alternative, rispetto alle potenze occidentali, neppure rispetto ai paesi più avanzati. L’unica eccezione sono forse gli Stati Uniti, che hanno un tasso di carcerazione notevolmente più elevato di quello degli altri Paesi. Gli Stati uniti, attualmente, hanno un detenuto ogni 300 abitanti, dove la media, che è anche la media italiana, è di circa uno a mille. Questo non significa che negli Stati Uniti sia meno utilizzata l’alternativa carceraria, significa solo che intervengono in senso primario in maniera molto più massiccia, rispetto alle altre democrazie. Quindi ci sono tutte le difficoltà che si prospettano nella pratica quotidiana ma è anche vero che, tutto sommato, non andiamo meglio ma non andiamo neanche peggio della generalità della situazione, in questo campo. Visto che avevo cominciato a dare i numeri, nel senso di possibili rivelazioni, mi sono detto qual è, in effetti, il cartello che dovrebbe ispirare alla scelta carceraria, o extracarceraria, di espiazione della pena. Si può dare una risposta ecologica, emotiva, politica: io ho cercato di vedere se esiste una risposta semplicemente tecnica e, in questo senso, dico che la strada più giusta è quella che rende meglio. Cosa significa "rende meglio", in termini di recupero sociale, che sono i termini con i quali ci confrontiamo? Significa che la misura che funziona di più, in senso rieducazionale, di recupero, di vantaggio, per il singolo e per la collettività insieme, quella è la misura che sicuramente, nel lungo periodo, "rende meglio", non solo dal punto di vista tecnico. Qui le statistiche cominciano a sorreggermi molto meno perché, stranamente, le analisi sono più scarse. Ne ho trovata una che si occupa di vedere quanto le misure alternative, nel loro complesso, funzionino nel momento della concessione e quanti siano i casi nei quali il soggetto, ammesso a misure alternative, torni invece a delinquere durante il corso delle misure alternative. Il risultato è abbastanza confortante, nel senso che risulta che, per il 2001, sono state revocate per commissione di un reato il 2,9 per mille delle misure alternative in corso. Questo, intendo, riferito a reati commessi durante la misura: le violazioni alle prescrizioni sono una cosa diversa. Il collega Marcheselli si è inventato di elaborare i dati in questo senso poiché, in genere, altre statistiche ci dicono che viene scoperto un reato su cinque, moltiplicando per cinque i dati di recidiva durante le misure, di cui ho detto, abbiamo un risultato finale, di recidiva durante la misura, di circa il 3%, quindi significa che, per il 97% dei casi, nel corso delle misure non avviene una ricaduta nel reato e questo mi sembra un risultato molto buono. Dove invece si fermano i miei numeri è su un’altra rivelazione, che invece mi sembrerebbe più importante di tutte: qual è la misura che funziona meglio? Avrei bisogno di trovare la risposta ad una domanda estremamente semplice e schematica: quanti sono i detenuti, in percentuale, che espiano in carcere e che tornano poi a delinquere, e quanti sono i detenuti che espiano fuori del carcere e ritornano a delinquere? Perché, se avessi un dato che mi dicesse che l’una o l’altra categoria ha una recidiva maggiore o minore, avrei un argomento fortissimo, intanto di analisi e poi di scelta. Purtroppo, dicevo, su questo non trovo nulla da nessuna parte, dal punto di vista di studio. Eppure mi sembrerebbe che forse sia lo studio più importante, con il quale dobbiamo confrontarci e andare sul concreto. Ho letto da qualche parte, per la verità, una rilevazione fatta dalla cooperativa Solidarietà, non so in che ambito, che dava un risultato che sarebbe sicuramente incoraggiante: sembra che una recidiva, da parte degli affidati e degli altri utenti delle misure alternative, debba collocarsi intorno al 20%, contro l’80% della recidiva del detenuto che espia in carcere. La dico senza avere un controllo ma dico, soprattutto, che a mio avviso un’indagine di questo tipo, svolta a livello nazionale - e non può che svolgerla l’amministrazione penitenziaria, che è quella che ha i dati - che ci dicesse quanti sono quelli che, per esempio, nei due anni successivi al fine pena recidivano o non recidivano, sarebbe un orientamento a mio avviso fortissimo, sarebbe un faro, rispetto alla scelta, e sono convinto sinceramente che il risultato prevalente, se non conforme a quello che ho citato, elaborato dalla cooperativa Solidarietà, tutto sommato dovrebbe avvicinarsi. Con tutte le attenzioni del sistema statistico, perché è chiaro che chi è ammesso alle misure è persona meno radicata nel delitto, rispetto a chi finisce l’espiazione tutta in carcere, ma con tutti i correttivi e con tutte le attenzioni del caso io credo che un’indagine di questo tipo sarebbe veramente illuminante. Illuminante sarebbe anche per quelle scelte che, attualmente, a livello di prospettive di riforme normative, sono collocate in un panorama estremamente confuso. In questo momento, c’è un disegno di legge, fermo al Parlamento, che tende all’ampliamento anche notevole dei presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale. Un altro disegno di legge che dice, invece, che i recidivi dovrebbero essere esclusi dalla possibilità di godere di misure alternative. Abbiamo avuto, recentemente, la legge 189 del 2002, la cosiddetta Bossi – Fini, che fa delle scelte che tendono alla restrizione dell’impegno rieducazionale: pensiamo solo all’espulsione degli stranieri che abbiano una pena, anche residua, di 2 anni di reclusione… Espellere uno straniero significa "non ti voglio e non ti rieduco", il che pone tutti i problemi, che sono già stati sollevati e portati alla Corte Costituzionale, di conformità dell’articolo 27, che impone che la pena debba essere conformata a intenti rieducazionali. Questo è lo stato dell’opera e, per questo, secondo me, una valutazione più tecnica, che politica o ideologica, sarebbe fortemente desiderabile in questo momento, per ispirare le possibili evoluzioni normative. Prima ho sentito l’intervento di Maurizio Mazzi, che ovviamente è calato nel momento forte e impegnativo del volontariato, nel rapporto col soggetto - utente, che è, in definitiva, il condannato che entra nel percorso trattamentale della rieducazione Io vorrei aggiungere un secondo soggetto – utente, che è la collettività Questo per cercare di uscire da quel dilemma, che poi si ripercuote sempre sulle prospettive, per cui a livello di opinione pubblica c’è una forte posizione di attenzione al detenuto, che va recuperato, ma un’altrettanta attenzione, quasi a livello di paura sociale, alle prospettive per cui la difesa sociale deve essere garantita, anche a discapito di dare maggiori libertà all’interessato. In sostanza, oggi come oggi, viviamo in una situazione in cui - parlo dell’opinione pubblica nel suo complesso - si vorrebbe un processo ipergarantista (diventato tanto garantista da non essere più in grado, secondo me, scusatemi se lo dico francamente, di accertare la verità. Io sono andato via dal processo penale, di cognizione, quando ho avuto la mia personale disperazione, nel senso che oramai un processo penale non è in grado di accertare di accertare la verità), ma anche la pena di morte - tra virgolette, per carità -. Quindi, in una società molto superficiale nella sua analisi e anche, forse, per i rappresentanti della società che spesso non hanno le idee chiare, a noi capita spesso di colloquiare con quelli che sono gli autori delle leggi - aldilà dei parlamentari - e viene da dire che l’ambito del penitenziario è veramente sconosciuto, a volte allo stesso legislatore. I soggetti, le tematiche sono due: l’interessato e la collettività e, se ben vediamo, tutti e due hanno l’interesse all’eliminazione, per quanto possibile, della recidiva del reato. Detto in altre parole, significa che hanno interesse alla rieducazione di chi ha sbagliato. Ci può essere una conciliazione tra queste due esigenze, io credo che sia estremamente complesso, ma sia l’unica strada per eliminare quello scontro fra la cosiddetta sicurezza e l’intento di rieducazione. La strada è, in qualche modo, obbligata, nel senso che un tentativo di questo tipo è il tentativo di rendere migliore la gestione delle misure alternative, se le misure alternative sono lo strumento migliore tra i due, per fronteggiare la ricaduta nel reato. In questo scenario, emerge una fortissima necessità del volontariato, perché io non riuscirei a pensare ad una istituzionalizzazione dell’aiuto al detenuto: ci vuole la spontaneità del volontariato, la freschezza della libertà dai vincoli e dalle rigidità, che Mazzi prima annunciava. Quindi il volontariato è un soggetto forte, indispensabile e insostituibile e l’organizzazione del volontariato deve essere intelligente, come sempre di più lo è, in questi ultimi tempi. Ossia non uno spontaneismo, ma un’analisi, uno studio, una risposta studiata con iniziative valide. Ad esempio, al convegno di qualche mese fa, alla Casa di Reclusione di Padova, ho sentito e mi ha impressionato la testimonianza di una cooperativa di volontari che opera in Lombardia, la quale propone lavoro ai detenuti, ma prima di proporlo studiano il mercato, vedono qual è il settore più bisognoso di manodopera specializzata in e cercano di organizzare corsi di preparazione verso quel settore dove, essendoci più bisogno, la società è disposta a reinglobare il detenuto. Questo, dico: l’intelligenza del volontariato come momento fondamentale. Un’ultima idea – non so se sarà simpatica o meno – anche agli interessati, è l’altrettanto fondamentale importanza della risposta dell’interessato al trattamento. Il problema, naturalmente, è fortissimo, e non si può neppure ben delineare, forse. Il primo protagonista della riuscita dell’alternativa al carcere è proprio il detenuto ammesso alla misura alternativa. Quanto più egli sarà consapevole della propria bontà e sarà sincero nella sua volontà di auto-recupero, tanto più l’iniziativa riesce. In questo senso, quella riconciliazione sociale che è oggetto del nostro convegno passa attraverso la sincerità dell’impegno e anche attraverso degli altri possibili comportamenti del detenuto ammesso alla misura alternativa. Primo dei quali, forse, quello dell’impegno in vista del risarcimento della vittima. La riconciliazione passa sicuramente attraverso un’assunzione volontaria, da parte dell’interessato, d’impegno a risarcire la vittima. E non significa un risarcimento con la bilancia in mano ma significa, per esempio, un impegno di volontariato, un approccio alla vittima, dove possibile, sia di tipo morale, sia di tipo economico, dove questo possa essere effettuato. Questa è una linea di tendenza molto nuova, perché la vittimologia in Italia è il settore più trascurato. Si inizia ad abbozzare, a livello di studi dell’Amministrazione penitenziaria, proprio come questo sia un campo di mediazione per il volontariato e per le istituzioni. Con il dottor Signorelli avevamo avuto, anche in un precedente incontro,una battuta sull’opportunità che il C.S.S.A. si impegni o non si impegni nello stimolo verso il risarcimento. Ci sono delle perplessità e la cosa va studiata in maniera molto attenta, però mi pare che, a livello di amministrazione centrale, ci sia un incentivo in tal senso e, questo, è un altro fortissimo campo d’intervento del volontariato fuori dal carcere.
Celso Coppola
Grazie al dottor Cappelleri per questa lucidissima e chiara impostazione, che ci ha dato un sacco di stimoli e adesso dovremo ruminare per un bel po’ tutti questi aspetti, che sono molto importanti nel rilancio di un’azione per il cambiamento. È importante che approfondiamo tutti questi punti, per esempio l’analisi dell’effetto dell’azione del volontariato sulla persona interessata e, soprattutto, l’analisi della reazione o dell’atteggiamento della persona interessata nel momento in cui riceve la misura alternativa, con tutti gli aspetti che la circondano e che la costituiscono.
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