Tutela della salute psichica

 

Tutela della salute psichica

Il Servizio Psicologico nel Penitenziario

Dott.ssa Paola Giannelli, Psicologo Penitenziario - Psicoterapeuta 

(Casa di Reclusione Spoleto)

 

 

Ciò che propongo alla riflessione è un aspetto del complesso approccio alla salute nel Penitenziario, approccio che, per essere efficace, deve essere improntato sulla interdisciplinarità ed integrazione, ma anche sulla differenziazione delle competenze.

Non entrerò nel merito dell’intervento psicologico a tutela della salute psichica del detenuto, non perché esso non sia pertinente all’oggetto del convegno, ma perché non è stato programmato uno spazio specifico per questo, come avvenuto invece per le altre figure professionali. Nonostante la Psicologia Penitenziaria trovi nel Servizio Sanitario Nazionale la sua naturale collocazione avendo a che fare con la prevenzione ed il trattamento del disagio psichico, il suo punto di vista risulta essere secondario, anche laddove ci si aspetterebbe un approccio completo ai problemi del detenuto. A partire proprio dalla sua soggettività. Questo significa operare una rottura di vecchi schemi, superati sotto il profilo socioculturale oltre che scientifico.

Il punto di vista psicologico è divenuto secondario quando si parla di penitenziario minorile, mentre nel penitenziario adulti, esso viene fuso, confuso forse subordinato a quello medico-psichiatrico. E’ forse questo il motivo per cui non se ne parla mai?

L’assurdità di questa emarginazione, ovvia quando si pensa a soggetti adulti, diviene paradossale quando si parla di soggetti in età evolutiva.

Riporta in entrambi i casi l’ago della bilancia sul versante del controllo sociale e della repressione del disagio e della devianza stessa, del trattamento inteso, non come crescita della persona ma come eliminazione di un sintomo.

 

Infatti quando si parla della tutela della salute psichica il modello cui si fa riferimento è solo ed esclusivamente quello medico-psichiatrico. Rispettabilissimo, indispensabile, ma non è il solo e, rispetto alla tutela della salute, risulta essere un approccio monco, per diverse ragioni.
Al di là del fatto che la psicologia ha una sua identità ed autonomia sul piano scientifico ed operativo, ci si dimentica che il carcere è fabbrica, oltre che amplificatore di disagio, disagio che spesso è preesistente alla detenzione;è alta la percentuale di suicidi e di autolesionismo. E questo non certo perché esiste una "psicopatologia speciale", intesa come malattia mentale. Il carcere è il regno del disagio esistenziale, non della malattia mentale. Mi riesce difficile pensare che un disagio esistenziale possa essere risolto solo con Prozac o altra sostanza.
Voglio precisare che non è mia intenzione mettere in contrapposizione diverse discipline, ma evidenziarne la diversità affinché si possa realizzare una collaborazione efficace e funzionale ad un obiettivo comune: la salute della persona detenuta.
L’approccio alla salute nel penitenziario è sempre più organicistico e questo, insieme alla cultura penitenziaria dell’emergenza, (che emergenza più non è dal momento che è divenuta norma), sembra ci stia riportando indietro. Chissà, magari si tornerà alle teorie del Lombroso!Sul piano della politica penitenziaria, il risvolto di questa confusione, dimenticanza, regressione, è che è stato realizzato un Servizio Psichiatrico per cui, almeno negli istituti più grandi, abbiamo tutti i giorni lo psichiatra, mentre il Servizio Psicologico, giace su un binario morto.
Non solo, attualmente vi è una riduzione del 30%, ma direte voi, non ci meravigliamo perché questo è un governo di destra! Tuttavia, la tendenza a risparmiare sulla salute psichica del detenuto si era già manifestata in precedenza, con un taglio del 22% di quelle risorse previste dalla normativa per: il "Servizio Nuovi Giunti", "prevenzione del rischio suicidario e autolesionismo", "presa in carico per il trattamento psicologico del detenuto".
Con un numero di ore di consulenza, che era già irrisorio, siamo da tempo chiamati a svolgere funzioni importanti che la normativa attribuisce allo psicologo. Date queste condizioni di inadempienza obbligata, si provi ad immaginare quale sia la qualità del servizio che si offre all’utente detenuto e come questa salute possa essere tutelata.La motivazione delle riduzioni è sempre la stessa: il bilancio. Tuttavia, il bilancio non ha impedito e non impedisce di spendere fiumi di soldi in psicofarmaci, tanto che si potrebbe, in questa sede, ben parlare, oltre che di detenuti tossicodipendenti, di dipendenza da psicofarmaci.
Penso dunque che il motivo della riduzione del lavoro psicologico non sia nella scarsità di risorse economiche, ma nella gestione di esse. Nella scelta politica di privilegiare forme di trattamento del disagio psichico basate non sull’ascolto del detenuto, sulla ricerca di un significato, ma sulla repressione di esso. Non su un processo di crescita della persona ma su una richiesta di normalizzazione.
Più in generale, dopo 22 anni di lavoro nel penitenziario, posso dire che il carcere oggi è molto diverso dai tempi in cui ho iniziato. Della Legge Gozzini e dello spirito che la animava, poco è rimasto.
Il trattamento stesso è sempre meno investito, soprattutto nei circuiti ad alta e massima sicurezza, dove non essendo possibile l’apertura verso l’esterno, dovrebbe essere fondamentale il trattamento intramurario, anche tenendo conto degli effetti sulla salute che determinati regimi comportano. Invece domina, anche negli ambienti più "illuminati" la logica: è criminale, chiudiamolo dentro e buttiamo le chiavi. Che decreta non solo il fallimento ma la rinuncia del sistema penitenziario al suo mandato: per analogia è come se il sistema sanitario decidesse di chiudere in lazzaretti e abbandonare a sé stessi tutti i malati di carcinoma.Ciò che rimane del trattamento è spesso intriso di superficialità e questo anche a causa della abissale carenza di operatori. Se tu detenuto accetti il gioco: fai il bravo e ti adatti sarai premiato. Ciò che si chiede è un adattamento alle regole. A volte sembra importare poco al detenuto, ma questo non ci meraviglia, quanto ci deve meravigliare il fatto che importi poco all’istituzione, se una volta fuori quella persona ucciderà ancora. Vi è un interesse formale verso la persona detenuta: la sua realtà interna, le motivazioni, ciò che si muove "dentro" non importa molto: ciò che importa è che si "normalizzi". Che si mostri di essere buono e bravo. Il messaggio che si insegna è che ciò che conta è la superficie, le apparenze, le etichette.Concludo con una nota critica, che vorrei venisse raccolta per ristabilire un dialogo costruttivo: io penso che un convegno che inizia con brani di lettere di detenuti suoni stonato se poi viene ignorato e relegato in cantina il lavoro di coloro che, certamente non sono e non devono essere i soli ad ascoltare il detenuto ma che hanno, per competenza e per legge, strumenti per intervenire, decodificare, dare significato e possibilità di trasformazione al loro disagio.


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