Prospettive area penale esterna

 

"Realtà e prospettive dell’esecuzione penale esterna"

Reggio Calabria, 24 maggio 2003

Provveditorato Regionale della Calabria – Associazione Nazionale Magistrati

 

Presentazione e saluti

 

Presentazione

Dr Lombardo Vincenzo A. – Associazione Nazionale Magistrati

Presidente della Provincia On. Fuda Pietro

Assessore alle politiche sociali D.ssa Minasi Tilde – Comune di Reggio Calabria

Consigliere Turrini Vita Riccardo – Direzione Generale Esecuzione Penale Esterna

 

Interventi

 

"Quali misure alternative, per quale utenza nel distretto giudiziario"

Presidente del Tribunale di Sorveglianza Dr Scordo Marcello

 

"Uno status culturale nuovo per le misure alternative. Oltre il paradigma carcerario"

Provveditore Regionale della Calabria Dr Quattrone Paolo

 

"Il difficile equilibrio tra domanda di sicurezza, prevenzione comunitaria e solidarietà sociale"

Sostituto Procuratore Generale Dr Rizzo Fulvio

 

"Dalla pena alla riconciliazione sociale"

Mons. Caniato Giorgio – Ispettore Generale dei Cappellani delle Carceri

 

Riepilogo e questionario sulle Misure Alternative

Chianese Gennaro dell’ufficio dei Cappellani – Roma

 

"La comunità cristiana, spazio di accoglienza e di recupero sociale dei condannati"

Mons. Iachino Antonino – Presidente Caritas diocesana – Reggio Calabria

 

"L’Ente Locale protagonista nei programmi di reinserimento sociale"

Varacalli Giuseppe – ANCI Calabria

 

"Il C.S.S.A. organismo di programmazione, coordinamento e gestione delle pene alternative al Carcere"

Dr Nasone Mario – Direttore dell’ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna – PRAP Calabria

 

"Criminalità, misure alternative, immagine sociale dei problemi, pregiudizi e stereotipi, strumenti e progetti per incrementare conoscenza, informazione, consapevolezza dei problemi"

Prof. Bruno Francesco –criminologo, Università "La Sapienza" Roma

 

"Il ruolo della Regione nell’Esecuzione penale esterna: il protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Calabria".

On Egidio Chiarella Consigliere Regionale

 

Conclusioni

On. Sottosegretario alla Giustizia Avv. Valentino Giuseppe

 

Presentazione

 

La legge penitenziaria del 26 luglio 1975 n. 354 ha portato cambiamenti radicali e novità della esecuzione penale. La successiva legge "Gozzini" del 10/10/1986 n. 66, fu poi la dimostrazione concreta del cambiamento, tanto da essere definita "la seconda riforma" della legge penitenziaria, permettendo un ampliamento notevole delle misure alternative.

Il mondo penitenziario subisce una "rivoluzione Copernicana", intorno all’uomo detenuto ruota tutto il sistema. Al concetto "afflittivo della pena" si sostituisce il concetto della "pena rieducativa".

Si concretizza il nuovo trattamento che diventa "individualizzato" e tiene conto delle effettive ed attuali esigenze del detenuto.

Il carcere non più solo afflittivo utilizza nuove metodologie e strumenti per concretizzare il recupero sociale del condannato.

Nonostante, in questi ultimi anni, l’applicazione dell’esecuzione penale esterna abbia raggiunto risultati apprezzabili, ancora oggi, essa è una delle tematiche più discusse dai nostri legislatori, poiché la sua dimensione bifasica vede da una parte i sostenitori del sistema sanzionatorio tradizionale e dall’altra i sostenitori di un sistema sanzionatorio improntato a dimensione d’ uomo, che considera l’esecuzione penale esterna lo strumento e la dimostrazione concreta della nuova convinzione che i sistemi legislativi devono avere nei confronti del condannato.

I dati raccolti e l’esperienza positiva, comunque, ci confermano che l’esecuzione penale esterna rappresenta lo strumento più idoneo ed apprezzabile per la realizzazione del nuovo progetto che poggia le sue basi sul recupero dell’uomo e il suo ritorno alla società libera.

Il carcere, modificato nella centralità della sua essenza si trasforma da "raccoglitori di uomini" senza speranza a luogo di speranza dove l’afflizione sproporzionata lascia il posto ad una sofferenza moderata, sopportabile perché essa racchiude la speranza del domani, la scelta che l’uomo detenuto "può fare" di rimettersi sulla corsia della legalità per tornare uomo libero.

Il Convegno su "Realtà e prospettive dell’esecuzione penale esterna", tenutosi a Reggio Calabria, nel mese di maggio del 2003, su iniziative dell’Associazione Nazionali Magistrati e del Ministero della Giustizia e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, è stato un momento importante di riflessione e di dibattito su questa tematica che, ancora oggi, non ha quella attenzione che meriterebbe.

La presenza all’incontro di oltre 400 partecipanti, in particolare degli Enti locali, del Volontariato, della Chiesa, ha evidenziato per la prima volta un’attenzione nuova con la quale si inizia a guardare ai temi del carcere, del trattamento e della inclusione sociale dei detenuti.

Gli atti che qui si presentano intendono valorizzare i contenuti che in quell’occasione gli autorevoli relatori hanno trasmesso, un contributo utile per proseguire la riflessione con l’auspicio che possano servire per dare all’esecuzione penale esterna più spazio e visibilità anche nella Regione Calabria.

Vincenzo Antonio Lombardo  - Associazione Nazionale Magistrati

 

Nell’iniziare i lavori del convegno che in questa giornata ci occupano,ringrazio la Magistratura, le Autorità Militari, le Autorità politiche e i rappresentanti degli Enti Istituzionali.

Questo convegno che vede coinvolto il mondo del sociale, è stato patrocinato dalla Regione Calabria, la Provincia ed il Comune. In questa panoramica dell’esecuzione extracarceraria, gli Enti territoriali, nonché le associazioni di volontariato, hanno ruoli e compiti, molto importanti sotto il profilo sia dei finanziamenti che dei servizi.

I lavori odierni prevedono i Saluti iniziali del Sindaco di Reggio Calabria, del Presidente della Provincia, del Presidente del Consiglio Regionale e del Presidente della Regione Calabria.

Il Presidente della Regione Calabria, impossibilitato a partecipare ai lavori, ha fatto pervenire agli organizzatori un messaggio di saluto con gli auguri di buon lavoro.

 

Presidente della Provincia onorevole Pietro Fuda

 

Ringrazio il Presidente e gli organizzatori per l’iniziativa e per aver scelto Reggio Calabria come sede di questo importante convegno. Mi pare che le numerose e qualificate presenze stiano a testimoniare quanto interesse susciti l’argomento trattato.

Già con l’incarico di Assessore al Lavoro della Regione Calabria ebbi modo di affrontare problematiche inerenti l’avvio al lavoro dei detenuti una volta espiata la pena. Questo senza dubbio è un problema complesso, in una realtà dove la disoccupazione rappresenta un polo di crisi, pertanto, l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro diventa una complicanza che ,comunque, non può esimerci dall’impegnarci su argomenti che oggi pongono problemi sociali di recupero e dell’avviamento al lavoro.

La mia presenza, oltre, a rappresentare l’ente da me diretto, non può ridursi alla semplice partecipazione di uditore ma deve proporsi come parte attiva e mettere a disposizione tutte le competenze e le risorse per la risoluzione delle problematiche che il convegno tratta.

Tra gli argomenti affrontati vi è quella della formazione professionale. La competenza sulla formazione professionale ancora oggi non è stata definita per cui se ne occupano e la Regione che e la Provincia.

A tal proposito, si sta spingendo, con forza per trasformare la gestione obsoleta della formazione adeguandola ad una società moderna che offre occupazione specializzata, dove l’offerta e la domanda di lavoro si possano incontrare ed ottimizzare la produttività.

Gli scenari, difatti, sono mutati, diversi sono i soggetti che si avvicinano alla formazione sono quelli che rappresentano e godono delle misure alternative nella condizione di detenuti..

La disponibilità dell’Ente che rappresento è quello di arrivare a forme di convenzioni più avanzate che vedano più partecipazione e apertura totale.

La forza del volontariato, sono convinto, deve essere ben utilizzata e rafforzata, perché possa esprimersi in tutta la sua forza e contribuire al superamento delle problematiche che riguardano il mondo di chi si trova in uno stato di disaggio.

La disponibilità dell’Amministrazione Provinciale è totale ed è pronta ad utilizzare tutte le proprie risorse negli ambiti di competenza, cominciando dalla formazione e dagli affari sociali, per dare risposte concrete, avviare forme di lavoro extracarcerario in un ambiente sociale particolare quale è quello in cui noi tutti operiamo.

E’ un impegno difficile, ma non ci deve fare paura, dobbiamo attivarci sviluppando sinergie che possano consentire il raggiungimento dell’obiettivo che tutti ci siamo prefissati.

 

Assessore alle politiche sociali dott.ssa Tilde Minasi - Comune di Reggio Calabria

 

Quale rappresentante dell’Amministrazione comunale reggina, porgo i saluti a tutte le Autorità presenti, ai componenti del tavolo di presidenza, al Provveditore, ai componenti del Centro di Servizio Sociale e ai responsabili delle Associazioni del volontariato che partecipano.

Preciso che l’ Amministrazione Comunale si sente impegnata a contribuire in maniera fattiva ad ogni progetto finalizzato al reinserimento dei detenuti e alla realizzazione dell’esecuzione penale esterna alla pena.

Anche se, le Case Circondariali della Calabria non conoscono il problema del sovraffollamento, è noto, come ha ricordato il Dr. Quattrone Provveditore Regionale della Calabria, che molti detenuti calabresi sono costretti a scontare la detenzione in vari Istituti distribuiti su tutto il territorio nazionale. Ciò comporta conseguenze negative prevedibili sui loro rapporti con i nuclei familiari.

Questi, ed altri importanti motivi hanno indotto l’Amministrazione comunale ad accelerare le procedure per la rapida definizione delle pratiche relative alla conclusione e, quindi, all’apertura della Casa di Reclusione di Arghillà che potrà ospitare circa 300 detenuti.

Il nuovo Istituto consentirà l’applicazione del principio della territorialità della pena e potrà porre fine, anche se solo in parte, al penoso calvario, al dispendiosissimo pendolarismo dei familiari dei detenuti e nello stesso tempo favorire l’applicazione delle misure alternative.

Il reinserimento dei detenuti comincia già nella fase di detenzione attraverso la predisposizione di una rete di contatti destinati a sostenere il progetto individuale.

La Carta Costituzionale considera la pena non una ritorsione della società contro il reo ma attribuisce ad essa una funzione rieducativa.

Il reo, quindi, non può dare prova di sé in uno stato di reclusione ma, soltanto, in una società libera. La portata di questi progetti non può essere attuata con il solo impegno degli operatori penitenziari o della giustizia minorile, ma gli enti locali, il volontariato, la comunità ecclesiale, i patronati devono attivarsi ed impegnare le proprie risorse nell’ambito di una collaborazione intersettoriale ed interistituzionale perché si possa arrivare a parlare di progetti mirati al vero reinserimento dei soggetti detenuti.

 

Consigliere Riccardo Turrini Vita – Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna -

 

Fra le diverse attitudini dell’animo che il primo direttore generale dell’esecuzione penale esterna ha potuto provare, nell’ancor breve lasso di tempo che è trascorso all’investitura dell’ufficio, due si sono, soprattutto, mostrate salienti. Per un verso, a fronte delle strutture oggettivamente modeste deputate allo specifico compito dallo Stato, un vivo e diffuso interesse a conoscere anche la realtà dal nome difficile dalla natura giuridica composita l’espressione indica.

Di questo interesse è segnale la presenza nella felice odierna occasione, nella sede del Consiglio della Regione della Calabria, di numerose rappresentanze istituzionale alle quali mi onoro di rivolgere un pensiero di gratitudine e deferenza.

Per altro verso, l’impegno costante e molteplice che la Direzione Generale, richiede e che non mi permette di essere fra Loro in questo momento di riflessione e di considerazione del presente momento e di quello futuro.

Il dato, limitato e parziale, che voleva a finire dell’anno 2002, esservi 41252 condannati in misura non detentiva (28313 affidati in prova e 12939 detenuti domiciliari) a petto di 32854 detenuti condannati, costituisce l’elemento oggettivo che giustifica ogni attenzione culturale ed istituzionale, sia all’idoneità dell’attuali forme di esecuzione penale esterna, sia alla riconsiderazione della realtà della pena, che la dottrina penalistica nella sede della teoria generale, tende ancora troppo a rinviare al diritto penitenziario.

Per l’ampiezza degli interventi previsti e per la qualità che i relatori assicureranno, attendo con interesse il contributo di discussione che gli atti di questo convegno raccoglieranno. Tanto più volentieri, con veri complimenti all’Associazione Nazionale Magistrati ed alla nostra articolazione, il Provveditorato ed il suo ufficio di esecuzione penale esterna in particolare, formulo auguri sinceri di vivo successo e di fecondo lavoro.

 

"Quali misure alternative, per quale utenza nel distretto giudiziario".

 

Presidente del Tribunale di Sorveglianza Dr Scordo Marcello

 

L’originario programma dell’odierno convegno, articolato in una successione di interventi sul tema realtà e prospettive dell’esecuzione penale esterna, prevede che il mio intervento debba svolgersi, in particolare, sul versante delle misure alternative alla detenzione, sviscerandone le ipotesi di fruibilità nell’ambito delle realtà operative del distretto giudiziario reggino.

" Quali misure alternative, per quale utenza….", dunque?

In uno dei recenti incontri di studio organizzati – come di consueto – dal Consiglio Superiore della Magistratura sul tema " Esecuzione penale esterna e misure alternative", un esimio relatore, professore – se non ricordo male – dell’Università degli studi di Ferrara, esordì in maniera tanto inattesa che ancora oggi ne rammento vivamente l’approccio iniziale. Girò all’uditorio, in forma interrogativa, il seguente concetto: la condanna penale, nel suo contenuto affittivo e riparativo, tout court con l’inflizione della pena per lo più detentiva ha – nel nostro ordinamento statale e nei sistemi penali moderni un generale – un senso, è cioè efficace?

Un bell’interrogativo, che mi lasciò ancora di più sconcertato, subito dopo che il professore, a mò di provocazione, legò la domanda apparentemente retorica ad una delle tante esemplificazioni, prendendo al volo una delle più dure realtà sociali che mettono a nudo l’insicurezza del nostro stesso corpo sociale e della nostra convivenza, specialmente nelle regioni meridionali del Paese: si chiese, l’illustre relatore, facendo l’appropriato esempio, la delinquenza organizzata, si, i reati mafiosi hanno l’antidoto più efficace nella minaccia della pena detentiva e, di più nell’ inflizione stessa della reclusione carceraria? Cosa fa la Mafia? Perché delinque? Quale potente molla la spinge ad essere così violenta e parassitaria?

Certamente il fine del conseguimento di profitti illeciti, quello dell’arricchimento vero e proprio, insomma lo scopo di impugnare il suo patrimonio e le proprie ricchezze pecuniarie.

È, quindi lì, che bisognerebbe colpirla, con una sanzione di contenuto esattamente uguale e contrario. E dunque, la pena detentiva, in un caso come questo, mostra di avere maglie larghe, anche perché non è infrequente – come l’esperienza dei tanti casi pratici ci mostra – che i mafiosi, specialmente quelli più agguerriti e irriducibili, stando in vincoli nelle stesse carceri, continuano, non di meno, a fare perfino proselitismo con forme alla stessa loro indole.

E’ vero che il professore – come ho già avvertito – disse tutto questo a mò di provocazione e che aggiunse come quella sua iniziale riflessione, di carattere evidentemente speculativo, non avesse innanzitutto il favore di un conveniente approccio "culturale e ideologico", tale da permeare di sé il nostro sistema penale.

Ai posteri, dunque, sarebbero riservati i benefici, sia pure opinabili, che a noi viventi sembrano quantomeno "avveniristici" ….

Ma, a ben vedere, il concetto dell’ineluttabilità della pena detentiva, vista cioè come sanzione da infliggere necessariamente dopo l’accertamento del delitto e l’individuazione di chi ne è stato autore, comincia – sia pure in nuce – ad essere obsoleto anche in taluni settori del nostro attuale sistema penale. Un esempio abbastanza calzante, secondo noi, è quello del processo penale minorile, un settore in cui la detenzione costituisce già l’ultimo anello – è proprio il caso di dire – che annoda il minore, resosi responsabile di un reato, alla catena del vincolo carcerario.

Il sistema penale moderno, e quello del nostro paese in particolare, sono orientati comunque a vedere nella detenzione l’estrema ratio della punizione del reo. Il quale, come invece è ormai nella coscienza, più o meno avvertita, dei vari componenti del corpo sociale, è un soggetto, un nome che ha –sì – sbagliato nei confronti della società della quale fa parte, ma che, da questa stessa società, viene aiutato, mediante gli adeguati strumenti affiancati dagli organi istituzionali appropriati, a rivedere i propri errori, a ripudiarli, a riguadagnare il tempo perduto, tramite un’opera che comunemente viene chiamata " risocializzazione" .

La giustificazione – se si vuole- anche etica delle misure alternative alla detenzione sta nel "riacquisto dell’errante", perché il suo recupero sociale è pure un vantaggio concreto che la stessa funzione educativa della pena ottiene, se efficacemente dispiegata nella naturale direzione, essendo fin troppo evidente che, con la risocializzazione del reo, si sarà ottenuto pure di avere un soggetto non più pericoloso in seno alla società e, perciò, quantomeno un aspirante che sarebbe stato pronto altrimenti ad insidiarla nuovamente.

Il punto nodale è pertanto quello della risocializzazione effettiva del condannato.

E, il conseguente, la domanda vera, seria, avvertito è la seguente: le misure alternative, oggi praticato, sono fedeli, efficaci, effettive nella traduzione dello scopo che la giustificherebbe?

La risposta consapevole ed onesta ci imprime di dire che occorre ancora fare molta strada, perché purtroppo – perlomeno a noi così sembra – le difficoltà e gli ostacoli non sono di poco conto e né trascurabili, anche quantitativamente parlando.

Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, nell’anno 2001 il numero dei condannati che gravitano nell’area penale esterna si aggirava sui 30 mila casi, a patto di un’altrettanta non indifferente entità di circa 28 mila detenuti già condannati (esclusi, perciò, gli imputati, i c.d. reclusi in attesa di giudizio). Sono cifre obbiettivamente esorbitanti, e di certo meno clamorose di quelle che riguardano l’anno ulteriore di osservazione (secondo gli appropriati aggiornamenti del dr. Paolo Quattrone, Provveditore Regionale della Calabria). Sono cifre da mettere a dura prova la stessa capacità ricettiva delle strutture carcerarie in atto disponibili. Considerando altresì le carenze del personale, sia degli organismi di supporto nell’opera di rieducazione intramuraria (cioè della èquipe socio-rieducative carcerarie), sia dei Centri del Servizio sociale, sia della stessa Magistratura di Sorveglianza, è assai improba l’impresa di pagare le misure alternative (quindi l’affidamento in prova al S.S., la detenzione domiciliare, la semilibertà ed anche la liberazione condizionale che risponde grosso modo alle medesime finalità rieducative del condannato) al conseguimento degli scopi che sono loro propri.

L’esperienza professionale diretta di chi vi parla sarebbe di già una tentazione forte di dire qui quanto sia penoso perfino dovere ribadire ripetutamente l’insufficienza pressocchè costante del numero degli stessi magistrati addetti al disbrigo degli affari nell’ambito del tribunale di sorveglianza reggino (con le consequenziali e frequenti ipotesi di incompatibilità che si verificano notoriamente a causa della reclamabilità e delle impugnazioni dei provvedimenti emessi dal magistrato monocratico…). Si tratta, invero, di situazioni che, moltiplicandosi in misura via via crescente, richiedono un impegno professionale e dei sacrifici che – per lo più affrontati con tanta buona volontà di tutti – non consentono tuttavia di assicurare una responsabile gestione dei procedimenti di sorveglianza, che corrisponda sempre alle giuste esigenze della rapidità dei provvedimenti e delle decisioni in generale.

Poiché, d’altra parte, non si vuole squinternare al solito repertorio delle doglianze più ricorrenti (perlomeno non sono questa la sede adatta e la sostanza delle nostre intuizioni), bisogna purtuttavia avvertire che tante volte, secondo il sommario avviso di chi vi parla, le stesse disposizioni della legge, pure nel versante specifico del quale ci si sta occupando, sono tali da lasciare piuttosto perplessi.

Un fugace accenno faccio per rimarcare soltanto chè incomprensibilità, sul piano dei contenuti e – sia consentito – della stessa ragionevolezza, di quella norma che estendeva la fruizione della liberazione anticipata degli affidati in prova al servizio sociale: la recente legge 19.12.02, n. 277 riconosce all’affidato il diritto di godere della riduzione del tempo di messa in prova, che per definizione avrebbe invece dovuto costituire un profitto del condannato in vista della rieducazione e del recupero sociale, mentre il premio riduttivo va per direzione opposta ed è contrario allo spirito e alla ratio sottesi alla misura alternativa, avendo per effetto innegabile il risultato di comprimere il periodo riservato allo svolgimento della funzione rieducativi dell’esperimento. Nel quadro di una riaffermazione dello scopo rieducativi delle misure alternative, si sta, comunque, dando però via via importanza al momento della riparazione del torto cagionato dal reo alle vittime della sua stessa condotta delittuosa.

L’affidamento in prova al S.S. si mostra abbastanza rispondente allo scopo, e le prescrizioni specifiche, imposte al fruitore della misura alternativa prevista dall’art. 47 dell’ordinamento penitenziario, appaiono sempre più diffuse nella loro pratica applicazione.

Già in incontri di studio promossi dal Consiglio Superiore della Magistratura si era visto come la riparazione del danno cagionato dal reato potesse diventare uno dei momenti più importanti del progetto rieducativo del condannato.

Oggi, anche con l’ausilio di uno specifico protocollo d’intesa fra il tribunale di sorveglianza di questo distretto ed il locale centro di servizio sociale per adulti, cominciano ad essere non poche le ordinanze che, nell’accordare la messa in prova alternativa alla detenzione, prescrivono forme di riparazione del danno patrimoniale in favore della persona o dell’Istituto che lo ha subito, oppure - quando esse non siano praticabili per obiettive difficoltà di ordine pratico (basti pensare che lo stesso delitto è tale, in non rari casi e nei nostri ambienti, da erigere invincibili steccati di ostilità e di odi purtroppo tante volte irriducibili tra l’offensore e la vittima)- prevedono forme di riparazione mediante la partecipazione del reo ad esperienze di volontariato, di solidarietà sociale in favore di persone bisognose, anziane, ammalate ecc..

Forse quest’ultima è la strada che potrebbe portare a risultati proficui, corrispondenti alla vera e concreta risocializzazione del condannato, alla produzione di una consapevolezza seria del suo debito sociale e di una sensibilità nuova anche se – per vero – fino ad un non remoto passato non vi si era pensato.

 

"Uno status culturale nuovo per le misure alternative. Oltre il paradigma carcerario."

 

Provveditore Regionale della Calabria- Dirigente Generale - Dr Paolo Quattrone

 

Desidero innanzitutto, a nome del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, mio personale e di quanti lavorano e vivono nelle carceri della Calabria, indirizzare un sentito saluto alle Autorità intervenute ed agli autorevoli ospiti. Di questo, io vi ringrazio molto, perché per noi operatori penitenziari la vostra presenza in questa circostanza, rappresenta un segno prezioso di attenzione.

Inizio subito evidenziando che i dati forniti dal Presidente Scordo, si riferiscono all'anno 2000; i dati del 2002 risultano essere diversi e sono stati comunicati di recente dalla Direzione Generale dell'Esecuzione Penale Esterna, istituita da poco tempo presso il nostro Dipartimento. I dati odierni riferiscono di 45.000 soggetti in esecuzione penale esterna, non più 30.000, a fronte di una presenza di detenuti con posizione giuridica definitiva di 30.000 soggetti; quindi abbiamo 15.000 detenuti in più all'esterno rispetto a quelli che vivono la detenzione all'interno delle strutture penitenziarie.

Una situazione penitenziaria normale in altri paesi. Ed infatti negli USA i detenuti in esecuzione penale esterna superano di 4-5 volte i detenuti che sono all'interno delle strutture penitenziarie. In quel Paese ci sono circa 2.000.000 di detenuti nelle carceri perché è stata avviata una politica di carcerizzazione, e nonostante questo vediamo una presenza notevolissima di soggetti avviati alle misure alternative. I dati per quanto riguarda l'Italia sono francamente preoccupanti perché ciò inciderà sull'operatività dei Centri di Servizio Sociale siti nel nostro territorio nazionale che gestiscono attualmente con notevolissime difficoltà le misure alternative.

E quindi vorrei sottolineare, non per fare polemica, che se agli operatori penitenziari si richiedono interventi, essi devono essere messi in condizione di poter effettuare tali interventi. Le carenze degli organici e il disagio che investe la Magistratura di Sorveglianza investe anche gli operatori penitenziari, e, nonostante queste difficoltà, essi continuano ad effettuare i doverosi interventi affinchè l'esecuzione penale sia sempre più umana e giusta. Ciò nel rigoroso rispetto delle istanze che vengono dai cittadini che devono essere contemperate se non si vuole aggravare la situazione, già precaria, delle carceri italiane. Bisogna mirare quindi ad una politica di deflazione degli istituti di pena, anche perché i detenuti costano. Un detenuto costa dalle 200 alle 270.000 £ al giorno al contribuente, e quindi penso che i nostri soldi debbano essere spesi bene. Il carcere deve rappresentare l'ultima ratio, deve contenere esclusivamente quelle persone che rappresentano un concreto pericolo per la società in quanto il penitenziario non può essere l'unica risposta ad ogni tipo di trasgressione. In Calabria la situazione dell'esecuzione penale esterna risulta essere in linea con i dati nazionali. Per i casi in esecuzione penale esterna solamente per 70 soggetti è stata disposta la revoca; siamo quindi perfettamente in media con i dati nazionali e pertanto le misure alternative hanno consentito in questi anni di non aggravare la già precaria situazione penitenziaria. Bisogna dare atto, e questo è doveroso da parte dell'Amministrazione Penitenziaria, del grande impegno che i nostri Assistenti Sociali, quotidianamente assicurano in un diffìcile territorio qual'è quello calabrese. Ciò ha consentito di raggiungere rilevanti risultati.

Il Dott. Nasone che è il nostro Direttore dell'Esecuzione Penale Esterna presso il Provveditorato Regionale, illustrerà questi dati meglio di me; egli farà un'analisi più dettagliata avendo una competenza più specifica, poiché segue quotidianamente i propri collaboratori e darà notizie più aggiornate sulla situazione calabrese. A me pare utile, in questa occasione, fare il quadro della situazione penitenziaria che investe la nostra Regione e, anticipare anche quelle che sono le nostre progettualità; ciò che l'Amministrazione Penitenziaria ha in animo di realizzare.

Innanzitutto noi vorremmo attuare quello che dovrebbe essere il sistema organizzativo di tutte le Amministrazioni dello Stato; vorremmo avviare una politica nuova dell'amministrare che sia molto attenta ai bisogni dei cittadini e che proceda nella organizzazione dei servizi basandosi sul principio del "lavorare per progetti" .

La situazione nella Regione Calabria: abbiamo 11 Istituti Penitenziari e 3 Centri di Servizio Sociale per Adulti.

Negli ultimi tempi è stato dismesso parzialmente un Istituto, quello di Cosenza e trasferiti i detenuti ospiti nelle altre strutture penitenziarie della Regione e ciò per garantire anche migliori condizioni lavorative al nostro personale.

Abbiamo avviato l'adeguamento funzionale della struttura Penitenziaria che vede l'impiego di maestranze detenute per il risanamento edilizio dello stabile demaniale. Analoghi interventi sono stati effettuati o stanno per essere effettuati in tutti gli Istituti penitenziari della Regione per cui questa progettualità, condivisa dai Signori Direttori, dai Comandanti di Reparto e da tutti gli altri operatori della Regione, vedrà anche ogni utile contributo e partecipazione e, perché no, anche da parte dei detenuti per risollevare le sorti delle Comunità Penitenziarie.

Con l'attivazione di questi progetti si potrà avviare un nuovo circuito penitenziario in ambito regionale.

Abbiamo avuto modo di verificare nel corso della visita effettuata presso tutti gli Istituti della Regione, una sconveniente allocazione della popolazione detenuta: per esempio strutture penitenziarie con camere individuali occupate da 3-4 persone; cameroni occupati da 2-3 persone. Un'assistenza sanitaria a pioggia in tutte le carceri calabresi anche dove non era necessaria e precaria invece nelle strutture in cui la presenza notevole di soggetti consigliava un'attenzione medica e paramedica particolare. Risulta indispensabile, pertanto, assicurare nei penitenziari un circuito sanitario, di primo, di secondo e di terzo livello per affrontare adeguatamente le problematiche del carcere, quali la presenza di un notevole numero di ammalati mentali, di tossicodipendenti, di affetti da HIV, di soggetti ammalati di AIDS e non ultimo di sex-offenders. Molti di voi, per esempio, ignorano che in Calabria abbiamo più di 100 sex-offenders. Le carceri di Vibo Valentia e di Castrovillari sono contenitori di questi individui; delle vere e proprie bombe atomiche, perché nei confronti di tali soggetti non è stato avviato alcun intervento trattamentale. Se non si interviene immediatamente noi restituiremo alla società degli individui peggiori di come sono entrati, perché essi sono stati privati e di che cosa? Di un piacere. Quindi quando usciranno dalle carceri cercheranno in tutti i modi di recuperare anche il piacere perso in questi anni di detenzione. Bisogna fare chiarezza, anche per quanto riguarda gli ammalati di AIDS. Prima il loro stato era compatibile con la detenzione, poi è diventato incompatibile poi ancora il legislatore ha indicato compatibilità con la detenzione.

Tali problematiche investono quotidianamente gli operatori penitenziari. Ma se fossero solamente problemi sanitari non sarebbe grande cosa. Ai Direttori e agli operatori delle carceri si richiede anche di fare i Direttori di Comunità terapeutica perché le carceri sono piene di tossicodipendenti, 17.000 detenuti tossicodipendenti mi pare.

Si richiede però anche di fare i mediatori culturali. Abbiamo circa 20.000 detenuti stranieri nelle carceri e ciò comporta delle grossissime difficoltà di comunicazione non solo tra operatori e popolazione detenuta, ma anche tra gli stessi detenuti. Gli Istituti di pena devono essere adeguati a queste nuove realtà, a questi nuovi ingressi. Mon. Caniato lo sa bene! La nostra edilizia non si è adeguata in questi anni ed ha previsto la costruzione solamente delle cappelle negli Istituti Penitenziari. Però noi abbiamo anche tanti detenuti musulmani, ed a costoro dobbiamo assicurare la possibilità di partecipare al proprio culto religioso per cui occorrono ambienti idonei per assicurare questa esigenza. Per dire una delle tante cose, uno dei tanti problemi. Nella consapevolezza che poi non siamo tuttologi - non possiamo essere tuttologi. La società civile deve risvegliare, quindi, la propria coscienza sulle problematiche penitenziarie. Con estrema chiarezza dico questo: il carcere è sì un problema di noi operatori penitenziari, ma anche di tutti voi. A nessuno conviene che il detenuto entri nella struttura penitenziaria ed esca peggio di come sia entrato: quindi. Signori, affiniamo tutti la nostra coscienza, approfondiamo il nostro impegno per risollevare le sorti del sistema penitenziario.

Ho sentito con molto piacere, quello che ha detto il Presidente Fuda, e mi trova pienamente concorde.

Non possiamo chiedere, specialmente in una realtà sociale che conta il 30% di disoccupazione, (l'ho lasciata ne contava il 27, nel lontano '87, e la situazione nel 2003 risulta peggiorata perché siamo arrivati al 30%) una corsia preferenziale per l'assunzione di detenuti.

Chiediamo solamente al mondo imprenditoriale che non abbia preclusione nell'assumere chi ha pagato il proprio debito con la giustizia. E' una strana Italia, la nostra. Noi chiediamo questo all'imprenditore ma l'istituzione che fa? Non assume. Il marchio di infamia che si da al detenuto non viene levato. E sì, l'amministrazione statale richiede gli interventi al mondo imprenditoriale, ai commercianti, però la stessa amministrazione non toglie il marchio d'infamia. Occorre, pertanto, chiarirsi le idee, caro On. Chiarella perché occorre, oggigiorno, una doverosa attenzione nei confronti delle frange emarginate del tessuto sociale da parte di tutti.

Con viva soddisfazione ho preso atto di una accertata disponibilità della Provincia, di analoga disponibilità dell'Ente Regione; insomma abbiamo trovato ogni porta aperta.

In pochissimo tempo è stato approntato un Protocollo d'Intesa; la bozza di un Protocollo che in questi giorni è all'attenzione dell'Onorevole Ministro della Giustizia, che è già stata approvata dal Presidente della Regione, Onorevole Chiaravalloti, perché vi siano degli interventi congiunti nei confronti del sistema penitenziario da parte di tutti e l'assunzione di impegni precisi che certamente verranno onorati dal Ministero e dalla Regione. Ho trovato analoga disponibilità nelle Amministrazioni Comunali. In questi giorni ho avuto il piacere di incontrare il Sig. Sindaco di Reggio Calabria, con il quale abbiamo programmato una conferenza di servizi per il mese di giugno per risolvere e portare a compimento la costruzione della nuova Casa di Reclusione di Arghillà, che vorremmo inaugurare tra 2 anni. Abbiamo in quel territorio la necessità di avere completate le opere di urbanizzazione perché per quanto riguarda la costruzione della struttura penitenziaria, è già stata data ogni utile indicazione all'impresa costruttrice ed al Provveditorato delle Opere Pubbliche circa gli interventi necessari ed idonei ad aprire il carcere nel più breve tempo possibile.

Questo carcere non sostituirà quello di San Pietro ma si aggiungerà a quello, perché nella nostra terra abbiano un esubero di criminali.

Nella Regione Umbria, da cui provengo, le carceri contenevano 1'80% di detenuti meridionali e su questa percentuale il 60% erano detenuti calabresi. Lo stesso vale per le case di reclusione della Toscana, di San Gimignano e Volterra, o della Lombardia, quale Milano-Opera. Queste strutture ospitano molti detenuti meridionali, tra cui tantissimi calabresi. Nell'ambito della chiarezza, che deve contraddistinguere gli operatori penitenziari, io sono, come penso tutti gli altri, favorevole al principio dell'esecuzione territoriale della pena detentiva. Però, con altrettante chiarezza dico, che ciò deve valere per i poveri disgraziati e non per il boss di spicco della criminalità organizzata.

Questi ultimi devono essere destinati lontano dai luoghi d'origine perché dall'interno delle carceri -e questo abbiamo avuto modo di accertarlo nel corso degli anni - continuano a lanciare messaggi di morte; a controllare il territorio; ad intimidire gli operatori penitenziari e non ultimo ad "utilizzare" una situazione penitenziaria sovraffollata.

Noi non vogliamo che il carcere diventi una Università del crimine. Ed allora dobbiamo lavorare tutti assieme per un carcere nuovo. Ma che tipo di carcere vogliamo? Un carcere che non sia puro contenitore del disagio sociale ma che offra concrete opportunità ai soggetti che custodisce. Perciò, bisogna avviare una politica carceraria, una politica concreta, non una politica fatta di chiacchiere, perché in Italia si chiacchiera anche troppo.

Abbandoniamo una volta per tutte la cultura del lamento. Io spero che in Calabria questa cultura del lamento che ha precluso la possibilità nel corso degli anni a questa terra, di nobilissime origini, di risollevarsi, sia finita. Rimbocchiamoci le maniche, ognuno per quanto di competenza, e mettiamoci a lavorare con serietà ed impegno.

A noi penitenziaristi compete il rinnovamento del settore penitenziario, e quindi l'avvio di una politica nuova. Quale sarà questa politica? La Magistratura di Sorveglianza, spesso - e noi ne prendiamo atto -, non ha utili indicazioni dalle equipes di osservazione e trattamento in quanto tutti i detenuti tengono un "comportamento regolamentare". Sapete qual è il comportamento regolamentare? Quello del soggetto che sta 20 ore in una cella a guardare la televisione sdraiato sul

letto; quel soggetto che non rompe le scatole all'operatore penitenziario. All'interno degli Istituti non vi sono attività organizzate. Ma questa non è "partecipazione attiva" alla vita dell'Istituto. E la colpa spesso non è del detenuto, perché l'Amministrazione, lo Stato, non è in condizione di assicurare con le attività intramurali, la partecipazione alla vita dell'Istituto. Quindi, giustamente non appare opportuno penalizzare il detenuto perché egli chiede e noi non possiamo dare. Il nostro intento è quello di trasformare questi puri contenitori di uomini e di donne, in strutture dove si effettuino delle attività trattamentali, delle attività lavorative che sono indispensabili nelle carceri: una politica penitenziaria che punti al lavoro intramurario e che abbia prospettive concrete anche di lavoro extramurale.

Il lavoro da sempre si dice, "nobilita l'uomo", ma quale successo per la società, già, fare lavorare delle persone che non hanno mai preso la cazzuola in mano? I detenuti, dopo l'impatto iniziale che li turba molto quando gli si richiede di lavorare, poi amano il lavoro. Essi scoprono il lavoro, lo cercano e lo amano a tal punto che lo vogliono, non assistenziale, ma produttivo.

Avvieremo, grazie alla Regione ed alla Provincia, corsi di addestramento mirati alle lavorazioni che attiveremo nelle carceri con prospettive di reinserimento esterno anche sul territorio. Abbiamo già qualche idea che stiamo coltivando con Don Silvio Mesiti e con il professore Calabrò.

Evidentemente faremo degli interventi, in una prima fase, pilota perché non possiamo ignorare che abbiamo anche un mandato di difesa sociale. Dobbiamo cercare di fare meno errori possibili specialmente in questa realtà. Una politica di deflazione delle carceri non vuol dire mandare fuori i detenuti tout-court, vuol dire mandare fuori quei soggetti che concretamente e, dopo accertate verifiche effettuate dagli operatori penitenziari, hanno manifestato concreta volontà affinchè per il futuro svolgano con impegno professionale e personale un percorso di vita diverso. Tali indicazioni consentiranno, anche alla Magistratura di Sorveglianza che non ha elementi sufficienti, di lavorare diversamente con maggiore serenità. In questi giorni, vedo messi sul tavolo degli "imputati" i Magistrati di Sorveglianza che hanno dato affidamenti, semilibertà. Essi sono, allo stato, l'anello più debole del sistema.

Ma quali indicazioni l'Amministrazione Penitenziaria ha fornito alla Magistratura di Sorveglianza? L'equipe di osservazione e trattamento ha "concluso": il detenuto mantiene regolare condotta. Ma in base a quali verifiche? Strana Italia la nostra: un episodio eclatante e viene rimesso tutto in discussione. Abbiamo vissuto in passato un periodo come Direttori Penitenziari allucinante. Quando si verifìcava un'evasione, i Direttori e i Comandanti di Reparto venivano sospesi solamente perché c'era stata l'evasione. Non veniva accertata la responsabilità. Evasione equivaleva a responsabilità oggettiva, quindi Direttore e Comandante di Reparto dovevano essere sollevati dall'incarico.

Bisognava tacitare l'opinione pubblica, perché ormai oggi siamo nelle mani dei mas-media. Questa è l'amara realtà, e quindi bisogna fare 1'"intervento" per tacitare l'opinione pubblica. Ciò amareggia, fa riflettere gli operatori tutti che quotidianamente si impegnano nella loro attività professionale. Il presidente di Sorveglianza di Roma è stato nostro Vice - Capo del Dipartimento, il Presidente Falcone. Io ho avuto l'onore di essere un suo collaboratore; egli è persona molto attenta e di indiscussa e accertata professionalità. Ho una conoscenza personale, ventennale del Presidente Falcone. Da sempre questo Presidente di Sorveglianza è stato etichettato come un Presidente duro, che non dava benefìci. Ha applicato ed applica la normativa, non può non applicare la normativa. Se c'è una legge sui pentiti che non è adeguata, correggiamola. La legge sui pentiti prevede determinate cose e allora esse devono essere applicate. Al Magistrato ed al penitenziarista, non compete entrare nel merito, effettuare determinate valutazioni. Noi siamo funzionari dello Stato; io tante cose non le condivido ma li attuo: è questo il mio dovere, i miei obblighi di funzionario. Se la normativa prevede la concessione di benefìci, la normativa si applica. Concludo il mio intervento con una nota positiva, non perché sia un ottimista di natura, ma per realismo. Dopo tanti anni abbiamo maturato una certa esperienza di vita e professionale. Credo di essere in grado di capire quali, oggi, siano le possibili e le reali condizioni al cambiamento e se vi sono in questa Regione. Io ritengo di sì. In Calabria ci sono tali possibilità perché l'Amministrazione Penitenziaria ha delle risorse umane, per quanto riguarda i nostri collaboratori, meravigliose, sia perché esiste un'attenzione straordinaria da parte degli enti locali, sia perché vi è un'attenzione molto forte, concreta da parte della Chiesa e del volontariato, ponte ideale tra carcere e società. Ringrazio di cuore la Chiesa per il contributo, per lo stimolo e per gli utili spunti di riflessione che quotidianamente ci offre. Da sempre gli interventi e la presenza di Sua Santità nelle carceri è pregna di significati. Io auspico che le Autorità politiche, finalmente, colgano tali segnali, i segnali di attenzione all'uomo.

Sua Santità è molto attento all'uomo che vive o lavora nel carcere. Diceva bene Don Giorgio Caniato che il Giubileo non è stato fatto solamente per i detenuti ma è stato fatto anche per i detenuti. Sua Santità ha voluto il Giubileo nelle carceri, luoghi in cui vi sono detenuti, vi sono operatori, vi sono volontari. Ed allora, le annose problematiche che ho evidenziato, potranno trovare possibili ed adeguate soluzioni se tutti assieme lavoreremo per un progetto comune: un sistema di giustizia nuovo, un sistema penitenziario diverso, che da isola di disperati possa divenire isola di speranza, territorio di vita concreto ed effettivo per coloro che abbiano manifestato la concreta volontà di volersi reinserire socialmente. Vi ringrazio.

Do lettura, ora, della nota del Sig. Capo del DAP, Presidente Tinebra, che per sopraggiunti impegni familiari non ha potuto assicurare la propria presenza al convegno. "A causa di un improvviso impegno di famiglia cui non è assolutamente possibile sottrarmi non potrò essere domani a Reggio Calabria per partecipare al convegno "Realtà e prospettive dell'Esecuzione Penale Esterna" come avrei fortemente voluto e come, peraltro, da tempo programmato. La prego di darne comunicazione agli organizzatori, alle Autorità presenti e a tutti i partecipanti alla prestigiosa iniziativa e vi indirizzo anche i miei più cordiali saluti e auguri di buon lavoro. Confidando di poter essere presente in una prossima occasione, le rinnovo a lei e ai partecipanti al convegno i miei ringraziamenti e il mio saluto".

 

"Il difficile equilibrio tra domanda di sicurezza, prevenzione comunitaria e solidarietà sociale."

 

Sostituto Procuratore Generale della Repubblica di Reggio Calabria Dr Rizzo Fulvio

 

L'esaminare le problematiche sociali riferibili alla istanza di sicurezza conseguenti al momento della esecuzione di una pena detentiva comminata in esito al giudizio penale, va posta una prima premessa richiamando quello che è il dettato della Costituzione in tema di trattamento sanzionatorio. Ormai può dirsi unanimemente recepito da tutti, anche da chi non è esperto in materia di diritto, che nella applicazione della sanzione penale il trattamento del condannato deve tendere alla rieducazione del reo.

Il trattamento penitenziario, ma anche tutte le misure alternative alla detenzione, hanno infatti il fine dell'emenda e del recupero. Nella applicazione della pena che opera il giudice di merito con l'affermazione della responsabilità dell'imputato, si individua la sanzione ritenuta giusta ed equa in relazione a tutti i parametri fissati dall'art. 133 c.p.. In tale fase la determinazione della pena ha anche un'efficacia di prevenzione generale, connessa alla scelta operata dal legislatore specie con la fissazione dei limiti minimi, nonché di prevenzione speciale , tenendosi conto di una serie di dati riferibili alla personalità, pericolosità del soggetto, quale si evidenzia al giudice al momento del fatto e del giudizio.

La domanda di sicurezza della collettività trova in tale fase una prima risposta, individuato il responsabile del reato, la pena comminata interviene, attraverso la mediazione del sistema giudiziario, al ristoro e alla riparazione , costituendo la riparazione del danno arrecato dal reato alla collettività e al singolo. Nel contempo la pena ha efficacia di prevenzione generale, dimostra che lo Stato ha scelto di sanzionare con la pena detentiva determinate condotte e l'applicazione dimostra l'efficienza del sistema e dovrebbe indurre alla osservanza delle regole.

Tuttavia il giudice nell'individuare la sanzione in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p. opera una prima valutazione della possibilità di recupero del soggetto in relazione alla sua pericolosità. Difatti è tenuto, ricorrendo determinati limiti, a valutare la possibilità di sospendere la esecuzione ex art. 163 c.p., ed in determinati casi, può anche radicalmente trasformare la pena detentiva in una pena pecuniaria o in altra misura non detentiva. Tutto ciò valutando se sia necessario operare una forma di rieducazione o sia sufficiente sanzionare la condotta con la comminatoria di una pena destinata a restare "virtuale" , ove non si verifìchino condizioni per la revoca della sospensione.

Il giudice del merito quindi effettua una prima prognosi sul condannato, ma tale prognosi come noto precede tuttavia di un notevole lasso di tempo il passaggio in giudicato della sentenza, con la conseguenza che in ipotesi di pena detentiva, ove il condannato abbia subito custodia cautelare ed al momento del passaggio in giudicato si trovi libero, sorgono immediati problemi di valutazione della personalità e della pericolosità, ove la pena residua sia non superiore ai tre/quattro anni per l'applicazione della sospensione ex art. 656 c.p.p..

In tale ipotesi, ove non ricorra un reato ostativo ex art. 4 bis Ordinamento penitenziario, il legislatore ha operato una scelta di presunzione di non pericolosità, disponendo che il P.M. dell'esecuzione sospenda l'ordine ed inviti la parte a formulare nel termine di 30 giorni una richiesta di misura alternativa alla detenzione, che sarà poi decisa dal Tribunale di Sorveglianza.

L'esperienza dimostra che la totalità dei condannati cui è inviato l’avviso, propone istanza di misura alternativa. Ci pare pertanto che tale passaggio che comporta notifiche e depositi, e lo slittamento dell'esame della posizione del condannato dinanzi la magistratura di sorveglianza di alcuni mesi dal passaggio in giudicato, potrebbe ben essere superato disponendo che sempre per il condannato libero a pene residue e per reati non ostativi, sia sospeso l'ordine di esecuzione ed inviati gli atti d'ufficio al Tribunale di Sorveglianza, che potrebbe convocate le parti ed assunte le informazioni, come avviene oggi in un secondo tempo, esaminare la possibilità di applicare una misura alternativa.

Il ricorso al sistema delle misure alternative alla detenzione per il condannato con pene residue non superiori a tre anni ( per i tossicodipendenti anche per pene residue non superiori a quattro anni) per i condannati liberi ed anche per coloro che dalla detenzione raggiungono tale limite di pena residuo, è divenuto infatti un percorso quasi obbligato nella esecuzione.

Un percorso che ormai è necessitato e che dai dati statistici rilevabili è in costante incremento.

Si tratta di una scelta di politica giudiziaria e politica penitenziaria conforme al dettato costituzionale che pone il trattamento sanzionatorio quale mirato al recupero del condannato, prevedendo quindi una costante azione di reinserimento sociale, che in tanto può essere accettata dalla collettività in quanto efficace ed idonea allo scopo, curata da personale giudiziario, penitenziario, di assistenza sociale, professionalmente qualificato e motivato per i risultati che si possono ottenere.

Va premesso che esaminando dati statistici riferiti al numero delle condanne a pene detentive effettivamente eseguibili, specie se raffrontati al dato numerico delle denuncie e dei processi che importano una condanna, si rileva che a fronte di un rilevantissimo numero di reati denunciati, pochi sono i casi in cui si perviene ad una condanna esecutiva eseguibile per una pena detentiva. Mediamente meno del 2% dei procedimenti iscritti al Registro Generale (RGNR -noti ed ignoti) perviene in esito al giudizio ad una sentenza di condanna ad una pena detentiva per la quale venga emesso ordine di esecuzione per la carcerazione del condannato (si veda in proposito l'analisi contenuta nella relazione della inaugurazione dell'anno giudiziario nel distretto di Reggio Calabria dell'anno 1999). Delle pur numerose condanne ad una sanzione penale la gran parte delle condanne sono a pene pecuniarie o a pene detentive sospese, per altre condanne le pene detentive sono convertite, ovvero le pene sono condonate, o anche il presofferto o la fungibilità con periodi di custodia cautelare per altra causa, consente di dichiarare espiata la pena.

Ebbene quindi nei pochi casi in cui una pena è eseguibile, è necessario ed irrinunciabile che il sistema operi nel migliore dei modi per tentare il recupero del condannato.

Sappiamo che le carceri ospitano per il 58% dei posti disponibili detenuti condannati definitivi. Di questi il 60% per una pena residua fino a 3 anni, il 21% con una pena residua da 3 a 6 anni , un restante 4% con pena residua oltre 20 anni o l'ergastolo, un 15% con pena residua da 6 a venti anni.

La gran parte dei detenuti, circa il 30% è per reati contro il patrimonio appena il 2,5% per associazione mafiosa.

Tale dato è indicativo della concreta possibilità che molti degli attuali detenuti possano accedere, ove ricorra un giudizio prognostico positivo, ad una delle misure alternative. Ogni anno dalla detenzione accedono alle misure alternative dai 25.000 ai 32.000 condannati. Mentre dalla libertà vi accedono dai 20.000 ai 25.000 condannati. Molte e superiori a tali numeri sono le posizioni dei condannati che hanno un ordine di esecuzione sospeso in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza.

Ne consegue che il sistema delle misure alternative ormai è essenziale alla sopravvivenza del sistema sanzionatorio e che. solo le misure alternative hanno negli ultimi anni consentito di non dovere ricorrere a indulti, rendendo ancora concreto in una certa misura il momento della applicazione della pena.

Certo ci troviamo ormai di fronte ad una pena "flessibile" che trova applicazione con un processo gestito dalla Magistratura di Sorveglianza, con il supporto dei CSSA, del volontariato, e delle Direzioni degli Istituti di pena e case di reclusione, case circondariali. Il personale degli Uffici giudiziari e degli altri uffici su indicati tutti coinvolti nella gestione della esecuzione della pena necessitano di un rafforzamento o di una revisione degli organici, attese le nuove competenze e il prevedibile tasso di incremento (pari al 25% annuo) dei procedimenti.

Se pensiamo che le riforme in materia penale e processuale, in atto da alcuni anni e prossime, mirano tutte a rendere più efficiente e rapido il processo, l'azione del P.M., della difesa e dei giudici, con l'istituzione di riti alternativi e forme di patteggiamento, con la deflazione per i fatti di minore rilevanza conseguente alla depenalizzazione e alla istituzione della magistratura onoraria penale, con proprie sanzioni non detentive, dovremmo logicamente ipotizzare che in un tempo , si spera, breve, la percentuale dei processi definiti rispetto alle denuncie per reati subisca un incremento. Anche un incremento minimo della efficienza ed un ulteriore 1% in più di condanne a pene detentive determinerà oltre il 50% di condannati in più rispetto ai numeri attuali, con ogni ulteriore conseguenza, se già da adesso non si pensa al rafforzamento delle strutture, del personale e dei sistemi sanzionatori alternativi.

A tal punto solo un sistema efficiente e potenziato adeguatamente potrà ancora garantire quella esigenze di sicurezza che giustamente la collettività richiede al sistema giudiziario e penitenziario, nel momento della esecuzione della pena, nonché la pari esigenza di prevenzione e di solidarietà che sono connesse alla buona riuscita del programma trattamentale e di recupero del condannato, in difetto l'inefficienza determinerà uno squilibrio a discapito della sicurezza sia all'interno degli istituti penitenziali che all'esterno, con perdita della credibilità dell'intero apparato giudiziario e penitenziario, che subirà le conseguenze di scelte senza averne alcuna responsabilità, se non quella di avere incrementato l'azione di contrasto al delitto.

 

"Dalla pena alla riconciliazione sociale"

 

Mons. Giorgio Caniato Ispettore Generale dei Cappellani delle Carceri

 

È questo un tema intrigante, che esige ampia e approfondita riflessione e che deve essere visto o può essere visto da diverse angolature. Quindi esige tempo. Esporrò, allora, alcune mie riflessioni.

Il tema riguarda il recupero dei detenuti, indicato qui con un determinato termine: "riconciliazione". È certo che credo nel recupero, credo nella validità delle misure alternative: tanto che ho dedicato a questo, l'ultimo Consiglio Pastorale dei Cappellani: e per sapere il pensiero e l'operato dei Cappellani al riguardo ho mandato un questionario: semplice ma completo.

Il questionario» che chiede al Cappellano, che vive a contatto coi detenuti, come vede lui, non come sono, le misure, la loro applicazione e il suo impegno personale. Le relative risposte sono pubblicate sul Bollettino Ufficiale dei Cappellani "La Pastorale del Penitenziario" n.1 di quest'anno. Il mio Ufficio ha pubblicato graficamente una sintesi particolareggiata e precisa. Ho qui la sintesi scritta di tutto, che se ho tempo leggerò, perché qui vorrei esporvi alcune mie riflessioni sul tema che trovo importante ed interessante. Questa sintesi l'allego a questa relazione.

Per noi Cappellani le misure alternative rieantrano nella logica della nostra azione Pastorale.

Alcune riflessioni;

a. Sono due i termini, del tema assegnatemi, da considerare: pena, riconciliazione sociale.

Essi vengono rapportati: passaggio dalla pena alla riconciliazione sociale,

b. Mi chiedo:

che significato hanno i due temimi in questo contesto;

se possono rapportarsi;

come possono rapportarsi.

A) Significato di "pena"

È il castigo inflitto ad un uomo reo d'aver violato una legge penale dello Stato. Il castigo normale è il "Carcere" e il Carcere fa soffrire sia perché vissuto come castigo, sia perché in sé è causa di sofferenza, sia perché è una "pena". Ed è pena perché priva della libertà fisica un uomo; e da qui derivano tutte le altre sofferenze.

Non discuto se sia bene o male, se sia una necessità o meno per chi si comporta male: solo dico che il Carcere fa soffrire, è una pena. E lo Stato, per amministrare la Giustizia, sceglie questa via; il castigo. Lo Stato castiga sapendo e volendo far soffrire, il Carcere per me non rieduca.

Non discuto ora sulla "pena" ma, partendo dal dato di fatto della realtà del Carcere per scontare una "pena" mi si chiede di parlare del passaggio dalla pena alla riconciliazione sociale.

B) Significato di "riconciliazione sociale"

Cosa si intende, qui, in questo contesto, per "riconciliazione" e, "riconciliazione sociale" o anche "civile"?

Il termine "riconciliazione" in senso religioso-cristiano significa il ricostituirsi del rapporto di accettazione tra Dio e l'uomo e tra uomo e uomo dopo che è stato rotto da una scelta dell'uomo, magari offendendo. Dio dona la riconciliazione. Dio perdona, accetta l'uomo che vuole riconciliarsi: che chiede perdono, ripara il danno, ritorna a volere Dio.

Così anche le persone possono, se vogliono, riconciliarsi.

Questo riconciliarsi coinvolge la mente, il cuore, la volontà ed è un atto sincero che solo Dio e la coscienza dell'uomo possono realizzare e valutare. Nella riconciliazione si supera il discorso su diritti, doveri, offesa e si recupera il rapporto personale, per motivi d'amore,

Anche fuori da un rapporto religioso si pratica la riconciliazione tra persone anche se non può essere valutata.

Comunque, per me, la riconciliazione è un atto tra due o più persone. Non capisco la possibilità della riconciliazione tra una persona e un Ente. Ci può essere un riaggiustamento di "rapporti rotti" ma che io non posso chiamare "riconciliazione". L'Ente pubblico, la cui costituzione e la cui attività è regolata da leggi e norme precise non può scendere a compromessi, non può perdonare, non può adeguarsi alla situazione, alle capacità di ogni singola persona. Non può non volere che si aggiustino le cose.

Ecco allora che, giustamente, nel tema assegnatomi non si parla di riconciliazione semplice e generica, ma di "riconciliazione sociale", civile; si tratta, infatti, di valutare, considerare uno "strumento", quale è la "riconciliazione", da realizzare in una struttura gestita dallo Stato, quale è la "pena", influita da un tribunale che deve amministrare la Giustizia, regolata in tutto il suo iter da norme precise.

Non so, però, come lo Stato possa legiferare una "riconciliazione" perché, per me, è attuabile solo tra persone e non tra persone ed un Ente, e perché, essendo un atto interiore delle persone, non può essere controllato ed analizzato da atti giuridici e non può essere imposto.

Chi ha determinato il tema, capendo questo, ha aggiunto a "riconciliazione" il termine "sociale". "Riconciliazione sociale" che vuol rapporto regolato da norme precise, nel campo sia amministrativo che giuridico, con strutture pubbliche o strutture private, ma sempre strutture.

Mi chiedo; ma che tipo di norme? cosa dovrebbero regolare?

Ma allora, per me, il termine "riconciliazione" non è usabile e non è accettabile perché la riconciliazione deve essere "sociale-civile", quindi regolata da leggi. Ma la legge non può imporre la "riconciliazione" nel senso sopra indicato, ne al detenuto ne alla parte offesa.

Bisogna essere realisti e sapere chiamare il giusto e doveroso sforzo dello Stato e della Società di permettere ad un uomo condannato di ritornare in società, di potere, se vuole, fare una scelta di vita rispettosa delle leggi dello Stato per una convivenza con gli altri cittadini, con un nome più appropriato e più giusto che può essere "reinserimento nella società" (anche se non lo accetto concettualmente):

ma non si può usare il termine "riconciliazione", più bello più affascinante, perché indica una realtà più profonda.

Quando un uomo commette un reato, escluso quello direttamente contro una data persona, non intende offendere quella persona, che il più delle volte non conosce e non gli interessa. Lui pensa al guadagno.

Se viene arrestato sa che deve soggiacere a delle norme di legge: tra lui e lo Stato si stabilisce un rapporto giuridico. Psicologicamente, sia quando è in attesa di processo, sia quando sconta una pena, tende alla libertà.

Se lo Stato gli chiedesse di riconciliarsi con la parte offesa, anche se gli ripugnasse, lo farebbe pur di "uscire". La sua sarebbe però una riconciliazione giuridica, civile. Lo Stato non può controllare l'intimo pensiero di un uomo. Sembrerebbe una "falsa riconciliazione". Inoltre, alla parte lesa poi, ciò che interessa è che venga ripagato il danno. Non penso che abbia voglia di incontrare chi l'ha offeso, e questo per tanti motivi, non ultimo la paura.

L'unica cosa che lo Stato, allora, deve chiedere a chi ha fatto un reato, quindi ha rotto, ha tolto, ha distrutto, è quello di riparare, restituire, ricostruire. Allora si che ci sarebbe una vera "riconciliazione" nel senso di "rimessa al posto delle cose distrutte", indipendentemente da quanto possono pensare sia chi ha violato la legge che la parte offesa.

Ma per ottenere veramente tutto ciò, necessita che lo Stato cambi la filosofia che sta alla base dell'Amministrazione della Giustizia penale.

Lo Stato deve intervenire:

1) prevenendo i reati;

2) bloccando chi li commette;

3) obbligando chi ha commesso il reato a ricostruire ciò che ha distrutto col reato.

Deve, cioè, lo Stato uscire dalla logica del "castigo" e della "pena", che è un male, è sempre un vendicarsi, un affliggere, ed entrare nella logica della ricostruzione.

Solo così, realmente, ci sarebbe una giustizia vera, a misura d'uomo, veramente riparatrice per la parte offesa: non un'azione distruggitrice dell'uomo che commette il reato, come la pena del carcere, che crea odio e violenza. Al reo che deve ricostruire si toglierebbe il vantaggio del delinquere. Il reo l'accetterebbe un simile giudizio?

Certo, detta cosi sinteticamente, questa idea può stupire o peggio. Va chiaramente esposta in modo più approfondito.

Ora non c'è tempo.

Invece che "Dalla pena alla riconciliazione sociale" preferirei dire: "Dal reato alla riparazione, alla restituzione, alla ricostruzione".

 

Riepilogo e questionario sulle Misure Alternative

 

Gennaro Chianese dell’ufficio dei capellani - Roma

 

Queste che presentiamo sono stati recentemente aggiornati, pubblicati sul Notiziario e consegnati ai partecipanti al Consiglio Pastorale Nazionale del Novembre 2002, grazie a nuove risposte pervenute in occasione dei Raduni Regionali svolti nel Maggio 2003.

Su un totale di 239 Cappellani attivi m Italia, sono pervenute 158 risposte al Questionario, con una partecipazione pari a circa il 66% dei Cappellani. Tenendo conto della distribuzione geografica dei Cappellani attivi, si può osservare che in media, in ogni area geografica (Nord, Centro, Sud e Isole); la partecipazione al questionario è stata uniforme e nella media.

Quindi, conformemente alla distribuzione sul territorio, il 34% delle risposte proviene da Cappellani operanti negli Istituti del Nord, il 25% da Istituti del Centro ed il 41% dagli Istituti del Sud e delle Isole.

A livello nazionale si registra un elevato interessamento alla questione delle Misure alternative, pari all'81% circa, con una lieve preponderanza al Centro (82%) contro una flessione al Nord (79%).

La misura maggiormente applicata risulta l'Affidamento al CSSA (come affermano circa il 79% delle risposte pervenute), seguita dalla Semilibertà (78%) e dalla Detenzione Domiciliare (72%); ma la situazione cambia, in misura marginale, andando ad osservare la distribuzione geografica delle risposte. Infatti, mentre al Centro Italia la situazione è quella che più si avvicina alla media nazionale (anche se con percentuali lievemente più elevate: 82% CSSA, 79% Semilibertà, 72% Detenzione Domiciliare), al Nord è la Semilibertà a trovare maggiore applicazione con 1'89% delle risposte pervenute, contro l'81% per l'Affidamento a] CSSA ed il 77% per la Detenzione Domiciliare, mentre al Sud ed Isole il 76% di casi riguarda l'Affidamento e le altre due Misure trovano uguale applicazione nel 68% dei casi.

Altre Misure applicate sono più o meno significative: al Nord ed al Centro i casi più rilevanti sono quelli relativi al Lavoro all'esterno, mentre al Sud ed Isole si trovano applicate anche altre misure come la Liberazione anticipata, ed i Permessi premio.

Casi particolari sono rappresentati dagli IPM e dagli OPG. La Misura alternativa più applicata negli Istituti per Minori è la Messa alla Prova, seguita dal Collocamento in Comunità e dalla Permanenza in Casa. Per gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari si riscontra un regolare ricorso a Misure alternative di diversa natura.

Sul piano della facilità di applicazione delle Misure, i Cappellani rispondono positivamente nel 33% dei casi. Tuttavia sembrerebbe più semplice fruirne per un recluso in un Istituto del Centro Italia (54% delle risposte) che non del Nord (28%) o del Sud ed Isole (24%). Andando ad indagare circa le cause che portano ad una certa difficoltà nell'applicazione delle Misure riscontrata, i Cappellani tendono ad imputarla alla mancanza di Offerte di Lavoro (70% dei casi), seguita dalla Carenza di Alloggi (50%) e da una troppo Restrittiva interpretazione della Legge (46%). Rilevante anche il dato che vede Carente Numericamente il personale addetto (32%); meno rilevante, ma pur sempre interessante è il 15% delle risposte che denunciano una vera e propria Negligenza degli stessi operatori. Volendo raffrontare i dati a livello di aree geografiche, si può notare che sono in numero maggiore al Nord i Cappellani che denunciano tale negligenza (21% dei casi), diminuiscono al Centro (15%), ancor di meno al Sud (11%); stesso andamento anche per quanti riportano la Carenza Numerica degli operatori fra le cause di difficoltà applicativa (rispettivamente 49% dei casi al Nord, 28% al Centro,, 21% al Sud ed Isole), Discorso a parte va fatto per la distribuzione geografica delle risposte in merito alle altre cause di difficoltà, infatti mentre al Centro si rispecchia l'andamento nazionale delle risposte assegnando grande rilevanza alla Carenza di Lavoro (77% delle risposte), seguita dalla Carenza di Alloggio (62%) e dalla Interpretazione troppo Restrittiva delle Leggi (41%), al Nord si risente maggiormente della Carenza di Alloggio (68% dei casi), quindi dalla Mancanza di Offerte di Lavoro (55%) e dalla Interpretazione delle Leggi (51%); infine il Sud capovolge i dati del Nord riportando nuovamente in testa la Mancanza dj Lavoro (77% delle risposte), seguita dalla Interpretazione troppo restrittiva della Legge (45%) e relegando all'ultimo posto la Carenza di Alloggio (29%).

In risposta alle difficoltà riscontrale sul territorio, i Cappellani si attivano, unitamente ai Volontari ed alla Chiesa locale» cercando dì offrire un supporto esterno ai detenuti, al fine di favorire l'applicazione delle Misure alternative. Le iniziative sono le più varie ed articolate; sì è tentato di sintetizzarle raggruppandole in due grandi categorie: "Aiuto per l'Alloggio " (il 44% delle risposte riporta una attività volta a tal fine) e "Aiuto per il Lavoro" (il 27% delle risposte si rivolge a tale scopo). Altre forme di aiuto raggruppano categorie tuttavia importanti: Informazioni ai detenuti, Accompagnamento, Interessamento, Sostegno morale. Tutte attività comunque svolte nella maggior parte dei casi (46%). Vi è pure, però, un 23% di risposte che lamentano una certa inconsistenza dell'aiuto prestato, non necessariamente per cause dipendenti dalla propria volontà. Il caso peggiore si rileva al Sud, dove quest'ultima percentuale sale al 32% dei casi. Più si sale verso il Nord e più si incrementano le percentuali di intervento. Trasferendosi dal Sud al Centro al Nord le attività di Aiuto per l'Alloggio (33% al Sud» 46% al Centro e 57% al Nord), Aiuto per il Lavoro (15% al Sud. 28% al Centro e 42% al Nord) e di altra forma (36% Sud, 46% Centro e 57% Nord) sembrano quantomeno agevolate o incentivate dai risultati.

Le Istituzioni locali, quali la Regione, la Provincia o il Comune, risultano mediamente poco sensibili alla problematica in questione (solo nel 45% dei casi sì osserva un atteggiamento positivo delle stesse). Ancora si deve però distinguere la realtà al Nord (66% di risposte positive), da quella del Centro (51%) e da quella del Sud (solo al 24%), evidenziando così le vere differenze dei valori in campo,

II Cappellano, dal canto suo, nella stragrande maggioranza dei casi, dichiara di accompagnare il detenuto in un cammino di responsabilità nelle misure alternative (79% sul territorio nazionale), con dei picchi al Centro e al Sud (82% dei casi), ed una flessione al Nord (74%).

 

"La comunità cristiana, spazio di accoglienza e di recupero sociale dei condannati"

 

Mons. Iachino Antonino Presidente - Caritas diocesana- Reggio Calabria

 

Recuperare la funzione sociale del carcere e la dignità della persona detenuta è segno di civiltà. Dare speranza e rinnovata fiducia nella vita a persone e famiglie che hanno vissuto o stanno vivendo la triste esperienza della reclusione è una delle più nobili attività sociali che si possa intraprendere.

Interessarsi del carcere e dei detenuti è dovere della società civile e della comunità cristiana. È anzitutto questione pubblica e come tale deve interessare tutti i cittadini, credenti e non credenti, comunque parte della società che vive dentro questo territorio.

Il carcere e anche questione di Chiesa: di quanti, cioè, avendo un'esperienza segnata dalla fede in Cristo, sono chiamati a tenere gli occhi ed il cuore aperto su tutto il mondo su ogni volto, soprattutto se è il volto di chi fa fatica ed ha bisogno di essere aiutato a recuperare in pieno la capacità di vivere serenamente, inserendosi socialmente.

Amaramente siamo costretti a rilevare che nella nostra società caratterizzata dall'apparire, la povertà, comunque sì manifesti, non ha diritto di cittadinanza; dà fastidio, è qualcosa che sporca l'immagine del nostro essere dentro questa società. Va rinchiusa, nascosta alla vista dei perbenisti, ridotta all'invisibilità.

Commettere un reato, finire in prigione, scontare la pena, uscire, rimanere impigliati di nuovo, tornare in carcere: e il percorso di una buona parte di giovani ed adulti segnati, a volte in maniera profonda, da situazioni di emarginazione e di bisogno.

Sorge il dubbio che si tratti di uno schema funzionale alla nostra società. Il sospetto viene rafforzato dal fatto che il pensiero dominante spinge sempre più persone e per sempre più tempo sui nastri di una "catena di montaggio a ciclo continuativo".

A volte tutto questo avviene nell’indifferenza di molta parte della società civile, che considera il carcere come estraneo alla società, anzi quasi come una creazione della società per rimuovere ostacoli e fastidi.

Il cittadino invece, soprattutto il cittadino credente, deve aprire i propri occhi, il proprio cuore, la propria solidarietà creativa ed operativa dentro un mondo di per sé chiuso, relegato, distante dal vivere normale della comunità dentro un territorio,

Non si può dimenticare che oggi, in Italia, il carcere è un contenitore di situazioni di povertà. miseria ed emarginazione, che si incontrano all'esterno nelle fasce sociali più deboli. Molte delle persone in difficoltà che entrano in contatto con le realtà socio - assistenziali del territorio hanno un'elevata possibilità di essere coinvolte nei meccanismi di devianza e di criminalità. Un'azione sociale più intensa, più ricca di attenzione nel territorio, durante e dopo l'esperienza del carcere può ridurre significativamente il numero di carcerati, contribuire ad una migliore qualità della detenzione, assicurare un legame tra il carcere e la società esterna perché il carcere è parte della società e ne è l'espressione.

Ma se il modo del carcere interpella la comunità pubblica e la realtà sociale, interpella a maggior ragione la Chiesa che, da sempre, facendo suo l'invito di Cristo "ero carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt 25,36). si spende per la cura, l'attenzione, (a vicinanza e la presenza operativa nel carcere ed in riferimento al carcere).

Modi e forme diverse, secondo i tempi ed i modelli culturali, caratterizzano questa presenza, mossa dal desiderio di portare parole ed azioni di liberazione; mitigarne le pene e le sofferenze; offrire adeguata assistenza morale, materiale, sociale e spirituale.

Per sua natura il carcere rischia di ripiegarsi su se stesso, nel suo isolamento, e diventare luogo di esclusione e di rifiuto. La Chiesa, chiamata a promuovere e a difendere la dignità ed i diritti della persona e a porsi dalla parte dei più deboli, non può ignorare che nel carcere vivano persone in situazione di sofferenza e di bisogno, private della libertà, bisognose soprattutto di un annuncio di speranza, di misericordia, di comprensione e di gesti concreti che consentano veramente di ricostruire la propria vita.

Perché il carcere non sia distante, esterno alla nostra vita di credenti, occorre impegnarsi su alcune scelte concrete. Anzitutto proporre iniziative capaci di mantenere alta la cultura dell'accoglienza, dell'attenzione e della risocializzazione nei confronti delle persone detenute ed ex detenute, ma ricordando anche che soltanto guardando in volto le persone si diventa capaci di vivere le tante problematiche che caratterizzano la realtà carceraria con passione e sensibilità.

È importante inoltre promuovere iniziative formative per i gruppi di volontariato perché siano capaci dì sostenere gli operatori istituzionali che hanno ruoli di custodia e di animazione all'interno del carcere e per costruire un forte collegamento tra carcere e territorio.

Possono essere realizzate iniziative di ascolto, di sostegno e relazione con le famiglie di detenuti, Una comunità cristiana non può dimenticare la sofferenza, l'abbandono, il silenzio, la tentazione di chiusura, di chiudersi sempre più in se stessi da parte di famiglie segnate da profondo dolore.

Importante, in fine, è accompagnare il reinserimento lavorativo a fine pena e sostenere le iniziative di lavoro per i detenuti che possono scontare la pena fuori dal carcere.

Tante altre cose possono essere fatte e progettate. La fantasia pastorale è capace di suggerire iniziative sempre nuove ed efficaci, ma credo la cosa più importante è continuare a scommettere sulla fiducia, sulla speranza e sulla solidarietà.

 

"L’Ente Locale protagonista nei programmi di reinserimento sociale".

 

Giuseppe Varacalli - Anci Calabria

 

II mio non vuole essere un intervento ma rappresentare il presidente Abramo impedito a presenziare per sopraggiunti impegni istituzionali. Porgo innanzitutto i suoi saluti o le scuse per l'assenza. Non desidero sostituirlo nella relazione ma, vista l'importanza e l'attualità del tema, mi sia consentita qualche considerazione.

Il Convegno è di grande utilità in quanto nei mesi scorsi si è parlato molto di Carcere e carcerati. Credo bisogna impegnarsi molto per abbattere l'emarginazione di chi, per vari motivi, si trova in condizioni di svantaggio. Urge pertanto:

1. maturare la sensibilità e la voglia di un reintegro sociale, favorendo il recupero umano e culturale di chi, pur avendo compiuto errori, può diventare una presenza positiva, nella società, con evidenti vantaggi per tutti;

2. eliminare alcune cause di degrado sociale;

3. valorizzare le potenzialità e le ricchezze delle persone, rinchiuse in carcere per porle a disposizione della Pubblica Utilità; ,

4. garantire alle persone svantaggiate opportunità d'impiego, di formazione, di riabilitazione, di lavoro, con un occhio alla produttività e l'altro alla solidarietà, cercando la sintesi migliore tra solidarietà e mercato.

E’ importante in tal senso il protocollo d'intesa che si sta portando avanti tra la Regione Calabria ed il Ministero della Giustizia che vede tra i soggetti coinvolti anche la nostra Associazione (ANCI) e quindi i Comuni.

A questo punto è opportuno evidenziare l'importanza di un proficuo rapporto tra Comuni e Amministrazione Penitenziaria. Questo favorirebbe la conoscenza, da parte del Sindaco di alcuni elementi: la data di scarcerazione, il comportamento del detenuto in carcere, la volontà del soggetto dì non ripetere l'errore. Questo "biglietto comportamentale d'uscita consentirebbe inoltre ai Comuni: di predisporre anche attraverso il contributo di Associazioni di Volontariato o di forme associative con altri piccoli comuni, un mirato processo d'integrazione nella società.

Concludendo, ribadisco la disponibilità dell'ANCI ad un sereno ed utile confronto con L'Amministrazione penitenziaria e con altri soggetti eventualmente interessati che conduca a soluzione i numerosi problemi che attanagliano la nostra Regione.

 

"Il C.S.S.A. organismo di programmazione, coordinamento e gestione delle pene alternative al Carcere"

 

Dr Nasone Mario Direttore dell’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna PRAP Calabria

 

Il mio intervento è frutto del contributo di riflessioni dei tre Centri di Servizio Sociale della Calabria, operanti a Reggio, Catanzaro e Cosenza.

I CSSA sono quei servizi, sorti in tutto il territorio nazionale con la riforma penitenziaria del 1975, che hanno consentito uno sviluppo notevole dell’esecuzione penale esterna permettendo così a migliaia di soggetti di scontare la pena fuori dal carcere.

L’ordinamento penitenziario ha conferito a queste strutture un ruolo di cerniera tra carcere e società e nello stesso tempo il compito estremamente innovativo di sperimentare e rendere possibile un pena diversa, alternativa ed emancipata dal carcere.

I CSSA oggi programmano, gestiscono e verificano con i metodi e gli strumenti del servizio sociale i percorsi di risocializzazione di oltre 45.000 soggetti in misura alternativa l’anno senza peraltro trascurare la presenza negli istituti penitenziari.

Possiamo oggi, alla luce di questi dati, affermare che la sfida dell’esecuzione penale esterna non solo è stata accettata in pieno dai CSSA, ma, è stata portata avanti in condizioni di estrema marginalità, con un investimento di risorse, personale e mezzi, davvero impari rispetto al compito.

Va riconosciuto quindi agli Assistenti Sociali ed al personale dei CSSA il contributo essenziale che hanno dato per rendere fattibili e concrete le misure alternative e la sperimentazione su larga scala di percorsi di riabilitazione, di reinserimento, di inclusione sociale di migliaia di soggetti in esecuzione penale

I dati pur significativi non danno contezza della fatica e della complessità del lavoro svolto perché dietro i numeri ci sono le persone concrete, con le loro storie, con le loro famiglie con i problemi di inserimento, con i successi e con i fallimenti. Non fascicoli da aprire o archiviare, ma impegno professionale fatto di ascolto, di accompagnamento e di sostegno.

Un lavoro, quello della esecuzione penale esterna in gran parte sconosciuto e sottovalutato dall’opinione pubblica, dalle forze politiche e dai mass-media e talvolta anche all’interno della stessa Amministrazione Penitenziaria

Si deve infatti registrare su questi temi un ritardo culturale prima ancora che politico.

Nonostante la legislazione lo abbia sancito e l’esperienza riconfermato, non c’è ancora la consapevolezza che il sistema dell’esecuzione penale di fatto poggia su due gambe: quella tradizionale del carcere e quella più recente delle misure alternative.

In questo sistema tutte e due le gambe sono necessarie. Nessuno si può illudere di abolire il carcere, ma si deve però lavorare per il suo ridimensionamento considerandolo come estrema-ratio a cui ricorrere nell’espiazione della pena.

Il Cardinale Martini celebrando nel dicembre 2001 la Messa di Natale nel nuovo carcere di Opera dichiarava: "si affronti il nodo delle pene alternative, delle carceri purtroppo ci sarà sempre bisogno, ma dobbiamo tutti fare uno sforzo per superare il concetto della detenzione intesa come unico strumento nei confronti di chi sbaglia, il carcere non è l’unico modo per difendere l’ordine pubblico, è necessario per prevenire il crimine organizzato, il terrorismo ma per gli altri delitti vanno studiate misure articolate, in modo che il carcere abbia come vuole la costituzione una funzione riabilitativa capace di riportare alla vita civile chi ha sbagliato".

Un ritardo culturale dovuto anche alla scarsa informazione, per non dire spesso alla vera e propria disinformazione, che c’è attorno alle misure alternative, al punto di vista dei soggetti che ci lavorano, alle problematiche ed alle esigenze di questo settore.

Un esempio tra i tanti. Solo l’anno scorso,per la prima volta e con una certa sorpresa abbiamo ricevuto in qualche CSSA la visita di componenti di commissioni parlamentari che hanno sentito l’esigenza di ascoltare, oltre gli operatori delle carceri, anche quelli dei CSSA. Delle visite che hanno permesso loro di capire meglio la complessità della esecuzione penale e le esigenze dei Centri di Servizio Sociale. Allo stesso modo è stata, importante e significativa, la presenza del Sottosegretario alla Giustizia on. Valentino presso il CSSA di Reggio Calabria in occasione della stipula del protocollo d’intesa tra CSSA e Comune di Reggio. Sono queste occasioni da valorizzare per fare crescere una maggiore attenzione e conoscenza di questa realtà perché potrebbero contribuire a sensibilizzare le forze politiche sulla necessità e l’urgenza di impegnarsi per curare ed irrobustire la seconda gamba dell’esecuzione penale, quella esterna, dandogli la stessa dignità e la stessa importanza che si dà al carcere.

Colmare il ritardo culturale significherebbe riconoscere che anche l’esecuzione penale esterna, e quindi i CSSA, svolgono una funzione di sicurezza e di difesa sociale; perché recuperare alla società chi ha sbagliato, contrastare la recidiva, è un modo per produrre sicurezza e per ridurre i conflitti sociali.

Il carcere non può continuare ad essere una sorta di porta girevole dalla quale entrano ed escono sempre gli stessi soggetti e per i quali il trattamento penitenziario, di fatto, si rileva fallimentare. Misure come l’indulto o l’amnistia possono servire a decongestionare temporaneamente le carceri sovraffollate ma bisogna prendere atto che il reinserimento nella società è un’altra cosa.

Richiede investimento di risorse, opportunità lavorative e sociali da attivare, atteggiamenti di accoglienza della comunità, una politica di reale sviluppo delle misure alternative al carcere, diretta a quella parte della popolazione penitenziaria e a quei condannati che hanno un reale interesse ad uscire dai circuiti della devianza. Una politica coraggiosa che non deve significare buonismo ed automatismo nella concessione dei benefici penitenziari.

Non bisogna, infatti, dimenticare che l’assistente sociale della giustizia opera secondo un doppio mandato: quello professionale e quello istituzionale. Un mandato quindi che si esplica nell’aiuto e nel sostegno del reo, ma anche un mandato di difesa sociale, di tutela della comunità giustamente preoccupata dei danni che la criminalità organizzata e quella comune gli può arrecare.

Negli ultimi anni si è registrata una maggiore attenzione alla realtà dell’esecuzione penale esterna ed alcuni segnali positivi sono stati dati. Tra questi: l’istituzione, per la prima volta, presso il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria della Direzione Generale della Esecuzione Penale Esterna, l’assunzione di circa 500 nuovi assistenti sociali nei CSSA, l’attivazione presso i Provveditorati Regionali degli Uffici per l’Esecuzione penale Esterna.

Sono questi alcuni passi importanti, ma ancora, molto va fatto, soprattutto per ridisegnare e per ricollocare i CSSA nel panorama più ampio dei servizi sociali e nel sistema giustizia, per attivare nuovi modelli organizzativi che li rendano capaci di raccogliere le sfide della complessità e divenire compiutamente veri e propri Centri a cui è affidata la responsabilità dell’esecuzione penale esterna.

 

La situazione in Calabria: la realtà e le prospettive

 

In Calabria la sfida dell’esecuzione penale esterna e’ ancora più difficile da raccogliere a causa delle specificità del territorio e delle sue problematicità. Le scarse opportunità occupazionali e sociali, la debolezza degli enti locali e dei servizi, la presenza di una criminalità organizzata che condiziona ed ostacola anche il lavoro degli operatori penitenziari, sono tutti fattori di cui bisogna tenere conto. Ciononostante, anche nella nostra Regione, i tre Centri di Servizio Sociale hanno in questi anni operato per applicare la riforma penitenziaria. I dati regionali ci confermano che l’esecuzione penale esterna anche in Calabria è una realtà significativa. Al 31.12.2002 erano1738 i condannati coinvolti nell’area penale esterna, ai quali vanno aggiunti i detenuti definitivi seguiti negli istituti penitenziari, per un totale di 5.384 soggetti seguiti dai tre CSSA.

I tre Centri nonostante il numero ridotto di assistenti sociali in servizio (quaranta, circa, in tutta la Regione) hanno operato con grande investimento di energie cercando anche di rinnovare le metodologie d’intervento e di sperimentare nuovi progetti innovativi.

I risultati di questo lavoro non sono facili da quantificare, ma possono essere, almeno in parte, desunti dai dati relativi al numero delle revoche, cioè dalla misure alternative che si sono concluse negativamente. Dati, che come si evince dalle tabelle, che riferiscono di un numero estremamente ridotto di revoche e sostanzialmente, in linea con le tendenza nazionali, di un buon esito della gestione delle misure alternative. L’attivazione dell’ufficio esecuzione penale esterna presso il Provveditorato ha permesso l’avvio di uno scambio più continuo tra i 3 CSSA , la messa in comune delle esperienze e delle buone-prassi, l’elaborazione di progetti comuni. Si è avviato un dialogo e delle intese regionali con la Magistratura di Sorveglianza, con la Regione Calabria, con il volontariato e nello stesso tempo l’attivazione dell’ufficio ha permesso una maggiore visibilità a questo settore.

Le prospettive per potere continuare e fare un salto di qualità sono legate:

- alle motivazioni ed all’impegno degli operatori dei CSSA che vanno alimentate e stimolate anche attraverso una formazione continua;

- alle scelte che farà la nostra Amministrazione ed il Governo per dare mezzi e risorse che sono indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi.

In questo quadro sarà di grande importanza l’apertura delle sedi di servizio di Crotone e di Vibo Valentia, perché permetteranno di avvicinare il servizio dei CSSA ai cittadini, di migliorare la qualità dell’intervento, di coinvolgere meglio gli Enti Locali ed il Volontariato.

Altro aspetto decisivo per dare prospettive all’esecuzione penale esterna in Calabria è quello degli organici,soprattutto relativamente agli assistenti sociali. Problema che affligge i tre CSSA, ma che si presenta, grave ed urgente, al CSSA di Catanzaro dove c’è una e vera e propria emergenza e dove non si è in grado di potere garantire ai Tribunali di Sorveglianza quel servizio professionale indispensabile per un adeguato progetto di misura alternativa.

Anche la carenza di educatori nelle Carceri calabresi rende estremamente difficoltoso il lavoro dell’assistente sociale, che non ha referenti in alcuni istituti penitenziari.

Con la stipula del protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia e Regione Calabria , con l’attuazione della legge 328, si è aperta la strada per potere finalmente cooperare per il raggiungimento di obiettivi importanti anche nel settore dell’esecuzione penale esterna.

Come operatori impegnati nei CSSA, rifiutiamo la cultura del lamento. Siamo convinti che dobbiamo utilizzare al massimo le risorse che ci sono state date e che dobbiamo aumentare la nostra progettualità. Se chiediamo più risorse è per potere garantire meglio i risultati e gli obiettivi che l’Amministrazione e la Società tutta ci richiede. Ci è stata affidata una missione importante, ci siano dati i mezzi per attuarla.

 

"L’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna in Calabria"

 

Dal mese di Febbraio 2003 è stato istituito formalmente l’ufficio dell’esecuzione penale esterna del provveditorato della Calabria con la nomina dello scrivente come Direttore Reggente

Attraverso riunioni periodiche con i Direttori dei CSSA della Regione è stato definito ed avviato il programma di lavoro per l’anno 2003 che ha recepito innanzitutto gli obiettivi e le indicazioni del Pea elaborato dalla Direzione generale dell’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna riguardante i contenuti della indagine sociale ed il trattamento degli affidati.

La programmazione che l’ufficio si è data comprende sia aspetti interni al CSSA che tematiche riguardante i rapporti con Istituzioni ed organismi esterni.

1)Organizzazione del lavoro dei CSSA.

Con riferimento alle Direttive emanate dal Provveditore riguardo a :

  1. Orario di apertura al pubblico;

  2. Orario di servizio;

  3. Attivazione aree.

I tre CSSA si sono dati una organizzazione omogenea con l’emissione dei relativi ordini di servizio.

2) Modello organizzativo.

Sul modello organizzativo si è avviato un confronto tra i tre CSSA finalizzato alla definizione di una organizzazione comune, almeno nelle linee essenziali.

Per fare questo si è cercato soprattutto di rilevare e valorizzare le buone prassi che ogni CSSA aveva sperimentato facendole diventare patrimonio comune.

In particolare si intende sperimentare un modello organizzativo che preveda azioni omogenee in riferimento a:

  1. attivazione aree;

  2. assegnazione risorse umane alle aree;

  3. equipe di zona;

  4. tempi di consegna delle relazioni;

  5. segretariato;

  6. controllo tecnico;

  7. presenza degli esperti presso i CSSA;

  8. aree progettuali ed incarichi;

  9. gestione borse lavoro;

  10. giustizia riparativa;

  11. rapporti con gli Istituti e con i Tribunali di Sorveglianza.

In questo primo semestre di attività si è operato soprattutto per il raggiungimento di questi obiettivi interni.

Per quanto riguarda i rapporti con i due Tribunali di Sorveglianza sono stati tenuti degli incontri a Reggio, Catanzaro e Cosenza di presentazione del neonato ufficio e avviato un dialogo sulla progettualità e sulla operatività dei CSSA della Calabria, sulle problematiche più pressanti.

Per quanto riguarda le relazioni richieste ai CSSA dai Tribunali di Sorveglianza si è convenuto su dei tempi di consegna che i 3 CSSA della Calabria si sono impegnati a rispettare.

L’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, per quanto ha riguardato i rapporti con la Regione, con il Terzo settore e con il Volontariato ha operato d’intesa con l’Ufficio Trattamento dei detenuti del Prap collaborando alla predisposizione del protocollo d’intesa con la Regione, promuovendo iniziative per la promozione e formazione del volontariato, collaborando alla elaborazione dei progetti di giustizia riparativa, della formazione e del lavoro penitenziario, del trattamento dei sex-offenders, dell’apertura dell’Istituto sperimentale di Laureana di Borrello, della formazione.

 

Prospettive per l’Esecuzione Penale Esterna in Calabria

 

L’apertura delle due sedi di servizio di Crotone e Vibo rappresenta uno degli obiettivi prioritari dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna per i prossimi mesi. D’intesa con la Direzione del CSSA di Catanzaro sono stati avviate le procedure previste per la stipula dei relativi contratti di locazione.

Nella programmazione per il prossimo anno, all’interno del progetto Athena, l’ufficio curerà in particolare:

1) I rapporti con la Regione, ai sensi del protocollo d’intesa sottoscritto su tutte le materie attinenti l’esecuzione penale esterna ed in particolare sul lavoro, i servizi sociali, l’assistenza ai tossicodipendenti ed ai disabili mentali.

2) L’attuazione della 328, la partecipazione ai tavoli per i piani territoriali di zona , rappresenterà un impegno prioritario dei CSSA.

3) La collaborazione con il volontariato, ed in particolare con la Conferenza regionale del Volontariato della Giustizia con la quale si opererà per favorire la presenza di assistenti volontari anche all’interno dei CSSA. Si attiverà la Consulta regionale del Volontariato nell’esecuzione penale esterna in attuazione della Convenzione stipulata tra Direzione Generale Esecuzione Penale Esterna e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia.

4) Servizio civile volontario. L’Ufficio elaborerà un Progetto, da proporre al Dap, per la utilizzazione presso i CSSA della Calabria di volontari, ai sensi della legge n.64 del 6 marzo 2001.

5) Incontri con la Magistratura di Sorveglianza per la giustizia riparativa ed in generale per migliorare la qualità del servizio nelle misure alternative.

6) La realizzazione di una ricerca valutativa sulle misure alternative in Calabria in Collaborazione con il Dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria.

7) La programmazione di seminari formativi sulla ricaduta della legge 328 nella regione Calabria, in collaborazione con l’Università di Messina e di Cosenza.

8) L’avvio del programma SDI, presso i 3 CSSA, una risorsa che permetterà di migliorare la quantità e qualità delle informazioni, utili per l’inchiesta sociale, con una economizzazione dei tempi di lavoro.

9) L’attivazione della autonomia contabile per i CSSA di Cosenza e di Catanzaro.

10) La pubblicazione di un opuscolo informativo di "Consigli Pratici per chiedere le misure alternative alla detenzione".

 

Progetto Centro Polivalente "Fata Morgana"

 

Nella programmazione delle attività per i prossimi anni l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Prap intende attivare un Centro Polivalente, dove allocare alcuni servizi che rivestono una particolare importanza nel raggiungimento degli obiettivi che l’Amministrazione Penitenziaria si è data in Calabria.

Il progetto è stato proposto alla Provincia di Reggio Calabria, che ha già destinato per questo scopo con delibera di Giunta, un immobile sito nel Centro Storico di Reggio Calabria, dotato di ampi spazi che si prestano alla attivazione di servizi diversificati.

Gli altri Partner previsti sono: la Regione Calabria, il Comune di Reggio Calabria, la Caritas Diocesana, la Conferenza regionale Volontariato Giustizia, la Fondazione Banca Etica, il Consorzio di Cooperative Sociali Nova Spes di Milano

Tre sono i servizi che saranno avviati, dopo avere eseguito i necessari lavori di ristrutturazione dell’immobile:

Ufficio regionale per la mediazione Penale, per la giustizia riparativa e l’assistenza alle vittime del delitto.

L’ufficio è stato previsto dal progetto regionale sulla giustizia riparativa elaborato dal provveditorato della Calabria. E’ chiamato a svolgere in ambito regionale una azione di promozione e coordinamento di tale attività che nel futuro avrà ancora più spazio all’interno del sistema-giustizia ed in particolare della esecuzione penale esterna.

In particolare svolgerà un servizio di sportello per informazioni ed assistenza, promuoverà attività formative, organizzerà incontri, convegni ed azione di sensibilizzazione su queste tematiche. Il personale che gestirà tale servizio sarà composto da volontari e da operatori del no-profit appositamente qualificati, da assistenti sociali del CSSA di Reggio Calabria.

 

Agenzia Carcere-Lavoro

 

In collaborazione con il Consorzio Nova Spes di Milano, particolarmente qualificato nel campo della transizione al lavoro delle fasce sociali svantaggiate, si costituirà presso la struttura individuata, un centro che avrà il compito di promuovere e coordinare tutte le iniziative che il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria attuerà in Calabria in tema di inserimento lavorativo dei condannati, dei dimessi dalle carceri, delle famiglie dei detenuti.

L’organismo opererà in convenzione con il Prap, con il quale, dopo avere determinato i fabbisogni formativi ed occupazionali della popolazione penitenziaria, promosse le opportune ricerche di mercato, elaborerà i programmi annuali di formazione professionale ed i progetti di inserimento lavorativo, sia all’interno degli istituti penitenziari, sia nell’esecuzione penale esterna.

Svolgerà inoltre tutte le azioni di orientamento al lavoro e di consulenza già previste nel progetto Polaris dell’Amministrazione Penitenziaria comprese quelle dell’Osservatorio regionale sul lavoro penitenziario.

Come fonti di finanziamento si avvarrà delle risorse e delle agevolazioni per le fasce svantaggiate previste dalla normativa comunitaria, dalla legislazione nazionale e regionale e dai dai fondi della cassa per le ammende.

Particolare attenzione sarà rivolta al reperimento di commesse di lavoro da parte di istituzioni pubbliche, private e del mercato.

Saranno coinvolte e valorizzate le cooperative di tipo B operanti in Calabria, in particolare quelle che già collaborano con l’Amministrazione Penitenziaria. Si promuoveranno inoltre altre iniziative cooperativistiche nelle realtà territoriali dove se ne ravviserà l’esigenza.

Il centro si avvarrà di personale operante nelle coop. Sociali coinvolte, di altre risorse umane messe a disposizione dal volontariato e dalla consulenza di operatori della Provincia e della Regione competenti nel settore delle politiche del lavoro.

 

Scuola Regionale del Volontariato della Giustizia

 

Il Provveditorato della Calabria ha già avviato una azione di valorizzazione, promozione e coinvolgimento del volontariato all’interno degli Istituti penitenziari e presso i CSSA. Anche sulla spinta del protocollo d’intesa firmato tra la Direzione Generale dell’Esecuzione penale Esterna e la Conferenza nazionale del Volontariato della Giustizia, si attiverà in Calabria la Consulta Regionale del volontariato.

Il volontariato penitenziario svolge una azione insostituibile nell’azione rieducativa e nel reinserimento sociale. In Calabria c’è una presenza significativa di volontari che va però incentivata e coordinata. In particolare va curata meglio la formazione, la consulenza e l’assistenza alle nuove associazioni di volontariato che si vogliono impegnare in questo difficile settore.

La Scuola Regionale del Volontariato avrà il compito di svolgere un’ azione di informazione e sensibilizzazione della comunità ai problemi del carcere e del reinserimento, di organizzare corsi periodici di preparazione per i nuovi volontari e di aggiornamento per quelli già operanti, di offrire un servizio di informazione e di documentazione e di approfondimento delle tematiche della detenzione e delle politiche penitenziarie.

La scuola sarà gestita in via sperimentale in collaborazione con la Conferenza Regionale della Giustizia e con la Caritas Regionale. A tale scopo si stipulerà apposita convenzione con il Prap.

Il personale sarà composto da volontari e la Scuola potrà accedere ai finanziamenti Nazionali e Regionali, Provinciali sul volontariato, su fondi dell’ISSP.

 

Provveditorato Regionale Ufficio Esecuzione Penale Esterna

soggetti seguiti nell’anno 2002 dai C.S.S.A della Calabria

 

affidati in prova al servizio sociale 1100, di cui tossicodipendenti 136

semiliberi, 132

osservazione soggetti detenuti presso istituti di competenza, 1738

osservazione sogg.ti det. presso istituti di comp. altri centri, 524

oservazione soggetti liberi, 965

liberi vigilati, 127

detenuti domiciliari, 530, di cui detenuti domiciliari provvisori, 68

interventi di segretariato, 4534

permessi premio, 153

inchieste per art. 69, 21

osservazione soggetti internati, 44

assistenza familiare, 46

assistenza post penitenziaria, 4

 

"Criminalità, misure alternative, immagine sociale dei problemi, pregiudizi e stereotipi, strumenti e progetti per incrementare conoscenza, informazione, consapevolezza dei problemi".

 

Prof.re Bruno Francesco criminologo – psichiatra presso l’Università "la Sapienza" Roma

 

Grazie Presidente, data l’ora inviterei semplicemente il pubblico che ascolta a leggere il titolo del mio intervento che è l’intervento stesso "Criminalità, misure alternative, immagine sociale dei problemi, pregiudizi e stereotipi, strumenti e progetti per incrementare conoscenza, informazione, consapevolezza dei problemi". Significa che dovrei parlare 12 ore, cosa di cui ne sono maledettamente capace. Io mi fermerò proprio ad alcune brevissime riflessioni poi, chiunque voglia saperne di più, sono disponibile per ogni ulteriore approfondimento; cercherò di stare nei termini perché quando si ha di fronte la possibilità di parlare un po’ di tutto lo scibile umano, poi, alla fine, parleremo di poco.

Voglio innanzitutto ringraziare, oltre naturalmente la Presidenza che mi ha dato la parola, il dottor Quattrone per aver centrato questo tema, lo ringrazio non ritualmente, non perché mi ha invitato, ma perché siamo amici. Credo che se l’Italia avesse molti funzionari come il dottor Quattrone forse non staremmo qui neanche a parlare, ma staremmo a fare tante cose che migliorerebbero la funzionalità del nostro sistema.

Ho appreso prima, dalle parole del dottor Rizzo una cosa che già in parte sospettavo: che in fondo, questo sistema nostro della Giustizia, non funziona, meno male che non funziona, perché se funzionasse sarebbe un guaio. Ma è l’intero sistema generale che in Italia presenta larghi margini di scarso funzionamento a cui, i geni vitali, attraverso la nota capacità di arrangiarsi, dà soddisfacenti soddisfazioni.

Se si ferma un granello della potente macchina tedesca si ferma la macchina, perché è tutto, così come negli Stati Uniti. Da noi si può fermare un intero pezzo di sistema e il sistema va avanti lo stesso, giocando proprio qualche volta, sulle sue inefficienze.

Cosa ci sta a fare un criminologo qui, e che cosa deve dire? La mia visione ovviamente non è né quella del Magistrato, né del funzionario, del gestore della realtà penitenziaria, né quella del sacerdote, né quella degli Enti locali che pure costituiscono il nostro paese e devono farsi carico di tutto ciò che riguarda la funzionalità di certi sistemi.

La criminologia nasce con l’osservazione scientifica del soggetto criminale, il quale, ad un certo momento, venne paragonato ad un malato, ad un malato sociale, il quale aveva delle caratteristiche antisociali addirittura che provenivano dalla sua nascita e dalla sua costituzione.

Il carcere, i sistemi punitivi, sono stati immaginati come una gradualità di pene che dovevano corrispondere ad un preciso tariffario per cui, per una pena grave, c’era la pena di morte, per una pena lieve, c’era un piccolo soggiorno nelle carceri. Erano comunque pene , afflizioni che si pagavano in termini fisici di freddo, caldo, torture varie e così via.

Questo sistema dura tutt’oggi in gran parte del mondo. Gran parte del mondo ha un sistema graduato di pene al cui vertice c’è la pena di morte. Nei paesi più civili, compresa l’Italia, abbiamo superato, almeno nelle parole, nella nostra Costituzione, e questo tutti lo sappiamo, che il concetto di pena intanto non deve essere più una pena fisica, anche se in Inghilterra ancora frustano la gente, non ce lo dimentichiamo, la pena corporale c’è stato tutto un lunghissimo dibattito negli anni 70 se reintrodurla o no, molti illuminati, i nostri giuristi, hanno anche considerato che forse era il caso di reintrodurla.

Direi che per questi Paesi più civili la pena oggi è il carcere ma non con il significato antico di afflizione, sofferenza e quindi, poi, processo di pentimento, attenzione, senza virgolette, e quindi poi emenda e quindi poi recupero sociale.

L’idea centrale che si è fatta avanti per tutto il 900, è stata l’idea di dire…"va bene, abbiamo delle solide mura, buttiamoli dentro e che non si vedano più, perché questa era la difesa sociale, teniamoli dentro in modo che la gente perbene non dovesse neanche vedere possibilmente la pena, poi dentro se soffrono o meno, lunghe pene, l’ergastolo: ti tolgo di mezzo per sempre. La criminologia, allora, è nata contro tutto questo, perché il primo obiettivo che si è posto è capire perché uno delinque in modo da dare risposta differenziata, risposte tali da poter raggiungere effettivamente il risultato, con molti errori naturalmente che sono stati fatti. Però voi tutti ricordate la scuola positiva che ci aveva portato ad una concezione ben diversa quindi il problema era la pericolosità di queste persone e quindi sulla base di questa pericolosità dovevano essere considerate le, stavo per dire, le terapie.

Oggi c’è il trionfo della scuola positiva assoluta, totale, perché per il mafioso c’è un binario, per il matto un altro binario, per i circuiti l’ira di Dio. Siamo in una situazione, insomma, in cui c’è una grande differenziazione e non a caso, lo ricordate, il terrorismo, e di questo i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria hanno pagato un enorme tributo di sangue, se la presero proprio con il trattamento per cui il trattamento è assolutamente inefficace, tanto vale non farlo, risparmiamo soldi e l’idea è comunque quella di tenerla separata dalla città questa persona. E poi le pene, perché differenziarle? E come faccio io ad andare a cercare tra i carcerati, tra i detenuti, gli attori della prossima rivoluzione se noi andiamo a differenziare le pene? E quindi molti valenti Magistrati, molti Direttori del DAP hanno pagato questa evoluzione che ha determinato poi un certo rallentamento di quello che è il problema inevitabile. Noi adesso siamo qui perché la società va avanti e il merito, e mi ricollego a quello che diceva il dottor Quattrone, è quello di aver detto "il re è nudo" attenzione, perché fino ad oggi il carcere, il carcere, il carcere. Ma il carcere è oggi l’elemento minoritario non solo dell’esecuzione penale, ma di tutto il sistema. E allora andiamo a vedere un momento questo sistema, io avevo portato quintali di statistiche, che ovviamente vi risparmio, anche perché più o meno non cambiano da anno ad anno, il cuore di questo sistema. Noi dobbiamo renderci conto che in Italia 500.000, cioè mezzo milione, ovvero l’1% della popolazione ogni anno passa attraverso il sistema della giustizia penale. Di questi 500.000, cerchiamo di semplificare e quindi riduciamo a per 100.000, quindi di questi 5 cittadini che passano per il sistema giustizia penale, 2 passano indenni, non vanno a finire in carcere, non gli succede niente, niente, o Dio, gli succede un processo che dura 5 – 6 anni che è già una pena notevole soprattutto per chi non ha commesso il fatto, e poi alla fine escono perché non vengono riconosciuti colpevoli di alcunché. Gli altri 3 che fine fanno? Due entrano in carcere; di questi 2 che entrano in carcere poi 1 esce e va nel circuito o meglio nel sistema extramurale, cioè nel sistema extracarcerario, l’altro rimane in carcere. Il terzo non entra proprio in carcere, va direttamente nel deposito extracarcerario. Io ricordo che fino a qualche anno fa, neanche lo stesso Ministero della Giustizia aveva la contezza di quanti fossero e di che cosa bisognava fare, si vedeva che crescevano. Quindi non è esattamente l’universo carcerario, stavo per dire una frase di Solgenizzi, parlava di "universo concentrazionario", ecco, l’universo concentrazionario carcerario intramurale ed extramurale, non è fatto solo di gente che ha una pena da scontare, ma è fatto purtroppo anche di gente che ancora non si sa se è colpevole o innocente, e che è in una detenzione preventiva o cautelare come si dice. Bene, se noi sommiamo questi, abbiamo non 500.000/45.000 persone, ma ne abbiamo circa 100.000 fuori e allora dico io, anche se naturalmente non ho alcun titolo per farlo, però noto, anche perché mi sta davanti il presidente Fuda della Provincia che è qui presente sin dall’inizio, sorbendosi tutte le nostre parole, ma è giusto che lo sia, perché la Provincia rappresenta i cittadini e deve conoscere, deve sapere esattamente che non c’è solo il carcere o le carceri che sono adesso , esattamente non so, in provincia di Reggio Calabria, ma che ci sono anche altre persone che sono nelle stesse condizioni ma sono fuori deve saperlo. Ora noi siamo al primo passo cioè la conoscenza del fenomeno, ma cosa dobbiamo fare per fare in modo che questo fenomeno si traduca in quella che è la speranza di tutti che si debba tradurre, ovvero sia nella, come si dice, non riconciliazione, ma nel recupero, ecco, parliamo di recupero, del soggetto all’interno di una società civile. Allora abbiamo qui la rappresentanza, e sono molto contento di questo, dell’Associazione Nazionale Magistrati, ovvero il produttore, non produttore della criminalità, ma dei carcerati, poi abbiamo il gestore dei carcerati, che è appunto l’Amministrazione Penitenziaria, e poi, dove va a finire questo?

Noi speriamo che questa persona esca da questo circuito e finisca dove? Nella Provincia. Quindi è giusto che il Presidente sia qui, ed è giusto che noi ci troviamo qui, qui in questo palazzo che è l’Ente della Regione Calabria. Noi siamo la società civile che dobbiamo prenderci carico, perché ormai non possiamo pensare, l’ha detto anche il Provveditore Quattrone, in America ne hanno messo 2 milioni in carcere, però ce ne sono oltre 4 – 6 milioni fuori, noi non possiamo pensare con un’ottica che ci deriva purtroppo dai mass-media, che costruiremo chissà quante nuove carceri e ci butteremo dentro tutti quelli che delinquono. Non è così in tutto il mondo civile e meno civile ormai questo non basta, c’è un’evoluzione, per cui ciascuno deve avere ciò che si merita. Se il carcere lo possiamo svuotare, io lo dicevo ieri e lo ripeto oggi in maniera molto netta, fino ad adesso si sono utilizzati due strumenti che sono opposti: da una parte l’innalzamento o l’abbassamento dei limiti della carcerazione preventiva, mi ricordo ogni sei mesi ne ho contati 12 o 13, per cui ad un certo momento, quando c’era un’esigenza di sicurezza da parte della gente, si innalzavano, quando invece c’era un’esigenza opposta si riducevano; e poi l’altro, cioè agire sull’amnistia, indulto, che erano diventati quasi non più eccezionali, ma regolari.

Tutto ciò ha stravolto, oggi il nostro è un carcere – lo devo dire io , non sono un operatore del carcere, anzi sono uno che il più delle volte, cerca di togliere il carcere ai suoi clienti – però devo riconoscere che il nostro carcere è sicuramente una delle strutture dal volto più umano che io abbia mai visto, non molto funzionale per certi aspetti, però certamente un posto dove comunque permane, rimane una certa sofferenza legata ai regolamenti e agli ordinamenti che ancora sembrano riguardare più un carcere dell’800 che una struttura moderna del terzo millennio.

Quindi c’è ancora una sofferenza però per il resto il carcere oggi in Italia, grazie alla buona volontà, alla capacità professionale, all’abnegazione di quelli che ci lavorano dentro, dei volontari che ci vanno, ecc., è sicuramente una delle carceri migliori. Ciò nonostante è chiaro che ci sono degli aspetti di sofferenza. Per esempio è proprio giusto che in carcere ci debbano essere 3.000 psicotici, cioè persone che hanno una schizofrenia, cioè una malattia mentale grave? Poveretti, non hanno degli avvocati, perché la maggior parte è gente disgraziata, se si rivolgessero a me, se sapessero che ci sono, lo farei anche gratis, però per uno, non lo posso fare per 50, è giusto che questi stiano in carcere e debbano assorbire il lavoro di 7/8 agenti di custodia che devono star lì a controllarli altrimenti si impiccano, si ammazzano, danno fuoco alla cella. Secondo me no, non è giusto, perché il carcere non è fatto per questi. E’ giusto che in carcere ci sia gente senza una gamba, persone ammalate terminali di AIDS? Certo, c’è stato un rapinatore con AIDS che è uscito e ha fatto una rapina, e allora subito si prendono tutti quanti gli altri e si buttano dentro.

Questo non è possibile in un paese civile.

E allora cominciamo a togliere dal carcere tutti quelli che hanno ragione di non doverci stare, scusatemi ma la mia deformazione professionale medica mi fa mettere l’accento su chi, per ragioni mediche, non deve stare in carcere com’è previsto, d’altro canto, dal non nostro Ordinamento.

E allora vedrete che le carceri, e poi tanti altri tipi di interventi che avrebbero ragione di altri tipi di interventi e così via, avremmo il carcere per 10.000 persone, per 5.000 persone, quelli che veramente ci devono stare perché rappresentano un pericolo sociale e anche loro, attenzione, ci devono stare il meno possibile perché devono riuscire, dobbiamo riuscire in qualche modo a recuperarli altrimenti è finita. La criminalità organizzata, voi sapete, si organizza e si è organizzata proprio per resistere al carcere.

Quindi o noi siamo il cosiddetto 41 bis che viola tutti i diritti umani principali e allora se usiamo questo otteniamo che cosa? Otteniamo di aver messo in carcere un capo mafioso e che fuori ce ne sia un altro. Gli abbiamo fatto un piacere tutto sommato perché quell’altro può essere più intelligente e più moderno del primo, oppure non usiamo il grimaldello del 41 bis o di qualunque altra situazione di questo tipo e allora quello continua a comandare dal carcere. Quindi il problema della criminalità organizzata noi lo risolviamo non solo con la repressione ma anche poi con tante altre attività che purtroppo, siccome costano, non si fanno.

Detto questo io ho parlato ben oltre i limiti che mi sono concessi, volevo semplicemente chiudere dicendo: le misure alternative sono una evidente, assoluta necessità, devono essere utilizzate secondo quanto la Legge prevede, il che significa un impegno economico notevole, un impegno di uomini, un impegno di strutture che stiamo cominciando ad utilizzare, ma non significa solo questo, significa cultura, conoscenza, preparazione, interventi. Concludendo, facendo un esempio di un mio collega napoletano che venne chiamato da una Corte a rivedere il caso di un disgraziato che era stato messo per grave depressione, per tutta una serie di problemi, agli arresti domiciliari; questo è stato per circa un anno agli arresti domiciliari dopo di che è stato chiamato questo medico per visitarlo e per dire come stava.

Questo poi è andato in Corte e ha detto: Cosa volete sapere, se sta meglio? Certo che sta meglio, sta con la moglie, con i figli che amorevolmente lo curano ecc. e allora? Che cosa volete che vi dica che sta meglio per rimetterlo dentro? Io sono un medico, vi posso solo dire che sta meglio, se lo volete rimettere dentro, rimettetecelo voi. C’era bisogno di rimetterlo dentro? Chi lo sa! Probabilmente no, abbiamo un infelice dentro!

 

"Il ruolo della Regione nell’Esecuzione penale esterna: il protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Calabria".

 

On Egidio Chiarella Consigliere Regionale - Presidente Comitato gestione volontariato Regione Calabria

 

Il rilevante contributo assicurato dal volontariato negli ultimi anni, manifestatosi nella preziosa collaborazione offerta agli Istituti Penitenziari e ai Centri di Servizio Sociale per Adulti nell’organizzazione delle attività trattamentali rivolte alla popolazione detenuta o in esecuzione esterna, dimostra l’attenzione sempre crescente che la società civile pone all’istituzione detentiva e ai problemi dell’esecuzione penale in genere.

Ne deriva la necessità di favorire un sempre più stretto legame tra le strutture dell’Amministrazione Penitenziaria e il volontariato che svolge l’importante ruolo di raccordo tra istituzioni e territorio.

L’8 giugno 1999, il Ministero della Giustizia ha sottoscritto con la Conferenza Nazionale del Volontariato Giustizia, un protocollo d’intesa che da un lato ribadisce il valore e la funzione del volontariato come espressione della società civile riconoscendo l’insostituibile ruolo da esso svolto per rendere concreto il principio costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, dall’altro impegna l’Amministrazione penitenziaria e la Giustizia Minorile ad agevolarne l’attività in tutti gli ambiti d’intervento previsti dalla norma di riferimento e esplicitamente indicati nell’accordo stesso.

Il Ministero della Giustizia e la Conferenza Nazionale del Volontariato intendevano, quindi, sviluppare ancora maggiormente gli ambiti di intervento e valorizzare il volontariato sia come interlocutore e partner qualificato nella realizzazione delle attività trattamentali sia come insostituibile fattore di collegamento fra il carcere e la società civile.

Come è noto le forme attualmente previste dall’ordinamento penitenziario in cui si concretizza l’attività di volontariato sono due.

La prima modalità è contemplata dall’art. 17 L.354/75 e costituisce una partecipazione all’attività rieducativa nei confronti dei ristretti mediante singole iniziative o attività concentrate in brevi periodi di tempo.

La seconda ipotesi si riferisce all’autorizzazioni concesse a coloro che entrano in istituto o collaborano con i C.S.S.A. destinate ad avere efficacia annuale e suscettibile di proroga mediante rinnovi. In quest’ultimo caso, si verificano situazioni di collaborazione che, se risultate utili alla verifica, possono protrarsi anche per anni. Frequentemente le direzioni ritengono utili avviare talune iniziative riguardanti le attività culturali, formative e lavorative nelle quali si sostanzia il trattamento penitenziario, oppure volte a sostenere ed integrare il detenuto nella realtà esterna.

In tale contesto sempre maggiore rilevanza assume il ruolo dei Provveditorati Regionali che, chiamati a coordinare nell’ambito del loro distretto interventi oggetto di competenza congiunta con gli Enti locali devono avere cura di coinvolgere e di favorire la partecipazione del volontariato. In particolare per quanto attiene ai percorsi di formazione ed all’individuazione delle attività lavorative più idonee al reinserimento sociale.

Inoltre i Provveditorati là dove emergono particolari problemi devono favorire l’elaborazione nonché la realizzazione di progetti finalizzati a fornire sostegno a particolari categorie di detenuti quali gli extracomunitari o i tossicodipendenti.

Nell’ambito del riordino dell’Amministrazione Penitenziaria gli uffici dei Provveditori assumono un ruolo preminente per la definizione e la realizzazione di una "Politica del Trattamento" volta al completo reinserimento sociale delle persone detenute e alla migliore organizzazione degli Istituti su tutto il territorio nazionale attraverso il conferimento di un’ampia sfera d’azione per la predisposizione, nell’ambito del proprio distretto, di una rete di attività da porre in essere, in collaborazione con il volontariato, in tutti i settori in cui il trattamento penitenziario deve concretizzarsi per assolvere alla sua funzione rieducativa.

L’intervento del volontariato dovrà acquisire sempre più caratteristiche di organicità e funzionalità in relazione alla grande risorsa che nel nostro paese esso costituisce in ogni settore della vita sociale ove è presente la marginalità o lo svantaggio e poiché l’opera del volontariato e dei singoli volontari si è rilevata molto preziosa per la costruzione di valide opportunità trattamentali.

In quest’ottica i programmi diretti al potenziamento e allo sviluppo delle attività e dei servizi penitenziari, richiedono il rafforzamento delle intese e delle sinergie fra l’Amministrazione Giudiziaria e le regioni, gli Enti locali ed eventualmente Enti e soggetti privati che operano anche nelle forme della cooperazione o dell’associazionismo ONLUS (organizzazioni non lucrative di attività sociale).

La legge di bilancio per l’anno 2001 e per il triennio 2001-2003 ha previsto la destinazione di risorse finanziarie per investimenti destinati a migliorare l’efficacia del sistema penitenziario nei settori del lavoro, della formazione professionale, dell’istruzione, delle attività culturali ed espressive dei detenuti ed internati, delle infrastrutture per l’assistenza sanitaria, dei servizi di mediazione culturale per detenuti stranieri e di assistenza alle detenute madri e ai figli conviventi negli istituti penitenziari.

In tal senso si muove, altresì, l’evoluzione dei rapporti con le Regioni, con il perfezionamento di più significativi e qualificati protocolli d’intesa per il coordinamento di iniziative e progetti condivisi nei campi d’intervento sopra accennati che, nella configurazione dei nuovi poteri, funzioni e compiti amministrativi conferiti alle Regioni stesse e agli Enti locali richiedono lo sviluppo di un quadro di più intesa cooperazione istituzionale con l’Amministrazione statale, dal quale, in prospettiva non sarà più possibile prescindere.

Il piano esecutivo delle intese raggiunte si concretizza oggi attraverso lo strumento del protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Calabria mediante il quale sono individuabili le opere, i programmi e gl’interventi che richiedono azioni coordinate, nonché i tempi le modalità ,le forme di con finanziamento degli stessi e le risorse professionali necessarie per la loro attuazione.

I settori e le materie in cui il Ministero e la Regione s’impegnano ad intervenire in rapporti di stretta collaborazione sono:

Presenza del volontariato;

la tutela del diritto alla salute in particolare alla cura e riabilitazione tossicodipendenti; degli affetti da forme morbose (AIDS,HIV); dei malati di mente.

In questo senso dovranno svilupparsi i piani sanitari regionali per una proficua intesa fra le Regioni e l’Amministrazione Penitenziaria territoriale e quindi la "Carta dei servizi" offerti dall’Azienda Sanitaria locale competente con la collaborazione della direzione dell’Istituto penitenziario.

L’organizzazione, all’interno delle strutture penitenziarie, anche con il coinvolgimento del volontariato, di interventi specifici volti al trattamento delle persone ristrette (istruzione - formazione personale - lavoro – attività culturali – ricreative – sportive).

La recente legge 193/00 "Legge Muraglia" dà agevolazioni e sgravi contributivi alle cooperative di lavoro e alle imprese che assumono detenuti, consentendo di abbattere ulteriormente un costo del lavoro che, attualmente, è già inferiore di un terzo rispetto a quello previsto da contratti nazionali. Qualora le regioni orientassero i propri corsi di formazione professionale verso le specifiche attività realizzabili all’interno dell’istituto o all’esterno verso quelle iniziative imprenditoriali e cooperative disposte ad assumere o associare detenuti ammissibili al lavoro all’esterno o prossimi alla concessione di una misura alternativa, si potrebbero più utilmente sondare quei settori del mercato del lavoro, in cui possa collocarsi la manodopera fisica e intellettuale attualmente inerte, con ulteriore abbattimento del costo del lavoro dovuto alla formazione di una qualificazione professionale.

L’integrazione dei servizi sociali penitenziari con quelli territoriali, in raccordo anche alle forze del volontariato, per gli interventi nei confronti dei soggetti in esecuzione penale esterna, dei dimessi dal carcere, delle famiglie dei detenuti e degli ex detenuti. Le legislazioni regionali, già da anni, hanno definito ambiti d’intervento delle proprie politiche sociali che direttamente o indirettamente riguardano persone coinvolte nell’area penale e le loro famiglie con la previsione e risorse e strutture di servizio.

Le modalità attuative degli accordi di programma, a livello di C.S.S.A., sono la creazione o il consolidamento di relazioni con gli ambiti istituzionali politici e locali: il collocamento in rete con i servizi del territorio, con il privato sociale e con il volontariato; il finanziamento di progetti di inserimento lavorativo e di formazione, l’istituzione presso ogni CSSA, di uno sportello rivolto agli utenti ed ai loro familiari di informazione e di orientamento al lavoro. Gli strumenti attuativi saranno: le borse lavoro, le borse di studio, il rimborso delle spese di corsi scolastici di recupero, di addestramento o formazione professionale ed i contributi per l’avvio di attività artigianali o per l’acquisto di strumenti di lavoro, convenzioni per l’utilizzo di case d’accoglienza temporanea per i detenuti o internati in permesso premio, affidati al S.S. senza fissa dimora che si allontanassero temporaneamente dalle famiglie d’origine, i dimessi dall’istituto penitenziario, le donne madri senza sostegno.

Dalla concreta attuazione di tali progetti dipende il futuro prossimo della dimensione democratica, civile ed umana dell’esecuzione penale: consegnare il carcere, il trattamento penitenziario e l’esecuzione penale in misura alternativa alla detenzione, ad una dimensione di mera istituzione disciplinare e di mero controllo delle persone, dei problemi e dei conflitti che recano, può essere una deriva preoccupante e un’involuzione gravida di rischi, se non si guarda anche una prospettiva di costruzione di migliori condizioni materiali ed umane dei detenuti e degli internati.

Progettare occasione ed opportunità di lavoro, di formazione professionale, di sostegno agli interessi culturali o creativi delle persone e servizi di mediazione culturale per gli stranieri, prendersi cura della loro salute, favorire percorsi di orientamento e di reinserimento sociale è utile a sottrarre molti detenuti all’angoscia dell’ozio forzato, in cui spesso maturano tensioni e conflitti verso le istituzioni o comportamenti autodistruttivi (droga, autolesionismo e sopraffazioni verso gli altri detenuti).

Affinché questi impegni non siano l’ennesima indicazione di prescrizioni utili ad instaurare una dialettica meramente burocratica tra le diverse articolazioni delle amministrazioni troppo spesso accomunate dall’unica preoccupazione di difendersi dalle responsabilità connesse all’inadeguatezza dei servizi e delle attività svolte, occorre coraggio, impegno e determinazione sicure per giungere a risultati alla nostra portata e che possano concorrere alla costruzione di una società migliore, che metta al centro del suo divenire la figura alta e insostituibile dell’essere umano.

Vale la pena che ognuno di noi, per quello che rappresenta, faccia la sua parte fino in fondo per esaltare il senso universale del vivere, della democrazia e della libertà dove può lievitare il mondo degli uomini che noi tutti da sempre insieme vogliamo e al quale dobbiamo credere.

 

"L'impegno della Comunità locale e del Volontariato nel progetto di reinserimento".

Sig.ra Sarlo Sofia - volontaria Giustizia

 

Vorrei iniziare questo intervento presentando l'associazione che rappresento. La Conferenza di S. Vincenzo de Paoli è una associazione di laici i cui membri aspirano a testimoniare la propria fede con l'amore personale a quelli 'che soffrono. Abbiamo sentito quante sono le sofferenze del mondo del penitenziario: mancanza della libertà, famiglie, difficoltà nel reinserimento ecc.. Il nostro gruppo da molti anni è particolarmente impegnato in questo settore. Il nostro impegno vuole essere sempre di massima collaborazione nel progetto di reinserimento, progetto che potrà essere veramente proficuo solo se si riuscirà a realizzare un lavoro di rete. Se si riuscirà ad incontrare l'uomo, a sostenerlo nel cammino, ad essere punto di riferimento.

Primario impegno del volontariato giustizia è sensibilizzare la comunità locale affinchè la realtà penitenziaria sia ritenuta parte integrante del tessuto sociale e della comunità ecclesiale (Parrocchie, associazioni ecc.). A mio parere tutti noi, le istituzioni, comunità locale, volontariato, parrocchie, associazioni dovremmo rivedere le nostre posizioni.

Le istituzioni devono essere più aperte nella concessione delle misure alternative, creando però i presupposti perché si possano realizzare.

La comunità locale ed il volontariato devono essere più presenti e più attenti alle povertà che riguardano il mondo del penitenziario. Alcuni segnali positivi, da qualche anno, si colgono soprattutto da parte dei giovani.

 

Conclusioni

 

On. Sottosegretario alla Giustizia Avv. Valentino Giuseppe

 

Molti spunti di riflessione, nascono da questo convegno, che tratta un tema particolarmente avvertito quello dell’uomo che soffre, il tormento dell’umanità dolorante e l’impegno della società nei confronti di chi soffre.

La società civile guarda a certi fenomeni di patologia sociale, con attenzione, molti con il loro impegno intervengono, si sacrificano e contribuiscono al sollievo di queste minoranze tormentate.

L’esecuzione penale esterna è la sanzione alternativa, la sanzione diversa da quella tradizionale, rispetto, ai regimi sanzionatori del passato, dalla più grave, la pena di morte ad altre meno traumatiche e definitive.

Il mondo che cambia, che si evolve, ha naturalmente considerato altre forme di punizione che sono in maggior sintonia con il dettato costituzionale che prevede il recupero del detenuto, del condannato, il Carcere come momento anche di riflessione del proprio vissuto, delle proprie condotte che hanno, poi, determinato l’applicazione della sanzione. Per molto tempo, questo principio, è rimasto una mera, ineffabile ed apprezzabile enunciazione, difatti, chi sbagliava andava in carcere, non ci si poneva il problema dell’ipotesi alternativa.

La cultura corrente all’epoca, in cui cominciai ad occuparmi di questa materia, precludeva anche il dialogo con l’interlocutore naturale, il Giudice, il Pubblico Ministero, c’era il mandato di cattura obbligatorio, c’era il carcere, non c’erano alternative, gli arresti domiciliari erano impensabili. Eppure, questo nuovo corso dell’osservazione del mondo criminale ha, invece, consentito una graduazione che poi ha dato luogo alla differenziazione del regime sanzionatorio.

Il convegno, che ci occupa, consente una riflessione che può apparire troppo politica, ma è certamente attuale, un’efficiente sistema di misure alternative può evitare il disagio di immaginare soluzioni clemenziali come quelle delle quali, da qualche tempo, si sta, con grande imbarazzo delle forze politiche, discutendo, il cosiddetto "indultino". Ambiguo strumento segnato fatalmente da un "vulnus costituzionale" che dovrebbe tradursi in una operazione deflativa perché le carceri non sarebbero in grado di ospitare il numero attuale dei detenuti; la motivazione non è adeguata, nobile non è alta. Osservare con una attenzione diversa i regimi sanzionatori alternativi è, certamente, frutto di un approccio più corretto e più coerente a quelle che sono le esigenze dei tempi che stiamo vivendo.

Il Parlamento sta esaminando altre ipotesi di lavoro, proprio per realizzare condizioni che non debbano inevitabilmente determinare, all’esito di un’affermazione di responsabilità, il carcere, come unica ineludibile sanzione. Gli addetti ai lavori nel trattare il patteggiamento allargato, hanno previsto, nell’ambito di questa situazione negoziale, un’espressione dei tempi che viviamo, certamente un passo avanti, si muove qualcosa di diverso rispetto a stereotipi che non consentivano alcuna trattativa tra lo Stato ed il detenuto. Se nell’ambito di questo patto, che si va a scrivere tra lo Stato e chi ha sbagliato, si potesse immaginare, l’accesso diretto alla sanzione alternativa, l’affidamento in prova al servizio sociale, che senso ha immaginare un patteggiamento fino a tre anni e poi ipotizzare il percorso, che è sovente celere, ma, a volte, più complesso che poi determinerà l’affidamento in prova al servizio sociale. Le leggi più recenti hanno consentito che, anche, senza l’osservazione carceraria, sulla base della mera produzione di documentazione idonea e convincente, il Giudice di Sorveglianza può concedere l’affidamento in prova, la famigerata "legge Simeone", tanto vituperata, ma poi sostanzialmente apprezzata. Ora se l’imputato patteggia con lo Stato direttamente la misura alternativa inflitta dal giudice della cognizione e non con il Giudice di Sorveglianza ciò cambia radicalmente e traumaticamente il sistema?

Il punto di domanda è ancora oggetto dell’attenzioni dei Legislatori che ne hanno la cognizione. Il Senato aveva risolto in questo senso della possibilità il quesito, la Camera si è irrigidita sul punto. Ma tutto questo, comunque, rivela l’esigenza di innovare e d’immaginare, sempre più frequentemente, un regime sanzionatorio che non sia quello tradizionale del carcere, che sia un regime più vicino alla personalizzazione della pena che si realizza attraverso l’inflizione di una pena più conferente alla condotta, ai temperamenti, alle possibilità sostanziali di recupero e al vissuto di un soggetto.

Certamente, il nostro è un sistema in evoluzione che deve guardare con grande attenzione a quello che deve essere il regime sanzionatorio, che è il momento fondante della pretesa punitiva dello Stato. Nel momento in cui si realizza la certezza piena della responsabilità lo Stato deve infliggere la sanzione. E’ in questo contesto che, comunque, non bisogna, mai, perdere di vista l’altro soggetto del processo "la vittima". La sanzione deve tener conto di tutte le cose che sono state egregiamente riferite in questo convegno, sottolineate con grande saggezza giuridica, con profonda conoscenza degli animi umani, quindi, tenere sempre presente l’altra parte, quella debole, quella che è stata vulnerata, la parte che ha subito, la vittima del reato. Non bisogna rimuovere, il fatto che, il processo è determinato proprio dall’evenienza che taluno ha subito un pregiudizio grave. L’ipotesi di un regime sanzionatorio meno incidente deve essere sempre collegato con quello che è stato l’atteggiamento successivo alla commissione del reato e, in che misura, il reo ha cercato di contenere le conseguenze della sua condotta illecita.

Questo è un momento valutativo, importante, che ha una sua autonomia rispetto all’estrazione sociale del reo, all’estrazione culturale, alle contingenze particolari che lo hanno indotto a delinquere.

Certamente nel momento in cui si costituisce una relazione, che può essere osservata senza traumi da parte dello Stato, l’ipotesi di una sanzione alternativa diventa più agevole, anche, in contesti criminali particolarmente insidiosi. L’attenzione nei confronti di un regime sanzionatorio deve essere grande. Di questa attenzione il Governo ne ha dato prova nel momento in cui ha immaginato una consistente depenalizzazione. Il codice penale è un codice immaginato, quando, diverso era il rapporto fra i cittadini e lo Stato, ora ci sono tante e tali condotte, che pur se debbono essere sanzionate, non giustificano la pena detentiva. Nei confronti di questa esigenza, di rendere più moderne le valutazioni in merito alle condotte degli uomini, il Governo si è mosso con grande determinazione, la "Commissione Nordio" che è depositaria di questa responsabilità, andrà a concludere i propri lavori di qui a breve.

Nel compiacermi, innanzitutto, per quello che si sta realizzando in Calabria, grazie all’opera d’innovazione determinata, capace ed intelligente del mio amico Paolo Quattrone sento di poter affermare che forse non è un caso che questo Convegno si sia tenuto a Reggio Calabria, perché, questa è una città che, da troppo tempo, vive il tormento di una criminalità opprimente, ma ,è anche una città che vuole contrapporsi a certi sistemi perversi. I segnali di questo cambiamento si colgono nel mondo giovanile che è diverso, finalmente, dopo un numero infinito di anni, ha riscosso un credito che, noi Calabresi-Reggini avevamo nei confronti dello Stato, l’università a Reggio Calabria. Si sono costituiti i tradizionali presidi culturali dove i giovani discutono, si interrogano, si pongono di fronte alla realtà che li circonda, fanno delle valutazioni. Tutto questo è indispensabile per non aderire alle facili lusinghe che nel passato hanno creato vittime proprio nel mondo giovanile. Con questo augurio, che i giovani capiscano e si contrappongono con fermezza alle lusinghe del male, concludo il mio intervento.

 

 

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