Informazione sul disagio sociale

 

Le parole sono uguali per tutti?

(Bologna, 11 ottobre 2003)

 

 

Disagio sociale tra informazione e disinformazione

Confronto sul ruolo dell’informazione che tratta il disagio sociale

 

Schede sulle redazioni dei giornali sociali e di strada presenti all'incontro: Carta, Fuoriluogo, Zero in condotta, L’urlo, Ladri di biciclette, Piazza Grande, Ristretti Orizzonti)

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Stefania Scarlatti (L’Urlo)

Grazia Zuffa (Fuoriluogo)

Daniele Barbieri (Carta)

Giuseppe Tassi (Resto del Carlino)

Mario Pasquale (Zero in condotta)

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

Mario Pasquale (Zero in condotta)

Laura Mazza (Ladri di biciclette)

Massimiliano (Piazza Grande)

Giuseppe Tassi (Resto del Carlino)

Stefania Scarlatti (L’Urlo)

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti)

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

Enrico (L’Urlo)

Mario Pasquale (Zero in condotta)

Daniele Barbieri (Carta)

Operatrice sociale

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

Grazia Zuffa (Fuoriluogo)

Giuseppe Tassi (Resto del Carlino)

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

Operatrice sociale

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti)

Mario Pasquale (Zero in condotta)

Stefania Scarlatti (L’Urlo)

Stefania Scarlatti (L’Urlo)

 

L’obiettivo di questo incontro è creare un’occasione di confronto tra chi, come giornalista "piccolo", vive l’esperienza del disagio in prima persona e usa il giornale per raccontarla, per aiutare l’opinione pubblica ad avere un’idea di cos’è il disagio e chi, invece, dalle grandi testate, affronta il tema del disagio sociale e ne fa oggetto di informazione.

 

Grazia Zuffa (Fuoriluogo)

 

Fuoriluogo sta un po’ nel mezzo tra queste esperienze. Non so se si può chiamare un’esperienza professionale. Lo è nel senso che noi siamo un supplemento del "Manifesto", quindi dobbiamo tenere uno standard di professionalità, a partire dalla cosa minimale, che è di uscire insieme al giornale. Io non sono iscritta all’ordine dei giornalisti, ma a quello degli psicologi, e in realtà questo inserto nasce come opzione politica, nel senso di avere uno strumento di riflessione e di contrasto rispetto all’assoluta marginalità che alcuni temi, come quello delle droghe, ma anche altri temi sociali, hanno della dialettica politica: cosa si intende per diritti, per stati sociali? qual è la dialettica tra l’individuo e la collettività? L’idea era di cercare di tenere insieme questi diversi aspetti, le droghe, il carcere ecc. e dare informazione anche sulle politiche europee, oltre che naturalmente dare voce, per quanto possibile, al mondo dei consumatori, per vedere di ribaltare alcuni stereotipi.

Ho cominciato ad occuparmi di droghe quando facevo la parlamentare e mi è capitato di assistere al dibattito sulla Jervolino-Vassalli: la mia esperienza andava esattamente nella direzione opposta ma, mai come in quell’occasione, ho capito cosa vuol dire il residuo di cultura autoritaria all’interno della sinistra e che cosa vuol dire, nella componente cattolica, il solidarismo autoritario.

Non c’è solo la disinformazione, noi ci scontriamo con il fatto che le droghe sono un argomento di retorica politica per eccellenza, dalla tolleranza zero ad un certo modo di leggere il rapporto tra l’individuo e la collettività. In altri termini, se uno si droga è colpa sua, non della società… stringi stringi, è questa l’idea.

Quindi i politici non hanno interesse a sapere di più su questo, gli interessa piuttosto come possono costruire consenso a partire dall’idea "tolleranza zero", sotto diverse forme. L’informazione è rivolta molto su questo: per caso di recente stavo guardando il TG 4 ed era chiaro che il servizio era a rimorchio della proposta del governo sulle droghe: c’era il rilancio di tutti i classici stereotipi, un’inquadratura di un parco di Milano con ragazzi che fumavano… ecco i drogati… e ritorna fuori una parola che pensavamo non esistesse più… era manifesto a tutti che era uno stereotipo… si passava poi a Genova, con le siringhe del Carruggio, e così via… era molto impressionante. Ci sono dei temi del disagio sociale che tendono a rimanere fuori, perché non sono molto interessanti, e ce ne sono alcuni, come le droghe, che invece si prestano a particolari strumentalizzazioni.

In questo momento credo ci sia un altro argomento importante, anche questo sottoposto a censura, ed è quello dell’immigrazione. Recentemente ho fatto una piccola inchiesta, a Firenze, sull’argomento immigrazione e tossicodipendenza e devo dire che sono rimasta fortemente impressionata: emergono degli spaccati che ricordano l’emigrazione italiana in America degli anni 50, storie drammatiche. Ma come mai c’è così poco gusto della denuncia dei problemi sociali, aldilà di come gli argomenti entrano o non entrano nel dibattito politico degli schieramenti?

Per cui, non è solo un problema dell’informazione. Ricordo che, all’inizio degli anni 80, ero molto amica di giornalisti che lavoravano all’Europeo: Pannella lanciava la campagna sulla fame nel mondo - ricordo la frustrazione su questo argomento - mille volte veniva portato in redazione e altrettante volte gli rispondevano picche, non vende, mettilo nel cassetto.

Ma per non gettare tutte le responsabilità sull’informazione, credo che ci sia un problema un pochino più profondo, della cultura italiana: se penso cosa significa essere un immigrato, il quadro è abbastanza drammatico. Una delle mie fonti d’informazione è stato un Centro a bassa soglia di Firenze, che poi è stato chiuso: via via che diminuivano gli italiani e aumentavano gli stranieri molti di loro si dichiaravano tossicodipendenti, per avere un minimo di supporto… questo per dare l’idea di cosa vuol dire, in questo momento, essere immigrati.

Ogni tanto il tema della droghe viene alla ribalta, ma chi sa che a Napoli la maggioranza dei consumatori di eroina in trattamento presso i Ser.T. lavorano e mantengono la famiglia? Tutto questo dibattito se dare il metadone oppure no, sulla "droga di Stato", etc… ma quanto si sa che il problema maggiore di queste persone, in questo momento, non è tanto il trattamento della loro tossicodipendenza, quanto il fatto che tutti i lavoratori di bassa qualifica sono sotto il controllo della Camorra? Ci sono intere zone di Napoli in cui tu non lavori se, in qualche modo, non c’è un avallo della Camorra.

Per sapere cosa succede nel sociale ho cominciato a guardare il programma "Chi l’ha visto", che a mio parere è una trasmissione persecutoria, ma aldilà di questo aspetto vengono fuori degli spaccati di una realtà sociale drammatica. Ora si è riacceso questo dibattito sulla marijuana, se fa bene o meno: a parte il fatto che una terminologia come "danni a lungo termine" sono contestati dalla comunità scientifica, è emersa una notizia interessantissima, in riferimento all’ecstasy, perché si sono dovuti ritrattare i risultati di una ricerca, che aveva delle falle enormi. Capisco come questo colpisca meno la fantasia, ma a volte può colpire la ragione, e ci sarebbe molto da dire su come giostrarsi tra ragione e immaginazione, tra miti e realtà.

 

Daniele Barbieri (Carta)

 

Ho la tessera di giornalista e ne ho un’altra, di cui sono molto orgoglioso, che mi venne rilasciata dal Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, cioè da quelli che, nel loro mestiere, fanno un’informazione sui forti che tiene conto dei deboli.

Alla domanda che è il titolo del dibattito nessuno ha risposto: le parole sono uguali per tutti". Forse è ovvio, ma diciamolo: no! Non sono uguali per tutti e faccio un esempio con la parola "insospettabile", che è una parola chiave nel giornalismo. Il Resto del Carlino, ma anche Repubblica, hanno scritto che degli insospettabili bancari sono stati fermati a Bologna con della cocaina. Perché… i bancari sono insospettabili, con la cocaina? Invece 

sono molto sospettabili, perché le statistiche dicono che sono loro che fanno queste cose: sarebbero insospettabili se rubassero biciclette! Un povero sfigato di periferia, che di solito ruba motorini, è insospettabile se organizza una truffa miliardaria…

È talmente evidente, a chiunque fa questo mestiere ed è dotato di buon senso, che esistono delle categorie del crimine, alcune di queste appartengono a certe classi sociali ed altre ad altre. Ho visto una vignetta in cui era raffigurato un giornalista che era alle prese con un articolo sulla marijuana e sul tavolo aveva una bottiglia di whisky e un portacenere pieno di cicche, e stava parlando al telefono e diceva: "Ho lavorato bene, è venuta fuori una cosa grossa, sono sconvolto, tanto che stanotte per dormire ho dovuto prendermi il Tavor, il Serenase, etc.".

Ora non sappiamo se questo giornalista, in buona o in cattiva fede, ha scritto un articolo durissimo sulla marijuana ma ha sul tavolo due droghe, alcool e tabacco, e poi cita dei farmaci abbastanza pesanti, che a loro volta ne richiedono altri per risvegliarsi, e si rende conto dei dati scientifici e di una diffusa esperienza pratica che dicono che la sostanza innocua e benefica è proprio quella su cui ha fatto il suo articolo. Io sono uno di quelli che farei volentieri cambio del tabacco con la marijuana: per non mettermi nei guai non vado a cercarla, ma sono convinto che mi farebbe molto meglio del tabacco.

Io vivo qui a Bologna e, quindi, leggo i giornali bolognesi: non trovo una grande differenza nella cronaca, nell’informazione quotidiana sul disagio, fra il Resto del Carlino e Repubblica. Questo è sorprendente, perché sono due giornali che dicono di appartenere a due schieramenti politici opposti, ma la loro informazione sui disagi, la loro rappresentazione del disagio, è sostanzialmente analoga.

Ornella Favero, di "Ristretti Orizzonti", ha dato degli ottimi consigli - ai giornalisti di queste redazioni un po’ strane - ma che andrebbero bene anche per i migliori giornalisti cosiddetti normali. Vi chiedevate come dare voce al disagio attraverso i giornali che fate, e che ovviamente hanno dei difetti e molti pregi. A me pare non sia questo il problema, ma è che non ci sono orecchie aperte per sentire, voi la voce ce l’avete, la date e non solo attraverso le riviste.

Come pensate che il disagio non abbia voce? Il disagio urla… questa è una società fatta di persone che stanno male, da qualsiasi punto di vista. La vignetta di cui ho accennato sopra corrisponde all’esperienza di vita di chiunque di noi, a qualsiasi classe sociale appartenga: cambiano i nomi delle sostanze, ma il disagio è uguale.

Voi conoscete molte persone che sono felici di vivere, che non stanno male, che non hanno gravi forme di disagio, che hanno un buon rapporto con le persone intorno? Io ne conosco un numero assolutamente piccolo. Quindi c’è un disagio evidente, che diventa un problema sanitario, e un altro, impalpabile, che però a volte prende delle forme pesanti.

Se Ristretti Orizzonti, L’Urlo, o qualcun altro viene a presentarlo, e se chi fa di mestiere il giornalista non se ne è accorto, i casi sono due: o ha delle enormi fette di salame sugli occhi, oppure non vuole farlo o non può farlo. Per cui tutto il dibattito sul disagio sociale è falsato da questo, prima che dalla scarsa informazione o dagli esempi che diceva Grazia Zuffa: il Resto del Carlino, o Repubblica, non hanno difficoltà a scoprire che i consumatori di eroina o cocaina non sono quelli che loro rappresentano, cioè i giovani emarginati.

E non devono andare a Napoli, basta che vadano dove funziona un servizio pubblico bene, cioè Reggio Emilia, e trovano tutti i dati che vogliono, anche su una struttura che prova in qualche modo a controllare questo fenomeno. Perché, allora, c’è questa immagine del giovane sfigato? Una ragione è ovvia, questi giovani sono colpevoli di tutto, da sempre, fin dai Babilonesi, e questo è un dato di fatto. L’altro è che una sostanza forte, come l’eroina, è diversa dalla rappresentazione che vediamo, dagli stereotipi che usiamo, per cui tante persone ci convivono e non necessariamente ci muoiono, e sono privilegiate perché hanno i soldi per farsi, per curarsi, etc.

Questi sono dati, non di Reggio Emilia o di Napoli, ma dell’Istat: la fascia di chi va ai Servizi è cresciuta di età e ci sono persone di ogni classe sociale, quindi perché continuate questa rappresentazione? Qui entriamo in un discorso socio-politico e qui mi fermo, perché non voglio essere cattivo.

 

Giuseppe Tassi (Resto del Carlino)

 

Concordo con il collega: le parole sono uguali per tutti? No! Dovrebbero esserlo, ma dipende anche da chi scrive, e credo che in materia di esclusione sociale, di povertà, di disagio vario, sia difficile parlare di testate e non parlare di singoli giornalisti. Credo che la sensibilità di chi scrive sia determinante in una testata o nell’altra, ma credo che il modo in cui si pone chi affronta il problema sia determinante su cosa poi viene scritto e poi, forse, anche su come viene letto dalle persone che sono direttamente interessate.

I colleghi di Piazza Grande recentemente hanno scritto una lettera aperta, che riguardava una collega del mio giornale, criticando il modo in cui era stato fatto un articolo. Io conosco la collega e la buona fede è garantita, però chi ha letto, chi si è visto rappresentato, si è trovato in qualche modo ferito nella dignità, addirittura si parlava di morbosità, etc… cosa che escludo, ma se c’è questa diversità di vedute probabilmente è un problema anche di chi e di come viene fatto il lavoro.

Si parlava di inchieste e di cronaca… è vero che noi siamo travolti dalla cronaca, un giornale che fa cronaca locale è alluvionato di notizie: ogni minuto, da fax, agenzie, televisioni, etc., e si è persa un poco l’abitudine di fare inchieste. Fare cronaca significa che io vengo catapultato in un luogo d’accoglienza, in un Ser.T., o un carcere, e in due ore devo capire cosa mi circonda, non avendo mai frequentato questi ambienti. Devo uscire con il giornale e avere la pretesa, o la presunzione, di raccontare ai miei lettori quello che ho visto. Se la persona raccontata da me si legge potrebbe trovare tante cose che non funzionano, proprio perché il mio modo di avere vissuto la sua realtà è assolutamente marginale e superficiale.

Sul carcere - non mi occupo di questo settore - servirebbe più informazione possibile, ritornare sull’argomento e possibilmente approfondirlo, dando anche diritto di replica: non per giustificare, ma perché argomenti come questo hanno bisogno di un approfondimento e di una conoscenza e vanno trattati con estremo garbo, perché c’è di mezzo la vita di tante persone. Spesso nelle cronache dei giornali vengono trattati con superficialità ma, ripeto, non sempre è così e credo che questo dipenda da noi, da chi fa questo lavoro. Poi ha ragione la collega, quando dice che porti in riunione di redazione certi argomenti e, tante volte, nessuno si preoccupa nemmeno di starti a sentire… e questo vale anche per colleghi di testate di sinistra.

Tutte queste cose non interessano il pubblico, o il pubblico non vuole vedere se stesso riflesso in certe cose, quindi preferisce non saperle, e comunque capisco che la difficoltà di affrontare certi argomenti è determinante. Io vi chiedo di riconoscere la buona fede di chi scrive, di chi fa il giornalista e si occupa di certi argomenti: non c’è la voglia di venire a introdursi, a spiare, e poi raccontare vojeuristicamente certe cose; c’è l’intenzione di raccontare delle realtà, di fotografarle e di dire che ci sono queste realtà di disagio.

Poi che non sempre l’articolo riesca bene mi pare evidente, ma nella maggior parte dei casi si cerca di fare del proprio meglio; qualche volta capiterà che sia determinante la conoscenza, ovvero le fonti, che sono l’ABC di chi fa questo mestiere, o dovrebbero quantomeno esserlo. Sarebbe interessante uno scambio di visite tra le nostre e le vostre redazioni, per discutere sui problemi e sulle cose che non vanno e anche sulle cose buone.

 

Mario Pasquale (Zero in condotta)

 

Questi giornali, Ristretti, Piazza Grande, L’Urlo, sono una grande occasione, danno voce a un disagio che altrimenti noi non vedremmo, non avremmo alcun modo di leggere, se non attraverso una visione in qualche modo esterna. Quindi questi giornali ci danno una dimensione del problema che è estremamente concreta e reale e, secondo me, anche preziosa.

Noi non dobbiamo tentare di mediare l’azione politica che c’è dietro questi giornali ma possiamo cercare, in qualche modo, di indirizzare la società verso un cambiamento di percezione di quello che è il disagio e di come va vissuto, perché non dimentichiamo che alla base di tutto c’è la mancanza di accoglienza.

Chi ha un disagio, dove trova accoglienza? Non all’interno delle strutture sociali "normali", ma spesso confinato nelle carceri, nei Ser.T., etc., negando delle esperienze come possono essere stati gli esperimenti, fatti in Svizzera, dove il somministrare in qualche modo delle sostanze è servito a restituire le persone ad una vita normale. Quindi noi, attraverso questi giornali, facciamo politica e non dobbiamo mai dimenticare che lo stiamo facendo. Ho letto due cose molto belle, una su Ristretti, su come stirare i pantaloni con la caffettiera, in un articolo bellissimo che vi consiglio di leggere, e un’intervista ad Eugenio Finardi, nell’Urlo, che è veramente eccellente.

Noi, come giornalisti grandi, o come coordinatori di questi giornali, dovremmo trasferire le regole del giornalismo a chi questi giornali li fa veramente, cioè ai detenuti, o a chi vive nell’ambito del disagio. Se vogliamo che questa società sia diversa dobbiamo partire, credo, proprio dal disagio e raccontarlo per cambiare, ma mi sembra che i percorsi siano dati un po’ per scontati, invece noi, attraverso un’azione politica, possiamo in qualche modo mutare anche i percorsi… questa forse è la cosa migliore che potremo tentare di fare.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

 

Grazia Zuffa, parlando degli spaccati di vita delle persone che vivono il disagio, mi ha fatto venire in mente che spesso sulle riviste che si occupano di questi problemi, anche con sensibilità, si trovano cose scritte da intellettuali per altri intellettuali; raramente capita di trovare articoli che si rivolgono alla gente "normale", o comunque a persone non già sensibilizzate o introdotte nel problema, per farglielo capire meglio. Il giornalismo a volte mi sembra diviso in due: chi non si occupa dei problemi sociali e chi, troppo spesso, ne parla con questi toni molto elevati.

Daniele Barbieri ha detto che il disagio urla, ma l’urlo è il contrario della comunicazione… l’urlo è una cosa istintiva, invece la comunicazione va cercata, va cercato il tuo interlocutore, non è sufficiente urlare dal mondo sociale, bisogna trovare il terreno d’incontro con chi non ti ascolta ancora, fargli capire che tu vivi vicino a lui e, in qualche maniera, conviene anche a lui se ti ascolta. Riguardo al problema delle fonti si può risolvere se voi stabilite una serie di collaborazioni, di interlocuzioni con degli operatori sociali… così sarebbe più semplice avere indicazioni precise sui temi del disagio. Noi con i giornali locali, a Padova, questo lo facciamo già abbastanza.

Infine un appunto anche per Mario Pasquale: i giornalisti grandi conoscono le regole del gioco… ma a volte sembra che queste regole non siano quelle giuste… dobbiamo accettarle come sono? possiamo metterle in discussione?

 

Mario Pasquale (Zero in condotta)

 

Le regole sono giuste, bisogna vedere chi le applica. Il problema, riguardo ai poveri, è che queste sono battaglie politiche all’interno delle quali io uso gli strumenti che ho: uno è il saper fare il giornalista, che è una professione artigianale, il saper scegliere le notizie, dove metterle e quando, perché comunque il giochino di dire leggo prima di qua o di là non è tanto sorpassato. Però queste conoscenze, questi strumenti, vanno usati all’interno di una battaglia politica.

Il media-attivismo ha cambiato il modo di fare informazione, perché rompe certe regole. Paradossalmente le regole che rompe sono quelle stesse che lo rendono efficace: è importante capire che, comunque, noi possiamo utilizzare le regole del giornalismo per fare la nostre battaglie, poi è chiaro che il Resto del Carlino fa politica, come la facciamo noi… non ci giriamo attorno.

 

Laura Mazza (Ladri di biciclette)

 

Con Mario Pasquale si parlava anche di percorsi. Una cosa che mi viene in mente è che a Venezia abbiamo fatto un grosso lavoro, all’interno di una struttura che serviva a creare un contatto tra la cronaca locale e le due testate giornalistiche del Gazzettino e della Nuova Venezia, per fare sì che il fatto di essere noi fonte d’informazione, ma anche come servizio sociale, permettesse una modifica nel modo in cui veniva fornita l’informazione.

Non soltanto per come costruire l’articolo di cronaca, un grosso lavoro è stato fatto anche sull’immagine: le fotografie che parlavano di tematiche inerenti i problemi di tossicodipendenza per un sacco di tempo sono state le famose siringhe per terra, le immagini di chi si buca, anche se magari l’argomento trattato nell’articolo era la comunità terapeutica.

Il tentativo è stato fatto in passato, ma con il tempo si è un poco arenato e, purtroppo, il fatto di avere mollato questo percorso ha fatto sì che l’ultimo anno sia stato fatto un passo indietro: questa estate ci sono stati degli articoli mostruosi sulla stampa locale, immagini che tornavano indietro di cinque o sei anni, rispetto al percorso fatto su come presentare l’informazione.

Io sono convinta che il modo con cui presenti l’informazione crea anche dell’immaginario, rispetto al fenomeno di cui parli, e noi stiamo parlando di problematiche che non sono quelle delle azioni di borsa, ma che fanno parte della povertà e della marginalità dei poveri. Penso che, da parte dell’operatore sociale, il tentativo deve essere quello di avvicinare l’informazione dei grandi, di creare dei percorsi, ma soprattutto una pratica costante, che permette, forse - ma credo sia tutto utopistico - di scalfire almeno in parte il modo in cui l’informazione viene fatta. Non sempre riesce, ma penso sia un buono strumento il fatto di dialogare con l’informazione ufficiale, piuttosto che semplicemente intervenire con lettere di critica su alcune informazioni che ci riguardano.

 

Massimiliano (Piazza Grande)

 

Questo collega del Resto del Carlino ha scritto un articolo sull’Isola che non c’è. Per chi non lo sa si tratta di una struttura container, in Via dell’Industria, dove vivono 20 - 25 ragazzi con i loro cani. Mi interessa ragionare sulla buona fede che ogni persona mette nel proprio lavoro: come dice il collega, noi abbiamo evidenziato il fatto che quella notte lì una struttura a Bologna ha dato - e non so quanti altri posti lo avrebbero fatto - un tetto a una persona.

Una volta dentro ha raccontato quello che succede… sicuramente la verità, c’erano persone che si facevano, c’erano storie di droga, non c’erano menzogne, ma davanti alla carenza dell’informazione che non può fare approfondimenti, dei dati che un quotidiano in breve tempo fa fatica ad avere, la cosa che ci ha infastidito è che spesso si sopperisce a questa mancanza con un romanzo della realtà.

Che bisogno c’è di raccontare che, mentre una ragazza si buca, il cane ulula alla luna perché non vuole… insomma, racconti di questo tipo. Per questo abbiamo parlato di morbosità e poi ci siamo collegati ad un altro avvenimento, abbastanza interessante: negli Stati Uniti, a Las Vegas, vengono venduti in internet dei video che parlano di persone senza dimora, di tossicodipendenti, che si strappano i denti con le tenaglie, etc., poi vengono pagate le cure.

Producono questi video, che poi vengono venduti a 50 dollari in internet. Così ci siamo detti: non è per caso che si va verso questa direzione? Probabilmente, se avessimo potuto parlare con questi ragazzi, che fanno di questi video, molto simili ad una pornografia che abbiamo chiamato dell’emarginazione… forse anche loro sono in buona fede!

 

Giuseppe Tassi (Resto del Carlino)

 

Intervengo solo per garantire che la collega ha la massima attenzione e il massimo rispetto anche nella scelta delle fotografie su certi argomenti, quindi mi sento di doverla difendere, perché è la collega che più, in assoluto, tratta certi temi.

 

Stefania Scarlatti (L’Urlo)

 

Anch’io voglio ritornare sul discorso dell’informazione, perché altrimenti non ha molto senso. Quell’episodio ci aiuta a generalizzare un discorso di confronto, per cui alcune cose che già uscivano come giornali di strada possono diventare risorse per le testate professionali e viceversa. L’esperienza di Venezia ci dice che si può fare, si può modificare, in qualche modo, con un dialogo, il fare opinione.

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti)

 

Io vorrei tornare sul fatto che il problema non è di dar voce a chi non ce l’ha, ma che non ci sono orecchie: vorrei discuterne, perché quando parli di carcere è veramente difficile farsi ascoltare, a volte però siamo noi che non riusciamo a trovare la chiave giusta per parlarne, perché non è che basti dar voce a chi non ce l’ha, non è solo questo, è come racconti, che cosa dici che conta.

In un Comune vicino a Padova è andato a lavorare un detenuto straniero in semilibertà: all’inizio c’era il rifiuto del paese; in seguito, attraverso un lavoro di coinvolgimento, questo detenuto è stato quasi adottato. Quelle orecchie che non c’erano si sono trovate.

Un altro problema, che avevo sollevato su "Vita", riguardava una ragazza molto giovane, bulgara, orfana e finita in carcere qui in Italia, che non ha mai avuto una famiglia: con la legge Bossi - Fini alla fine della pena doveva essere espulsa, per cui l’unica soluzione era che qualcuno la adottasse. Abbiamo avuto delle risposte da gente onesta, è un luogo comune che non si parli di carcere sui giornali. Se ne parla molto, però qui sorge un altro problema: che cosa facciamo, noi nel sociale, rispetto al carcere, quali sono le attività che promuoviamo? Quando facciamo uno spettacolo in carcere, i giornalisti vengono e le notizie escono, i giornali ne parlano.

A volte bisogna anche mettere in discussione la qualità dell’intervento sul sociale: io sono stufa che si facciano un sacco di queste cose, di cui i giornali parlano anche molto e poi, nella concretezza dei fatti, succede che uno esce in misura alternativa in stato di completo abbandono. Che ogni associazione, grande o piccola, investa moltissimo su tutte queste cose, le cosiddette attività ricreative per esempio, non dico che non sia importante, ma quanto meno dovrebbe essere fatto con costi inferiori: facciamo gli spettacoli perché è giusto, ma vediamo cosa si investe su una cosa o sull’altra.

Daniele Barbieri poi faceva vedere la tessera di Redattore Sociale, che cerca di fare come l’agenzia Ansa, ma con un’attenzione particolare alle notizie del sociale: possibile che noi giornali che ci occupiamo di queste realtà di disagio ed emarginazione non possiamo usufruirne gratuitamente? Possibile che queste agenzie di stampa siano a pagamento e noi non possiamo avere uno strumento fondamentale per migliorare la qualità dei nostri giornali?

Un’altra considerazione: quando si raccontano delle storie la testimonianza è importante, ma lo è anche la qualità della testimonianza stessa. La televisione è piena di testimonianze, ma io non voglio scendere a quel livello, però ho dovuto fare una battaglia nella mia redazione e delle discussioni feroci, perché passi l’idea che se tu ti racconti servono toni sobri, mentre si tende all’esagerazione, al vittimismo, oppure si usano toni più forti, credendo così di essere ascoltati di più. Insegnare la sobrietà del racconto di vita è fondamentale. Noi andiamo con i detenuti nelle scuole e vi assicuro che quando le persone raccontano le loro storie senza fare vittimismo, senza piangersi addosso, dicendo di scelte molte volte sbagliate e dicendo il perché di queste scelte, la gente ascolta.

I ragazzi stranieri, non è che sono sempre delle vittime, ce ne sono tanti che avevano una situazione regolare e hanno visto il loro compagno che si alzava a mezzogiorno e in un giorno guadagnava quello che loro guadagnavano in un mese: chi non avrebbe la tentazione di fare una vita diversa, di prendere delle scorciatoie?

Ma non possiamo nemmeno andare a raccontare solo le storie da piangere, che ci sono, ad esempio la donna che è in carcere, perché per la prima volta nella sua vita è arrivata con la pancia piena di ovuli, con un bambino in braccio, sperando di non attirare l’attenzione e viene arrestata… quella senz’altro è una storia di disagio e di disperazione, altre lo sono in modo diverso.

Quindi imparare a raccontarsi vuol dire anche imparare una capacità autocritica, cercare di vedersi, raccontarsi come si è davvero, di capire che è più efficace quello, che tutte le storie forzate, per attirare l’attenzione.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

 

Ricollegandomi a quello che ha detto Mario Pasquale, delle regole del gioco nel giornalismo, e a quello che ha detto Ornella, che quasi nessun quotidiano locale nega le venti righe agli spettacolini teatrali e concertini in carcere, aggiungo che questo è tragico, perché fa credere che l’unico aspetto che possa passare sui giornali sia quello del folclore o dello spettacolo. Il 3 ottobre, nel carcere di Livorno, è morto un giovane di 29 anni: la versione ufficiale è stata di decesso per cause naturali, ma la madre di questo ragazzo si presenta in televisione, dicendo che il corpo del figlio era pieno di lividi e si appella pubblicamente al Presidente della Repubblica Ciampi perché venga fatta chiarezza su quello che è successo… ebbene, nessun quotidiano pubblica due righe, a parte Liberazione, dove abbiamo trovato un trafiletto su questo episodio. Nessuno se n’è minimamente interessato, mentre per lo spettacolino teatrale venti righe non le negano mai… c’è qualcosa nelle regole che stona, non funziona.

 

Enrico (L’Urlo)

 

Mi ha colpito molto il discorso della buona fede, ma sappiamo tutti che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni… quando e quanto la buona fede può incidere nel lavoro di un giornalista? Lo sappiamo tutti che non è possibile dare un’informazione oggettiva, però il tentativo di dare il più possibile un ritratto di verità è spesso in competizione con le priorità politiche, soprattutto nelle grandi testate. C’è un’informazione che sostanzialmente rispecchia la buona fede e il desiderio di fare giornalismo corretto, ma c’è anche l’attenzione a non deludere quello che i propri lettori si aspettano dal punto di vista politico.

 

Mario Pasquale (Zero in condotta)

 

Torno sul tema dell’articolo del Resto del Carlino: pensate allo stato d’animo di questa giornalista, Rita Barbieri, lì tra gli hangar, che magari aveva visto per la prima volta: o fa uno scoop e trascorre un anno e mezzo negli hangar, magari senza capire che per delle persone quella è realtà di tutti i giorni... probabilmente la giornalista è presa da una realtà che in fondo non conosce, che oggettivamente stravolge. Chi va lì una volta, da giornalista, pure in incognito, vivrà anche un’esperienza emozionante, ma c’è gente che con le "pere" si incontra tutti i giorni.

Bisognava cercare di buttare il pezzo su delle sfumature, perché solo così non esce più la realtà del giornalista ed esce un po’ di più la realtà delle storie di ragazzi, che comunque rimangono dipendenti… chi sta là una sera invece no. In questo senso io credo che l’operazione del Resto del Carlino, aldilà della buona fede, alla quale io posso credere - perché conosco l’ambiente dove tutti sono convinti di essere dei grandi giornalisti - penso sia stata un’operazione sostanzialmente ed esclusivamente crudele.

 

Daniele Barbieri (Carta)

 

Io ho avuto questa tessera di Redattore Sociale come riconoscimento, per il lavoro fatto tanti anni fa e so che l’agenzia non fa omaggi alle testate come le vostre… e sbaglia. Se volete scrivo una lettera dicendo che dovrebbero farlo. Sul discorso che ha fatto Ornella, riguardo alle orecchie, sono abbastanza d’accordo, ma io parlavo soprattutto delle orecchie del sistema informativo: le orecchie delle persone sono più disponibili.

Francesco diceva che l’urlo non è forse un buon modo di comunicare, ma quello che io intendevo dire è che mi sorprende che i giornalisti continuino a rappresentare il disagio come una minoranza della società sana mentre, secondo me, è assolutamente l’opposto: siamo circondati dal malessere e il rappresentarci come un fortino assediato non capisco che senso abbia. Giornalisticamente questa è una società sovramedicalizzata e sovracriminalizzata, nel senso che vogliono far diventare tutto un reato. In che mondo vivono i giornalisti, o alcuni di loro… in isole felici, schizofreniche che io non conosco? Oppure, più o meno consapevolmente, mentono… ma in buona fede, come si dice!

Certo, ma anche i nazisti erano in buona fede. Io, come molti di voi, vivo con un piede in diverse realtà sociali, alcune più inserite, altre più emarginate, più disperate e mi riconosco un po’ dentro a tutte queste. Ma come giornalista, visto che osservo una società così, non mi sentirei mai di rappresentare una società diversa, in cui c’è una grande maggioranza di persone che sta bene, che c’è la famiglia, la bontà e poi c’è una minoranza di pervertiti, drogati, gay, etc.. Chi amministra ha questi dubbi? Tant’è che a sinistra si pensava che il referendum sul divorzio si sarebbe perso e invece no, si è vinto; anche sull’aborto si pensava di perdere… quello sulle cosiddette droghe si sarebbe perso e, invece, com’è finito?

Voglio toccare due punti sulle regole: i giornalisti hanno delle regole, se non ci piacciono le cambiamo, ma finché ci sono o dovremo rispettarle o dovremo fare pubblica obiezione di coscienza. Anche i giornalisti la possono fare: se il tuo capo ti ordina di fare una cosa che tu non condividi hai molti modi di fare obiezione di coscienza: il più semplice è di ritirare la firma… non so se lo sapete, ma quando vedete un articolo non firmato sui giornali vuol dire che il giornalista non si è riconosciuto nel titolo e nelle modifiche fatte dal suo capo e quindi ha ritirato la firma.

Dopodiché ci sono anche delle regole che noi non rispettiamo, per esempio abbiamo l’obbligo di non pubblicare il nome dei minori ma, come ben vedete, lo facciamo. Il problema non è il singolo, che può essere in buona fede, non è neanche il tentativo di essere onesti (difficilissimo), il problema è il contesto e, siccome fra sei giorni è venerdì 17, mi tocca spiegarvi l’importanza di questo giorno. Chi è amico mio e frequenta ogni tanto i dibattiti a cui partecipo, sa che faccio sempre esempi su questo giorno, scusate se vi annoio, ma è decisivo per capire come funzione l’informazione. Venerdì prossimo, secondo voi, è più probabile che succeda qualcosa di brutto o no? Tu dici no! Apprezzo il tuo scetticismo, ma naturalmente hai torto, nel senso che fino a che molte persone crederanno che venerdì 17 qualcosa di brutto può succedere, succederà.

Interessa il meccanismo comunicativo: se io mi slogo la caviglia in questo giorno lo racconterò sicuramente a mia moglie, vicini, amici, dicendo se ci credo, oppure dicendo: "Guarda che combinazione". Però lo racconto, a loro volta queste persone lo racconteranno in giro, dicendo: "Ma guarda che curioso". In qualunque tono, ma lo faranno. Il problema dell’informazione è esattamente questo: noi parliamo di tossici, di persone che fanno una malavita, e non si ha la percezione del fatto che la società è molto più complessa, perché gli viene raccontato solo questo.

Faccio l’esempio di uno dei crimini peggiori, la pedofilia: un industriale di Trieste fu beccato con le mani nel sacco, non solo era pedofilo ma nelle intercettazioni aveva chiesto un bambino su cui fare tutto, anche ammazzarlo. Quindi una notizia macabra, di quelle che piacciono a tutti i giornalisti. La stragrande maggioranza dei giornali scelse di non pubblicare il nome dell’industriale, visto anche che il Vescovo di Trieste chiese che di questo signore non se ne parlasse. Ma voi vi immaginate se capitasse a Bianchi Francesco, già pregiudicato per furtarelli!? Esempi così ve ne faccio quanti ne volete, questo è il meccanismo generale rispetto a cui dobbiamo ragionare.

Chi controlla politicamente le testate? Non sempre dietro c’è la politica, ma c’è anche l’economia. Non si capisce come mai un giornalista che ogni tanto scrive di questioni legate alle sostanze, o alla delinquenza, non usi le fonti che ha: i giornalisti di Repubblica, del "Carlino", o di altre testate, non sanno che esiste "Narcomafie"? Non sanno cosa dicono i rapporti delle Nazioni Unite su come si combattono i traffici di droga? Non sanno che esiste "Fuoriluogo"? Non sanno che esistono queste ricerche? Secondo me le conoscono, ma non le possono usare, il problema è questo. Non c’è tempo per ragionare su questo, però siamo consapevoli che non è un problema di buona o di cattiva fede. Poi ci sono delle persone che appartengono ad un mondo più o meno dorato e i giornalisti spesso vengono da mondi dorati, non gli capita di incontrare malagente e, quindi, sentono l’odore degli zingari, si schifano di quelli che si bucano… mentre le persone più normali non si schifano perché nella loro vita hanno queste esperienze, magari si schifano di più nel vedere quello che fanno i direttori di banca o altre persone, ma questo è un fatto solamente soggettivo.

Riguardo all’articolo del Resto del Carlino, non è bello che un giornalista si presenti in incognito per raccontare qualcosa, però proviamo a ragionare al contrario. Se uno di voi vuole raccontare come si comporta la polizia con gli immigrati in fila in questura… ci è giunta voce che li trattano male, allora andiamo a vedere… mi presento, mostro il tesserino, ma subito mi sorge il sospetto che qualcosa non vada: quella mattina i poliziotti sono calmi, squisiti, con la massima disponibilità… allora mi faccio crescere la barba lunga e vado a chiedere il permesso di soggiorno, così posso dare una rappresentazione più sincera di cosa succede quel giorno. Se la collega aveva quest’intenzione, lei ha fatto assolutamente il suo mestiere.

 

Operatrice sociale

 

Sono 15 anni che lavoro nel sociale, sono un’artista e una di quelle "famose" che fa concertini in carcere. Il punto della situazione è la cultura che deve avere un giornalista, come deve guardare, con che occhi deve conoscere la realtà… mi ha colpito molto quello che dicevate: mi catapultano in questo contesto e, in due ore, devo capire tutto e poi scrivere. Pure quello che diceva Francesco, che ci sono solo le notizie dei concertini: io ho pubblicato alcuni saggi e non sono andata molto lontana, perché dico solo la verità. Per scrivere non si può essere ignoranti, se so di essere una giornalista di cronaca, o una giornalista che parla di carcere, devo aver studiato questo contesto, prima di trovarmi catapultata all’interno della situazione senza riuscire a capirla.

Noi facciamo i concertini, ma del nostro lavoro emergono solo quelli mentre, in realtà, facciamo progetti di integrazione nel carcere: in questi concerti facciamo suonare insieme secondini e detenuti, che in quel momento non sono più "detenuti".

Poi è vero che ci sono attività fini a se stesse ed è chiaro anche che l’istituzione strumentalizza moltissimo queste attività. Come nel carcere di Bologna, dove tutte le persone che svolgono attività sono ostacolate dall’interno. Noi abbiamo fatto, per 6 anni, un laboratorio e ogni anno all’inizio non c’era spazio, non si potevano portare gli strumenti, ci trovavamo con ragazzi che venivano sempre coinvolti in attività parallele, in modo da creare confusione. Facciamo progetti musicali, di pittura, di composizione scritta, ma non siamo mai riusciti a pubblicare nulla di quello che hanno scritto i detenuti, come pure è impossibile portare fuori delle registrazioni delle loro produzioni, perché la struttura non dà il permesso. Scrivere è sicuramente un compito difficile, noi conosciamo le regole e c’è chi queste regole non le accetta, non le vuole, quindi conoscerle a cosa serve alla fine… o le applichi e quindi sfuggi, in qualche modo, ad una coscienza e a un bisogno di verità, oppure non le applichi e allora che differenza c’è tra chi le conosce e chi no? Chi scrive non si può permettere di essere ignorante, deve poter vedere quello che è l’intero contesto, quindi non il detenuto come singolo, deve vedere la struttura carceraria, non il detenuto, e che il disagio è nella struttura.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

 

Il problema che poneva Daniele Barbieri secondo me è inverso: non si tratta di arrivare a poter pubblicare il nome dell’industriale pedofilo, ma di saper autoregolamentarsi e non mettere in piazza nemmeno il nome della persona povera, che non conta niente. Facendo una ricerca sui suicidi in carcere ho notato che diverse di queste persone, morte suicide, erano accusate di pedofilia, non si sa se a ragione o torto, perché si sono ammazzate e il processo non si è più fatto, ma il loro nome messo sui giornali può averle indotte a suicidarsi. Ricorderete le liste di proscrizione pubblicate da Libero… non mi sembra siano cose molto civili, da parte dei giornalisti.

 

Grazia Zuffa (Fuoriluogo)

 

Volevo tornare ai giornali di strada. La prima cosa, importantissima, è che il raccontarsi dà identità e quindi acquista un significato anche aldilà di chi ascolta o no. La seconda questione è se questi giornali sono fonti d’informazione per la stampa dei cosiddetti grandi.

Noi abbiamo tenuto per diverso tempo due pagine con le Voci di strada e una rubrica di Voci dal carcere. Poi non ci è più riuscito, ma quello che noi facevamo era riflettere e valorizzare queste voci. È stato giustamente detto che i giornali sono strumenti politici: tutte le volte che ti proponi di "informare" l’opinione pubblica, il senso comune, questa è la politica per eccellenza. Questo è un tassello di un movimento davvero politico, dove ragionare sulle parole - che sono dei grandi strumenti - ha un significato. Prima si parlava di disagio e, giustamente, si diceva che disagiati lo siamo tutti, ma io vedo un’insidia nell’usare a larghe mani questo termine perché mi sa tanto di "politicamente corretto" e di patologizzazione delle problematiche sociali.

Alle volte mi verrebbe voglia di dire che forse le cose vanno chiamate con un nome: chi sta in carcere io so che è disagiato ma il principale problema è che è dietro le sbarre, ristretto nella libertà. Gli immigrati io non so se sono disagiati ma, sicuramente, la stragrande maggioranza sono poveri. Non so se sono disagiati quelli che si fanno male da soli. Tante volte non mi sembrano tali… a me dà fastidio tutto questo paternalismo, ogni persona sceglie se fare una vita ad alto rischio. A me verrebbe voglia di chiamare le cose con il loro nome, di inventare un modo un po’ più diretto e non così fumoso per parlarne.

 

Giuseppe Tassi (Resto del Carlino)

 

Una persona tossicodipendente, sieropositiva, ex detenuta, ha bisogno e pretende dai giornalisti "grandi" molto più rispetto di quello che quotidianamente ha, perché tutti quanti appartengono a queste categorie spesso sono trattati sui giornali da… lasciamo perdere. È difficile scrivere su L’Urlo dicendo delle cose e il giorno dopo leggere sul giornale "grande" altre cose, appena accennate, ma che lasciano intendere: "tanto era un drogato…". Bisogna avere anche un po’ di attenzione su come si danno le notizie!

Una redazione è divisa in settori e, normalmente, ognuno ha il suo e cerca di tenersi aggiornato e saperne il più possibile… almeno si dovrebbe fare così. C’è una vignetta, che pare giri nelle redazioni sensibilità e appartenenze politiche diverse. Naturalmente devono muoversi in modo da non sacrificare se stessi, ma io ho colleghi che hanno rifiutato promozioni e incarichi che andavano a confliggere con il proprio modo di pensare.

Tu hai la possibilità di contrattare, puoi rifiutarti, fino ad un certo punto, di scrivere certe cose e il pezzo viene appaltato ad un altro collega. Succede quasi quotidianamente di poter dire di no, altrimenti, ecco, c’è il ritiro della firma. Capita che in quel momento tu sia l’unico in redazione che ha il tempo per farlo e il direttore ti dice: lo fai, è previsto dal contratto. O dici "grazie" e te ne vai, ma se vuoi continuare a lavorare il contratto prevede che tu debba scrivere, però hai la garanzia di togliere la firma: nessun direttore, nessun editore può importi di firmare il pezzo.

Questo, ripeto, è soggettivo: c’è chi, in tutti i giornali, scrive quello che passa e butta dentro; c’è chi invece cerca di ragionare sulle cose, e trovi dei capi redattori che, a volte, ammorbidiscono la posizione iniziale proprio se tu riesci in qualche modo a dialogare, discutere su come un pezzo deve essere strutturato. L’opinione di un redattore magari confligge con il taglio e con la linea del giornale, poi sta a lui decidere se imporsi, rischiando di mettersi in cattiva luce, oppure stare zitto e scrivere "bene"… e la verità, pazienza!

Il lettore che conosce le forme nel tempo può capire che un certo giornalista è "obiettivo", corretto, allora il suo lavoro diventa credibile. Il direttore, l’editore, questi conti dovrebbe farli e non sempre li fa, ma secondo me una legalità di condotta paga. Certo, io scrivo cose che tu scriveresti in modo diverso, ma credo che se tu riconosci in questa firma, o in un’altra, una certa onestà di comportamento, poi possiamo litigare all’infinito su quello che scrivo, ma alla fine credo che il lettore riconosca chi cerca di combattere e di scrivere aprendo finestre il più possibile.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti)

 

Forse sarà banale ma io penso che la droga più diffusa - e anche quella che fa più male - non è la cannabis, o l’eroina, ma sono i soldi. Il carcere è pieno di gente drogata dai soldi… questa è una cosa da capire! Riguardo alla definizione del disagio possiamo usare anche altri termini: meno risorse a disposizione… culturali, sociali, economiche, però non cambia il fatto che chi esce dal carcere è quasi sempre nei guai: il carcere non aiuta a superare i disagi personali, ma li complica e li moltiplica, spesso chi esce non ha una casa dove andare, non ha soldi, è malmesso di salute, ha dei rapporti sociali disastrati, spesso ha anche problemi legati ad un precario equilibrio mentale, perché dopo alcuni anni di carcere non sai più se ragioni bene o male.

Riguardo all’informazione non so nemmeno io come si possa rappresentare bene questo insieme di problemi alle persone che non se ne occupano in maniera diretta. Ogni tanto sento al telefono un’amica che, uscita dal carcere, è agli arresti domiciliari e mi dice: non posso usare droghe perché mi controllano e se trasgredisco mi chiudono, non posso usare l’alcool perché ho problemi al fegato… con che cosa mi sballo? Questo è il suo disagio. Lei ha bisogno di sballarsi, per riuscire a vivere serenamente, ma questo come lo spieghi alle persone che non sanno che cos’è la dipendenza?

 

Operatrice sociale

 

Avere una dipendenza vuol dire avere relazioni "speciali": ovviamente se scegli di dipendere da una sostanza che ti porta alla morte hai una relazione speciale pericolosa, se invece scegli di dipendere da una persona hai sempre una relazione speciale, che però fa solo bene…

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti)

 

Tu hai usato il verbo "scegliere". Secondo me il disagio, in tutto questo discorso, si gioca lì, se uno "sceglie" oppure no. Lo dico sempre anche quando si discute nel nostro gruppo: bisogna vedere se uno sceglie consapevolmente, perché è quello che vuole e, volendo, avrebbe anche una scelta diversa. Il concetto di disagio non risponde senz’altro ad una realtà che è molto più complessa di come la facciamo di solito. Prima facevo l’esempio del contesto in cui noi lavoriamo, nel nostro caso il carcere, che è un contesto in cui si vedono chiaramente gli effetti della poca informazione: un conto infatti è la scelta, anche di commettere reati, di una persona che è informata, che sa delle cose, un conto è quella che non è una scelta ed è dettata semplicemente dalla povertà.

 

Mario Pasquale (Zero in condotta)

 

È ovvio che ci sono dei giornalisti bravi che cercano d’essere onesti in qualsiasi posto; è anche vero, però, che quello che conta è il risultato. C’è per esempio la certezza che fa molto più male l’alcool della marijuana, ma questa notizia in questo paese è censurata. Per quale ragione, se le varie forme del disagio sono così diffuse, l’informazione si ostina a chiamare merdoni solo quelli che sono costretti a vivere nella merda? Se uno vuol fare male a se stesso lo può fare, purché non danneggi gli altri. Però se c’è scritto "la legge è uguale per tutti", dovrebbe essere così, ma non lo è. Anche l’informazione dovrebbe essere uguale per tutti e non lo è, perché se una persona che vive in una situazione disagiata viene massacrata al primo errore e non gli viene data una seconda possibilità, chi è dall’altra parte (quasi sempre è anche la parte in cui stanno i giornalisti) ha la seconda, la terza e anche la quarta possibilità… anche perché l’informazione, sulle puttanate che fanno questi, non arriva, viene sistematicamente censurata. Quindi abbiamo una deformazione del mondo in cui viviamo, è questo il problema di fondo, che non riguarda la mia buona fede o la mia scarsa capacità di scrivere in italiano, o la sua ottima capacità di scrivere in italiano: riguarda il fatto che viviamo in un sistema pesantemente di classe. Questo è il problema dell’informazione, che riguarda il disagio e qualunque altra cosa. Negli ultimi anni, i poveri sono diventati più poveri e i ricchi più ricchi e hanno tutta l’intenzione di continuare così… nei trent’anni precedenti non era andata così.

 

Stefania Scarlatti (L’Urlo)

 

Il dibattito è stato ricchissimo e credo di poter parlare a nome di tutta la redazione dell’Urlo nel dire che siamo davvero molto contenti di questa giornata. C’è rimasto davvero qualcosa tra le mani, nel senso che volevamo organizzare tutt’altro e poi ci siamo ritrovati quasi inconsapevolmente con questa tavola rotonda sull’informazione e ne siamo ben contenti.

Eravamo partiti con l’idea d’incontrarci, prima della tavola rotonda, tra le redazioni di strada e la redazione del carcere per dirci "teniamoci in rete, scambiamoci tra noi le informazioni, gli articoli, e aiutiamoci a farci conoscere". Credo che, al termine di questa giornata, la richiesta di conoscenza reciproca si è allargata: se ad un certo punto ci siamo chiamati giornalisti "grandi" e "piccoli" adesso scopriamo che abbiamo davvero da imparare un po’ da tutti.

Sul discorso delle fonti ben venga se, anche a partire dal piccolo delle nostre realtà locali, riusciamo da oggi in avanti a poter chiamare il Resto del Carlino dicendo "avremmo delle cose da dire", senza bisogno di lettere aperte di denuncia. E, viceversa, poter ricevere una telefonata da un qualunque giornale che ci dice: "saremmo curiosi di saperne di più". Speriamo che succeda. Ci auguriamo di riuscire, anche nel tempo, a mantenere degli impegni sul tema dell’informazione che si possano ripetere e ampliare. Ringraziamo veramente tutti quelli che hanno partecipato per la disponibilità e tutte le cose che ci avete raccontato, che ci sono molto utili.

 

 

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