Carlo Mele

 

Giornata di studi "Carcere: non lavorare stanca"

9 maggio 2003 - Casa di Reclusione di Padova

 

 

Carlo Mele, della Caritas italiana

 

Io qui rappresento don Giancarlo Perego, che per motivi personali non può essere presente. Vi parlerò quindi di due aspetti: il primo è il progetto della Caritas italiana su "Carcere e lavoro" e il secondo è relativo all’esperienza della Chiesa di Avellino, che da un ventennio è impegnata in questo disagio specifico.

La Chiesa italiana si è data, da qualche anno, il carcere come priorità e, per il carcere, investe chiedendo alle Chiese locali di progettare e programmare. Ogni anno la Caritas italiana, dai fondi dell’8 per mille, quindi dai fondi della C.E.I., impegna sul carcere circa un miliardo e mezzo delle vecchie lire per finanziare progetti di Chiese locali, in particolare sul discorso del lavoro. Tra l’anno scorso e quest’anno la Caritas italiana ha dato circa 3 miliardi, suddividendoli tra il Consorzio "Nova Spes" di Milano, la Caritas di Perugia e la Caritas di Avellino, che quest’anno ha ricevuto 560.000 euro per mettere in realizzazione il suo Progetto Lavoro.

L’esperienza della Chiesa avellinese con il carcere si è basata, soprattutto all’inizio, su persone che svolgevano, all’interno dell’istituto di Bellizzi Irpino, attività per collegare il carcere con il territorio, cioè creare le condizioni perché una comunità, cristiana e laica, si adoperasse per accogliere e reinserire persone che escono dal carcere.

Questo progetto nel corso degli anni è un po’ cambiato: partendo da un’iniziale attività di ascolto, cioè noi andavamo nel carcere per condividere un dialogo con i detenuti, per portare loro quella che è l’esperienza esterna, si è passati a un’attività di accoglienza, cioè rendendoci disponibili ad accogliere dei detenuti all’esterno, per permessi, per affidamenti, per tutte le misure alternative possibili. Si è cercato soprattutto di venire incontro a delle persone che avevano i requisiti per poter uscire e non avevano altro posto dove andare.

Il passo successivo è stato quello dell’accompagnamento, cioè di rendersi garanti di un cammino e di stare insieme a delle persone che avevano bisogno comunque di essere supportate, anche per un breve periodo.

L’ultimo anello è il lavoro. La Chiesa avellinese ha investito in questo, la Diocesi ha dato un grosso appezzamento di terra, una cooperativa ha progettato alcuni interventi che andavano fatti e, da quest’anno, come ho detto, grazie al finanziamento della Caritas italiana, potremo lanciare questo progetto di inserimento lavorativo.

Per chiudere, io ricordo che ho fatto il volontario all’interno del carcere per tre anni e ho vissuto un momento bellissimo della mia vita quando ho visto agenti e detenuti lavorare assieme. Perché vi dico questo: è chiaro che gli organi istituzionali hanno un grosso senso di responsabilità, e credere in un progetto significa farlo condividere a tutti. Non si può entrare dentro e pensare di imporre quello che è il nostro pensiero, però se questo anello lo riusciamo a chiudere diventa possibile vedere agenti e detenuti assieme nei tanti laboratori che c’erano nell’istituto: c’era una falegnameria, c’era un fabbro, c’era una sartoria, io stesso mi sono fatto aggiustare la macchina all’interno dell’istituto.

Sono occasioni possibili, sono occasioni soprattutto per impegnare, per dare delle professionalità a delle persone che, al momento dell’uscita dal carcere, possono così trovare delle occasioni concrete di lavoro. La nostra esperienza di vent’anni ci dice che questo è il passo: investire in un progetto, farlo vivere, farci lavorare tutti assieme e avere la possibilità che il territorio, gli industriali, si sentano incoraggiati a dare delle risposte.

 

 

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