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Conformazione della pena e dei suoi effetti ai principi costituzionali
La finalità di risocializzazione e riabilitazione da situazioni di devianza dell’esecuzione penale è chiaramente affermata dalla Costituzione, ribadita nelle articolazioni concrete dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale: sui vedano, in particolare le sentenze 204/74, 343/87 e 282/89. A tali principi si attiene l’Ordinamento penitenziario, in particolare con lo strumento delle misure alternative alla detenzione. Queste favoriscono la utilizzazione della fase della esecuzione penale come momento di concreta progettazione ed attuazione dell’inserimento sociale del condannato ed in modo specifico del suo inserimento lavorativo. Il riconoscimento e l’attuazione di tali principi è ormai proprio della esecuzione della pena, riferendoci alla pena principale ed in particolare alla pena detentiva. Per la pena nel suo complesso andrebbe anche sottolineata la necessità della sua "congruenza" rispetto alle proprie finalità, qualità che viene affermata in un’altra sentenza costituzionale, la n° 313/90, che ha portato alla modifica dell’art. 444 del C.p.p. (di recente ulteriormente modificato e non pare nel rispetto della sentenza ora citata), nella parte in cui richiedeva che, in caso di patteggiamento sulla pena, la stessa debba essere "congrua", ovvero adeguata ai fini propri della pena medesima. Ciò che viene richiesto non è solo l’obbligo di "congruenza" circa l’entità minima della pena, ma anche quello sulla entità massima, che non può essere tale da rimettere ad un futuro incerto e remoto la possibilità di orientare la esecuzione penale alla progettazione e allo sviluppo di percorsi di riabilitazione e di inclusione sociale. Si tratta, comunque, di un punto che ci si limita a segnalare, richiedendo, per una proposta di modifica normativa, una sede più vasta di quella attuale. Questo aspetto riguarda, comunque, la pena nel suo complesso. Ma, come si è accennato, il lavoro che si ritiene necessario affrontare qui riguarda tutti gli aspetti ed effetti ulteriori della pena, sui quali la legislazione vigente attende una verifica costituzionale: in proposito non vi è stato un impegno adeguato o, meglio, per molti aspetti, non vi è stato impegno alcuno. Non è stata, infatti, compiuta una adeguata ricognizione di tutte quelle disposizioni penali e amministrative che, generalmente alla conclusione della pena e quando, sovente, i percorsi di risocializzazione e riabilitazione sono avviati o conclusi, impediscono un regolare svolgimento di questi o il mantenimento dei risultati raggiunti: sul versante dell’inserimento lavorativo, ma, come si vedrà, anche su altri versanti e soprattutto sulla esigenza essenziale di pervenire ad una situazione definita e definitiva, nella quale la esecuzione della pena e i suoi effetti si possano ritenere conclusi. Sinteticamente: la esecuzione della pena, nel regime attuale, tende a non finire mai. Le indicazioni che seguono colgono i punti critici più rilevanti, che non pretendono di essere gli unici, e costruiscono delle soluzioni normative che non appaiono irragionevoli, ma, al contrario, riparano alcune irrazionalità che la normativa attuale presenta. Su questo ci soffermeremo nelle brevi relazioni concernenti i singoli punti dell’intervento proposto.
Relazione introduttiva
L’esecuzione della pena pecuniaria è uno dei punti che pongono particolari problemi nella fase conclusiva della espiazione. Va anche ricordato che molti dei condannati sono tossicodipendenti e che, per i reati commessi in violazione delle leggi relative (D.P.R. 309/90), si applicano pene molto elevate e che tali sono, in particolare, quelle pecuniarie. L’effettivo pagamento di tali pene è assolutamente infrequente, specie quando le stesse sono molto consistenti: e ciò per la buona ragione che i destinatari sono sovente in pessime condizioni economiche. È poi particolarmente dannoso il sistema che consegue all’inevitabile mancato pagamento: dannoso anche per gli effetti che produce nella sfera di relazioni del soggetto. In primo luogo, il tempo della procedura di esecuzione è del tutto imprevedibile. È questo un aspetto che contribuisce alla incertezza sulla conclusione della espiazione e lascia il condannato in una situazione precaria, che non contribuisce alla sua ricerca di soluzioni di inserimento costruttive e definitive. In secondo luogo, il ricorso alla esecuzione forzata, quando arriverà, porta al condannato: precetto e pignoramento di quanto sia pignorabile, in danno generalmente della famiglia del condannato, presso la quale questi è rientrato al termine della pena detentiva . E, inoltre, quando l’esecuzione forzata conferma che non c’è da pagare nulla, arriva, anche questa con tempi imprevisti e imprevedibili, la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, sanzione sostitutiva particolarmente pesante e di durata notevole (data la entità delle pene, fino ad un anno o, in caso di concorso di pene, ad un anno e mezzo), che trova, fra l’altro, applicazione dopo la esecuzione della pena detentiva, anche se si sia trattato di esecuzione in misura alternativa, e quando, pertanto, il processo di riabilitazione è ormai avviato o già concluso. Per evitare queste conseguenze, si tratta di modificare, per certi aspetti anche radicalmente, il sistema e pare ragionevole distinguere fra coloro che hanno concluso la espiazione della pena detentiva in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale e coloro che l’hanno, invece, conclusa in altra misura alternativa o con la espiazione effettiva in carcere. Se è vero che ciò può creare una situazione di disparità, si può osservare: da un lato che questa deriva dal regime diverso attuato in passato (e cioè dalla prassi seguita per molti anni di ritenere estinta la pena pecuniaria a seguito dell’esito positivo della prova in misura alternativa) e che, comunque, la stessa può essere spiegata con la natura maggiormente responsabilizzante e, quindi, più impegnativa, delle due misure alternative che verranno a fruire della soluzione più favorevole.
Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale
Relazione specifica
Il testo del comma 12 dell’art. 47 della L. 26.07.1975, n° 354, è stato a lungo interpretato, da una parte dei magistrati di sorveglianza ed anche dagli uffici della esecuzione penale, nel senso che l’esito positivo della prova in misura alternativa estingueva la pena nella sua interezza, compresa la pena pecuniaria: la cessazione degli effetti penali pareva ribadire tale conclusione. La Corte di Cassazione, dopo decisioni contrastanti, è pervenuta ad una giurisprudenza contraria, in base alla quale si ritiene che l’esito positivo della prova estingue soltanto la pena detentiva, in quanto la normativa sull’affidamento non fa mai riferimento alla pena pecuniaria. Anche la estinzione degli effetti penali si limiterebbe, pertanto, a quelli ricollegabili alla pena detentiva. La soluzione qui adottata è quella che ha avuto lunghi anni di applicazione, e che sembra anche più logica rispetto al testo della norma. È apparso necessario, comunque, rendere esplicita, per superare la giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’effetto della estinzione della pena pecuniaria. L’aggiunta, nel testo che segue, della estinzione delle pene accessorie è spiegato, più oltre, nella parte riservata alle pene accessorie (si tratta, come si vedrà di una puntuale applicazione dell’art. 20 C.p.). Analoga modifica è da praticare nel comma 2 dell’art. 177 C.p.: il problema interpretativo è lo stesso e richiede analoga soluzione. La modifica del testo del comma 2 dell’art. 177 C. p., propone un ulteriore problema interpretativo sulla revoca delle misure di sicurezza, esplicita in tale norma, ma assente nella normativa sull’affidamento in prova. Si parlerà di questo nella parte che riguarda, appunto, le misure di sicurezza.
Modifiche normative
L’ultimo comma dell’art. 47 della L. 26.07.1975, n° 354 è sostituito dal seguente: "L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena nella sua interezza, compresa la pena pecuniaria, le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna."
Il comma 2 dell’art. 177 C.p. è sostituito dal seguente: "Decorso tutto il tempo della pena inflitta, ovvero cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale, se trattasi di condannato all’ergastolo, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca, sono estinti la pena nella sua interezza, compresa la pena pecuniaria, le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna e sono revocate le misure di sicurezza personali, ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo."
Esecuzione della pena conclusa in misura alternativa della semilibertà e della detenzione domiciliare, compresa la detenzione domiciliare speciale, nonché in effettiva espiazione della pena in carcere
Relazione specifica
Come si è accennato, nei casi ora indicati, non vi è spazio ad una soluzione analoga a quella adottata sub A) e si è anche cercato di indicare le ragioni che giustificano questa differenza di trattamento. Comunque, si realizza una serie di interventi che pongono rimedio agli inconvenienti più gravi del regime attuale. Gli interventi sono di procedura e di sostanza. Gli interventi procedurali cercano semplificare le procedure e, se possibile, di mettere a punto un sistema, rimesso alla iniziativa degli interessati, che sa in grado di eliminare i tempi morti e la lunga durata delle procedure di esecuzione e di conversione nel trattamento sanzionatorio sostitutivo, con allungamento, in larga misura imprevedibile, del periodo conclusivo di espiazione. Gli interventi sostanziali affrontano il problema della conversione delle pene pecuaniarie insolute, sempre rimasto aperto, perché la soluzione della L. 689/81 può suscitare, attraverso la esperienza della concreta applicazione, qualche perplessità. Per gli interventi procedurali, la fase attuale è particolarmente travagliata. Vi è stata una modifica legislativa della competenza del magistrato di sorveglianza con attribuzione della stessa al giudice della esecuzione. Una recentissima sentenza costituzionale ha ritenuto incostituzionale questo passaggio di competenza, facendo pertanto rivivere quella del magistrato di sorveglianza. Il punto è particolarmente delicato, così che merita un esame a parte, che si svolgerà nella conclusione di questa Parte prima. E veniamo agli interventi sostanziali. Due sono gli aspetti non persuasivi, specie nell’ottica del presente progetto, nella legislazione introdotta dalla L. 689/81: il primo è rappresentato dal trattamento sanzionatorio conseguente alla conversione: la sanzione sostitutiva della libertà controllata (art. 102 della legge citata); il secondo è che, in caso di violazione delle prescrizioni della libertà controllata, il residuo di tale sanzione è convertito in un periodo uguale alla pena detentiva corrispondente alla pena pecuniaria inflitta. Si ritorna, pertanto, alla fine, ancora al trattamento sanzionatorio definitivo. Si tratta di ritornare alla sentenza n° 131/79 della Corte Costituzionale, che dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 136 C.p., che prevedeva che la pena pecuniaria non pagata per insolvenza del condannato venisse convertita, secondo un criterio dato di ragguaglio, nella pena detentiva corrispondente. Osservava la Corte: "La conversione della pena pecuniaria in detentiva alla stregua della normativa vigente, finisce infatti per attuarsi soltanto a carico dei nullatenenti, dei soggetti, cioè, costretti alla solitudine di una miseria che preclude anche ogni solidarietà economica e reca, perciò, l’impronta inconfondibile di una discriminazione fondata sulle condizioni personali e sociali, la cui illegittimità è apertamente, letteralmente, proclamata dall’art. 3 Cost.." Nell’altra decisione n° 108/87, la Corte precisava che "la sentenza 131/79 (sopra citata) non ha ritenuta illegittima ogni forma di conversione di pena pecuniaria, bensì ha indicato un bilanciamento di valori costituzionali in cui il rilievo preminente del principio di eguaglianza rispetto a quello di inderogabilità della pena impone di agevolare l’adempimento della pena pecuniaria e comunque di prevedere misure sostitutive che riducano al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto all’originaria sanzione, che, pertanto, non rappresenta un ritorno alla previgente disciplina, ritenuta illegittima con la citata sentenza n° 131/79." Da queste premesse, si può pervenire alle seguenti conclusioni. La Corte non ha ritenuto incostituzionale il regime di conversione della pena pecuniaria previsto dalla L. 689/81. Ciò non toglie che si possa trovare una soluzione diversa, dopo avere verificato, nella esperienza applicativa della legge, che si può realizzare in modo più soddisfacente il rispetto dei principi relativi alla esecuzione della pena, specie di quei principi, richiamati nella relazione introduttiva, sulla finalità risocializzativa che la pena nel suo complesso non deve mai perdere di vista. La pena pecuniaria colpisce le disponibilità patrimoniali di una persona, esercitando un effetto dissuasivo circa il comportamento antigiuridico posto in essere. Quando la persona è priva di disponibilità patrimoniali, il meccanismo non può funzionare ed, allora, si è ritenuto costituzionalmente legittimo di agire ancora su ciò che una tale persona ha comunque: la propria libertà. Era incostituzionale una limitazione drastica di tale libertà quale veniva posta in essere con la conversione in pena detentiva, ma si poteva arrivare a restrizioni della libertà di tipo non detentivo ed, in ultima istanza, e quando non si rispettavano quelle restrizioni, anche a restrizioni della libertà di tipo detentivo. Due osservazioni sono, però, da fare a sostegno di una risposta diversa rispetto a quella della L. 689/81. La prima osservazione è ricavata dalla sentenza costituzionale n° 108/87, sopra citata, nella quale si legge che le misure sostitutive da prevedere, in caso di insolvenza del condannato, devono essere tali da "ridurre al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto alla originaria sanzione". La seconda osservazione è che la esperienza applicativa della soluzione della L. 689/91 dimostra che la "riduzione al minimo del margine di maggiore afflittività" può essere raggiunta in modo più soddisfacente di quanto non sia stato fatto e in modo più coerente alla espiazione complessiva della pena e alle sue finalità. L’applicazione della libertà controllata anche per periodi non brevi (fino a un anno o un anno e mezzo), con tutte le limitazioni che comporta, protrae ancora le conseguenze della condanna e limita le possibilità di movimento, di fruizione di occasioni di lavoro e di inserimento, di sistemazione dei regimi di vita. Chi può pagare e paga la pena pecuniaria non deve affrontare nulla di tutto questo. Chi non può, invece, subirà la libertà controllata e, se non rispetterà le prescrizioni della libertà controllata, vedrà riproporsi alla fine la conversione in pena detentiva. Questa ultima e più grave conseguenza può suggerire di cambiare completamente la risposta normativa al mancato pagamento per insolvibilità. L’art. 108, comma 1, in fine, prevede che la pena detentiva (in conversione dalla libertà controllata) può essere eseguita in misura alternativa alla pena detentiva. La soluzione che qui si propone è allora questa: di mettere al principio ciò che qui si prevede solo alla fine: di scegliere, cioè, per il trattamento sanzionatorio sostitutivo alla pena pecuniaria, non una sanzione sostitutiva, come la libertà controllata, ma la misura alternativa più classica e operativa, che è l’affidamento in prova al servizio sociale; misura la cui capacità costruttiva e riabilitativa è del tutto coerente con la misura alternativa fruita per la esecuzione della pena detentiva (semilibertà, ad es.) o fornisce una opportunità di inserimento e socializzazione che la espiazione della pena in carcere non ha offerto. Questa soluzione presenta, fra l’altro, un indubbio vantaggio: risolve i problemi posti dalla coesistenza di due trattamenti sanzionatori molto dissimili, come erano la libertà controllata e il lavoro sostitutivo. La sentenza costituzionale 206/96 aveva dichiarato incostituzionale il comma 2 dell’art. 102 della L. 689/81, che limitava la ammissibilità del lavoro sostitutivo alle pene pecuniarie non superiori al milione. Non essendo intervenuta alcuna modifica legislativa, le condizioni esecutive del lavoro sostitutivo restavano fissate entro il limite massimo di sessanta giorni, con la prestazione di almeno una giornata lavorativa settimanale, senza alcuno degli obblighi e degli effetti che l’art. 56 della L. 689/81 fissava per la libertà controllata. La differenza fra le due misure sanzionatorie era stridente e la scelta dell’una o dell’altra era molto legata all’impegno del magistrato di sorveglianza decidente nel ricercare, accettare e costruire, nell’assenza di concreti indirizzi generali, la ipotesi del lavoro sostitutivo. Quindi, poteva capitare, per la stessa pena pecuniaria di avere un anno e mezzo di libertà controllata, con tutti gli obblighi capillari e i pesanti effetti previsti (sospensione della patente, ritiro passaporto o documento equipollente) o sessanta giorni di lavoro sostitutivo, senza obblighi, né effetti. La soluzione qui indicata supera questa situazione di scarsa equità. Si aggiunga che, essendo il lavoro sostitutivo previsto in una fase successiva e a richiesta dell’interessato, lo stesso restava, comunque, misura abbastanza eccezionale e discrezionale. Fatto questo rilievo, ci si sofferma su due chiarimenti ed una precisazione finale. I chiarimenti. Il primo è che è conveniente abbandonare un ragguaglio puramente aritmetico fra entità della pena pecuniaria e entità della misura alternativa: è preferibile un ragguaglio a scaglioni, che esclude durate minime irrisorie e improduttive e limita comunque le durate massime previste oggi per la libertà controllata. Il secondo chiarimento è che la violazione delle prescrizioni dell’affidamento in prova deve trovare una risposta nello stesso regime, anche se eventualmente aggravato. È un punto delicato, che si è cercato di risolvere nel modo più appropriato. Qui non si tratta tanto, come è previsto nell’art. 47, di verificare se la prova in affidamento ha avuto "esito positivo", quanto se la stessa, per le restrizioni alla libertà del soggetto, gli impegni posti allo stesso e la sua complessiva risposta alle prescrizioni, abbia posto in essere quel "margine di maggiore afflittività… rispetto alla originaria sanzione", che, pur se "ridotto al minimo", deve inerire al trattamento sanzionatorio sostitutivo (le parti fra virgolette appartengono alla sentenza costituzionale 108/87, già citata). Si ripete allora, da parte del magistrato di sorveglianza, al termine del periodo di affidamento in prova, quel giudizio e quella conclusione, affermati nella sentenza costituzionale 343/87, sulla rideterminazione del trattamento sanzionatorio da attuare quando la prova non sia stata positiva: solo che il criterio di valutazione sarà abbastanza diverso (quello sopra indicato) e la conseguenza non sarà la rideterminazione di una pena detentiva residua, ma ancora un periodo di affidamento, sia pure con un rafforzamento delle prescrizioni. La precisazione finale. Fra le prescrizioni può essere inserita quella relativa allo svolgimento di attività di volontariato o di lavori socialmente utili: può rappresentare, ove occorra, un recupero di quella finalità riparativa, in senso ampio, che può essere attribuita alla pena pecuniaria e che, nel caso dell’insolvente, non può essere compiuta. Infine, va ricordato che le modifiche sono operate sul testo normativo originario del C.p.p., che ha ripreso a valere dopo la sentenza costituzionale n° 212/2003, che ha ritenuto costituzionalmente illegittime le modifiche apportate al testo originario dell’art. 660 C.p.p. e dell’altra normativa connessa.
Parte conclusiva della relazione specifica sugli aspetti procedurali. Due questioni attuali: competenza sulla conversione della pena pecuniaria insoluta e semplificazione delle procedure.
La sentenza costituzionale 212/2003 ha dichiarato la incostituzionalità "degli artt. 237, 238 e 299 – quest’ultimo nella parte in cui abroga l’art. 660 C.p.p. – del d.lgs. 30/5/2002, n° 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia). È pertanto venuta meno la disciplina ora detta nella parte in cui disponeva il passaggio della competenza alla conversione delle pene pecuniarie (nel trattamento sanzionatorio sostitutivo) dalla magistratura di sorveglianza al giudice della esecuzione. Alla base di questi interventi normativi c’è la difficoltà dei diversi uffici di accettare la gestione di una materia molto problematica, come quella della conversione delle pene pecuniarie insolute e dei trattamenti sanzionatori sostitutivi conseguenti. Materia, fra l’altro, per certi versi, rischiosa, dato che gli uffici ispettivi ministeriali avanzano la tesi che il danno da intervenuta prescrizione della pena pecuniaria sia da addebitare ai funzionari che gestiscono le procedure relative e che dovrebbero pertanto rispondere per l’ammontare delle pene pecuniarie insolute (tesi peregrina, se si vuole, dato che la prescrizione riguarda crediti dello Stato pervenuti alla fase della conversione proprio per la insolvibilità dei debitori; tesi, pur sempre, non meno allarmante, data l’autorità amministrativa da cui proviene). Si noti che la dimensione del lavoro è molto notevole, con un forte carico processuale e burocratico, frutto di una giurisdizionalizzazione esasperata e sovente improduttiva. La scelta che si ritiene di dovere operare è questa: mantenere la competenza della magistratura di sorveglianza, cui si è ora tornati, con il recupero dell’art. 660 C.p.p. (a seguito della sentenza costituzionale ora citata), ma snellire gli interventi, lasciando pur sempre aperto il ricorso a tutte le garanzie utili, liberando l’attività dal carico burocratico che soffoca gli uffici, senza alcun vantaggio reale del servizio e degli stessi destinatari del medesimo.
Una risposta efficace alla situazione e ai problemi che pone passa, pertanto, attraverso questi punti:
È utile un approfondimento dei singoli punti indicati.
La conversione operata dal pubblico ministero
Si noti che è il passaggio, ex art. 660 C.p.p, di tale competenza al magistrato di sorveglianza, che ha aggravato moltissimo la situazione. Nella vigenza dell’art. 107 della L. 689/91, il P.M. trasmetteva il provvedimento di conversione già effettuato: il magistrato di sorveglianza doveva soltanto, come nel caso di sanzione sostitutiva data in sentenza, stabilire le concrete modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva. Si può rilevare:
Si ritiene che, ritornando al sistema di cui al citato art. 107 della L. 689/81, riconfermando al P.M. la competenza alla conversione, si torni alla soluzione più pratica e che tale soluzione non violi in alcun modo le ragionevoli garanzie del condannato. Questa modifica, è da realizzare attraverso una modifica del comma 2 dell’art. 660, il quale potrà fare riferimento al contenuto della conversione indicato nell’art. 102 della L. 689/81, oggetto delle modifiche indicate nelle pagine precedenti. Ovviamente, come accadeva per la libertà controllata, il pubblico ministero dovrà soltanto indicare la misura dell’affidamento in prova secondo le precise indicazioni normative. La specifica delle prescrizioni apparterrà alla competenza del magistrato di sorveglianza.
Intervenuta la conversione da parte del pubblico ministero, la competenza per le attività ulteriori è del magistrato di sorveglianza
La competenza della magistratura di sorveglianza in merito alla applicazione concreta delle sanzioni sostitutive e, si noti, anche alla loro esecuzione concreta, è apparsa, nella L. 689/81, una scelta sistematica, che individuava, nella magistratura di sorveglianza, quella che doveva affrontare, per le sue caratteristiche, tutte le questioni che attenevano alla concreta esecuzione della pena. Questo vale, in particolare, per la concreta applicazione delle sanzioni sostitutive (fra le quali c’è anche la semidetenzione, che comporta, fra l’altro, anche il riferimento a norme penitenziarie: v. ultimo comma art. 55 L. 689/81); e vale, inoltre, anche per la fase esecutiva (cioè, per la gestione operativa) di tutte le sanzioni sostitutive, sia da sentenza che da conversione di pene pecuniarie. Se tale è il giudice naturale sulla concreta applicazione delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza, lo stesso non può non esserlo nel caso di applicazione successiva in conversione di pena pecuniaria non pagata. È chiaro che, per converso, appare ben definita la competenza del giudice della esecuzione quando è in giuoco la valutazione del titolo di esecuzione; la commistione, a tale competenza sul titolo, di quella sulla concreta esecuzione della sanzione sembra fuori sistema. In sostanza: nella materia in esame la competenza del magistrato appare quella più logica e naturale, mentre non è così per il giudice dell’esecuzione. Va aggiunto che, il giudice, in materia, affronta problemi che sono inconsueti per il giudice della esecuzione e che, sul piano pratico, possono anche essere di difficile gestione per il giudice della esecuzione. Così, la definizione delle prescrizioni delle sanzioni, che comporta, attraverso la acquisizione della conoscenza delle situazioni di inserimento socio - lavorativo degli interessati, decisioni analoghe a quelle consuete del magistrato di sorveglianza, ma profondamente eterogenee rispetto a quelle del giudice della esecuzione. Così, ancora, le decisioni in materia di modificazioni urgenti delle prescrizioni, che pongono problemi gestionali della attività, consueti per la magistratura di sorveglianza e inconsueti per i giudici della esecuzione. E così, infine, tutti gli interventi valutativi sull’andamento del trattamento sanzionatorio sostitutivo, così come previsto nelle modifiche che si sono proposte, interventi che non possono non essere del magistrato di sorveglianza, naturale gestore di tale trattamento, e che non possono che essere estranee al giudice della esecuzione. Conclusione: dopo la conversione della pena pecuniaria operata dal pubblico ministero, la competenza per le attività successive è tutta del magistrato di sorveglianza: sia per la rateizzazione e di differimento della esecuzione; sia per la definizione delle prescrizioni dell’affidamento in prova sostitutivo della pena pecuniaria; sia, infine, per la fase della concreta esecuzione dello stesso. Il rinnovato testo dell’art. 660 C.p.p. e degli articoli rilevanti della L. 689/81 indicherà tutto questo.
La semplificazione della procedura
Tutto l’intervento del Magistrato di sorveglianza in sede di concreta applicazione delle sanzioni sostitutive e di modifica delle stesse, è giurisdizionalizzato: v. art. 678, con riferimento all’art. 666 C.p.p.. Per vero, anche di tali garanzie giurisdizionali, si potrebbe fare a meno nei termini attuali, attraverso un sistema basato su un provvedimento senza formalità, da adottare sentito l’interessato, con la previsione di una giurisdizionalizzazione eventuale, attraverso una opposizione con incidente di esecuzione presso il magistrato di sorveglianza. Il termine per la opposizione deve essere breve e la stessa deve avere efficacia sospensiva. A sostegno di questa soluzione, si può osservare:
Su questo ultimo punto, si ritiene, però, di non modificare l’art. 64 citato, che resta come è, per la esecuzione delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza in quanto non si ritiene di modificare tale normativa, come precisato immeditamente di seguito, al punto 4. In materia di conversione delle pene pecuniarie si prenderà atto di quanto ora osservato e si prevederà un intervento assolutamente semplificato.
La procedura abbreviata rimessa all’iniziativa del condannato
La semplificazione procedurali rende possibili tempi più brevi di esecuzione. Ma tali tempi possono continuare a non essere prevedibili e a rimettere in discussione, quando l’intervento giudiziario si concreta, situazioni personali e familiari che, dopo la esecuzione della pena detentiva, sembravano consolidarsi. Si parla anche di situazioni familiari perché l’esecuzione forzata colpisce in particolare modo la famiglia, che ha riaccolto il congiunto condannato, e che vede attaccate le proprie, generalmente molto modeste, disponibilità patrimoniali. È parso, allora, utile, per rendere meno critico il percorso del condannato finalizzato a chiudere il percorso esecutivo penale, di prevedere, con la sua iniziativa, l’accesso diretto ad una decisione del magistrato di sorveglianza: "saltando", per un verso, la fase iniziale della esecuzione e chiedendo l’accertamento giudiziario che la definisca. Anche questa possibilità trova posto nelle modifiche normative che seguono.
La permanenza del sistema processuale attuale per la esecuzione delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza
Le sanzioni sostitutive applicate in sentenza sono in numero limitato. Per le stesse non vi è alcuna possibilità di modificare la sanzione sostitutiva, in quanto la stessa è fissata dalla sentenza. La materia ha pertanto una sua autonomia e non può essere che rischiosa la commistione con i problemi della materia della conversione delle pene pecuniarie che abbiamo esaminato sin qui. Nessuna modifica, pertanto, per questa parte.
Si tratta ora di trarre dalle pagine che precedono le modifiche normative conseguenti.
Modifiche normative
L’art. 660 C.p.p. è sostituito dal seguente:
Articolo 660 (Esecuzione delle pene pecuniarie)
L’art. 678 C.p.p. è sostituito dal seguente:
Articolo 678 (Procedimento di sorveglianza)
L’art. 102 della L. 24.11.1981, n° 689 è sostituito dal seguente:
Articolo 102 (Conversione di pene pecuniarie)
Le pene della multa e dell’ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato si convertono, ai sensi articolo 660 C.p.p., nell’affidamento in prova al servizio sociale, di cui all’art. 47 della L. 26/7/1975, n° 354, per i seguenti periodi:
Il condannato può sempre fare cessare l’esecuzione della pena convertita pagando la multa o l’ammenda, dedotta la somma proporzionalmente corrispondente alla parte della pena convertita già eseguita, proporzione da operare rispetto alla entità di questa, fissata in sede di conversione.
Gli articoli 103 e 105 sono soppressi.
L’art. 107 è sostituito dal seguente:
Articolo 107 (Contenuto provvedimento ammissione)
L’art. 108 è sostituito dal seguente:
Articolo 108 (Inosservanza delle prescrizioni)
Relazione introduttiva
Vi sono due aspetti negativi nelle pene accessorie. Rispetto al fine che si considera dell’inserimento sociale e in particolare di quello lavorativo, vi sono due aspetti negativi discendenti dalle pene accessorie. Il primo aspetto è che tali sanzioni sono incapacitanti, riducono o limitano, cioè, le possibilità del condannato di accedere a determinate attività o di svolgerle. Il secondo aspetto negativo è che le pene accessorie vanno eseguite al termine dell’esecuzione della pena principale, proprio nel momento, cioè, in cui si deve attuare o si deve consolidare, se già avviato, il problema dell’inserimento sociale e in specie di quello lavorativo della persona. Anche qui , richiamando in linea generale quanto detto per le pene pecuniarie, possiamo considerare separatamente i casi di coloro che sono stati ammessi all’affidamento in prova e alla liberazione condizionale e li hanno conclusi positivamente dai casi di coloro che hanno espiato la pena in misura alternativa diversa o in carcere senza ammissione a misure alternative.
Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale
Relazione specifica
Al proposito, si deve indicare un argomento decisivo di carattere testuale e sistematico. L’art. 20 C. p. dispone: "Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa." Ora, il testo attuale dell’ultimo comma dell’art. 47 sull’affidamento in prova al servizio sociale dispone testualmente che "l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale". Pertanto, non vi è dubbio che, quali effetti penali, siano soggette ad estinzione anche le pene accessorie. Analogamente a quanto si è detto per le pene pecuniarie, la soluzione indicata per l’affidamento in prova vale anche per la liberazione condizionale, il cui contesto interpretativo, come si è osservato per le pene pecuniarie, è molto simile a quello dell’affidamento in prova e consente analoghe conclusioni. D’altronde, si può osservare che una misura casuale e generalizzata come il condono della pena principale, anche se parziale, comporta, il venire meno delle pene accessorie: quantomeno nei provvedimenti di condono recenti, anche se la regola dell’art. 174, comma 1, C.p., è opposta. È utile ricordare che l’ultimo comma dell’art. 47 dell’Ordinamento penitenziario si applica anche all’affidamento in prova in casi particolari: v, comma 6 dell’art. 94 D.P.R. 309/90. Restano estinte pertanto anche le pene accessorie eventualmente applicate ai sensi art. 85 del DPR predetto.
Modifiche normative
È sufficiente ripetere qui le modifiche normative predisposte per la pena pecuniaria. Le stesse già prevedevano l’effetto estintivo anche per le pene accessorie. Riportiamo quelle modifiche nella sua completezza qui di seguito.
Relazione specifica
Se non vi è stata ammissione a misure alternative, occorrerebbe pensare a soluzioni diverse. Il discorso va preliminarmente chiarito prima di dare indicazioni sulle soluzioni. Le pene accessorie particolarmente problematiche, ai nostri fini, sono due fra quelle previste in generale dal Codice penale, nonché quelle previste per le violazioni delle previsioni penali del D.P.R. 309/90 (Legge stupefacenti). E cioè:
Si possono solo sottolineare sommariamente gli effetti specifici di tali sanzioni ai fini che interessano.
L’interdizione dai pubblici uffici
Ci si sofferma su un aspetto di tale pena accessoria: sull’effettivo contenuto del n° 2 dell’art. 28 C.p.. Interpretata correttamente, tale norma non preclude la assunzione presso pubbliche amministrazioni per attività lavorative che comportano semplici mansioni d’ordine o prestazioni d’opera meramente materiali. Basta al riguardo, leggere, come è necessario, la norma citata alla luce di quanto disposto dal comma 2 dell’art. 358, C.p., che dispone: "Per pubblico servizio deve intendersi una attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale." È indubbio, pertanto, che le attività ora indicate non sono affatto precluse dalla pena accessoria in questione. Si noti che vi sono amministrazioni comunali che prevedevano l’assunzione di detenuti come netturbino o operatore ecologico in genere o come inserviente in servizi sanitari e simili. Al riguardo, però, molte amministrazioni ritengono precluse le assunzioni dall’interdizione dai pubblici uffici. Si è creata, quindi, una situazione di incertezza interpretativa che va chiarita con un’esplicita previsione di modifica dell’art. 28. Si noti che la possibilità di tali inserimenti lavorativi è uno strumento prezioso per avviare o anche concludere l’inserimento sociale di una persona.
La interdizione legale
La stessa preclude tutte quelle attività che presuppongono il compimento di atti giuridici: che possono andare da uno specifico atto contrattuale per la costituzione di un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo, alla partecipazione ad atti, come la costituzione di una società, particolarmente di una società cooperativa, che possono porre le condizioni per un successivo inserimento lavorativo. Quindi, anche questa pena accessoria certamente non agevola, ma più spesso ostacola il percorso di reinserimento del condannato nella società. Qui si tratta di riflettere sulla ammissibilità della incapacitazione della persona nell’ambito sociale (sembra presente una carica antica di messa al bando del colpevole), che risulta segnata da una filosofia di esclusione sociale del condannato, propria di una concezione della pena esattamente opposta a quella oggi affermata dalla Corte costituzionale. Si noti che qui non vi è un nesso specifico con il reato commesso, ma soltanto con la pena irrogata. Si ritiene che, dinanzi a tale norma, l’unico intervento possibile sia quello della soppressione. Nulla vieta, invece che sopravvivano le interdizioni specifiche previste dagli artt. da 32 bis a 32 quinquies, che hanno contenuto limitato e sono giustificate dai particolari reati commessi.
Le pene accessorie dell’art. 85 del D.P.R. 309/90 (Legge stupefacenti): divieto di espatrio e ritiro della patente di guida
Le pene accessorie in esame hanno l’effetto di ridurre le opportunità di lavoro dei soggetti sanzionati. Il divieto di espatrio impedisce non solo il lavoro all’estero (ed è una possibilità tutt’altro che irrilevante), ma anche il lavoro in Italia che preveda lo svolgimento di prestazioni all’estero (caso dell’autotrasporto, della navigazione, di lavori comunque che si svolgano alle dipendenze di imprese italiane, ma in parte o in toto all’estero). Il ritiro della patente di guida è un handicap assoluto o relativo: assoluto nelle attività di lavoro in cui la patente è necessaria e relativo in tutte quelle in cui l’uso della stessa è più o meno indispensabile per raggiungere il luogo di lavoro. Non disporre della patente di guida è oggi una forma di grave incapacitazione della persona: è chiaro che la sanzione è stata voluta, in ragione dei suoi effetti dissuasivi, proprio per questo, ma è anche chiaro che, per il risultato incapacitante che produce e, in particolare, per il ritardo nel tempo di produzione dello stesso (alla fine della pena principale), tale sanzione ostacola e riduce fortemente le possibilità di inserimento al lavoro. C’è anche da chiedersi quale efficacia abbiano tali interventi nei confronti del condannato: non sarà certo ostacolato se intenda tornare a delinquere, mentre sarà ostacolato se intenda seguire un percorso di riabilitazione e di lavoro. Teniamo conto che il tutto avverrebbe quando si è ormai conclusa l’esecuzione delle parti restanti della pena e, quindi, il condannato ha pagato il suo debito con la giustizia. Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere forme di disapplicazione di tali norme, rimesse eventualmente ad un provvedimento dell’A.G. che, previo accertamento della sua situazione attuale, agevoli il processo di inserimento sociale e lavorativo in corso del condannato. Potrebbero essere previste forme di sospensione e successiva revoca, una volta verificato l’uso corretto che è stato fatto della sospensione della sanzione. Si ritiene, però, che sia preferibile la soluzione più netta della soppressione di tali pene accessorie, proprio in considerazione delle ragioni di questa disposizione normativa: che sono quelle di fare pesare la condanna, di non farne perdere il ricordo, di perseguire ancora il condannato dopo che la parte essenziale della condanna è stata sofferta. Tuttociò, come detto fin dalla relazione generale, è contrario alla nuova finalizzazione della pena affermata dalla Corte Costituzionale e la risposta più logica a tali pene accessorie è quella della loro soppressione.
Le modifiche normative
Nell’art. 28 C.p., dopo l’ultimo comma è aggiunto il seguente:
"L’interdizione dai pubblici uffici non preclude lo svolgimento presso amministrazioni pubbliche di semplici mansioni d’ordine, nonchè la prestazione d’opera meramente materiale: tali attività non sono un pubblico servizio."
L’art. 32 del C.p. è abrogato.
I commi 1 e 2 dell’art. 85 del D.P.R. 9.10.1990, n° 309, sono abrogati.
Le spese di giustizia e la remissione del debito
Relazione specifica
Da sempre è noto che l’attività necessaria per la riscossione delle spese di giustizia ha un costo decisamente superiore ai ricavi. In questa materia, inizialmente, nei lavori di preparazione per l’Ordinamento penitenziario vi erano state proposte di abolizione del debito del condannato per le spese. Questa soluzione radicale, però, è contrastata anche dal nuovo C.p.p., che, in epoca meno lontana, ha confermato tutte le disposizioni in materia di condanna alle spese. Siamo dinanzi a una questione che non dovrebbe essere abbandonata, ma indubbiamente questa non è la sede per affrontarla. È invece la sede per cercare di ridurre l’impatto negativo del sistema attuale di esazione delle spese processuali e del beneficio della remissione del debito, che può annullarle. Anche qui si hanno esecuzioni in tempi imprevedibili, con gli stessi effetti negativi che caratterizzano la messa in esecuzione delle pene pecuniarie. Risultano, comunque, possibili, tre interventi che favoriscono la semplificazione degli accertamenti in merito ai requisiti richiesti per la concessione della remissione del debito e favoriscono anche tempi più celeri nelle decisioni. Il primo riguarda il requisito delle "disagiate condizioni economiche", sul quale gli accertamenti non sono semplici e che, aggiungo, è fonte di notevoli eterogeneità di valutazione e decisione. Al riguardo si può contestualizzare meglio la situazione, ricordando che la gran parte dei casi riguarda soggetti che non versano in condizioni economiche agiate. I redditi dei condannati sono generalmente medio-bassi ed è raro trovare persone con cespiti patrimoniali immobiliari. Tutto si gioca pertanto sulla valutazione di questi redditi medio-bassi come tali da determinare o meno le situazioni economiche disagiate richieste dalla normativa attuale. In tali situazioni il punto di vista del decidente è decisivo. Se la pena non è molto modesta, si tratta di decidere che un’ulteriore riduzione di redditi medio-bassi per pagare una pena pecuniaria possa essere affermata anche se incida su quote essenziali del reddito, utili per soddisfare indispensabili esigenze di vita. La conclusione è che tale requisito può essere eliminato. Tale eliminazione fa recuperare, d’altronde, la natura sostanzialmente premiale del beneficio, che si basa sulla regolarità della condotta, con la finalità di incoraggiare la stessa, finalità che esiste per tutti coloro che sono sottoposti alla esecuzione di una pena, quali che siano le loro condizioni economiche. Il secondo intervento riguarda l’altra condizione, attinente, alla regolarità della condotta: si tratta di definire un parametro valutativo di più semplice e significativo accertamento. Si noti che, con sentenza n° 342/91, la Corte costituzionale ha dichiarato "l’illegittimità costituzionale (dell’art. 56 Ordinamento penitenziario) nella parte in cui non prevede che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, al condannato possano essere rimesse le spese del procedimento se, in presenza del presupposto delle disagiate condizioni economiche, abbia serbato in libertà una condotta regolare". Per quest’aspetto, pertanto, l’art. 56 deve essere necessariamente modificato. Si può allora proporre una modifica che riguardi tutte le situazioni e che semplifica e al tempo stesso rende più significativi gli accertamenti sulla regolare condotta. L’attuale normativa richiede che gli accertamenti siano compiuti con riferimento alla specifica esecuzione penale che ha dato origine al debito e ai connessi periodi di detenzione, il che comporta:
Tali accertamenti non sono semplici. Sarebbe più agevole e più logico, sempre nel quadro della premialità dell’istituto e della stimolazione alla regolare condotta, il richiamarsi all’attualità di questa. Non sarebbe necessario accertare i periodi di detenzione risalenti e la regolarità di condotta negli stessi, ma il tutto potrebbe essere riferito alla sola situazione attuale. Tale criterio rispecchia anche le indicazioni della sentenza costituzionale citata, sia pure circoscrivendo (ma rendendo così più agevole l’accertamento) il periodo di tempo di riferimento. Sarà bene chiarire che la regolarità della condotta fa riferimento alla finalizzazione della stessa al reinserimento nell’ambito sociale. Terzo ed ultimo intervento. È indubbio, a mio avviso, che, la proposizione dell’istanza richiede un’unica condizione: la condanna al pagamento delle spese. Non si deve ritenere necessaria anche la liquidazione e la richiesta di pagamento del debito, che, fra altro, arriva sovente con moltissimo ritardo: si tratta di evitare l’effetto "spada di Damocle", che pende, pende e cade poi nel momento meno opportuno. Per la remissione del debito può essere mantenuto la procedura a giurisdizionalizzazione piena oggi prevista.
Modifiche normative
"L’art. 56 della L. 26/7/1975, n° 354 è sostituito dal seguente:
Articolo 56 (Remissione del debito)
Relazione introduttiva
Si deve chiarire che ci si riferisce qui alle sole misure di sicurezza nei confronti di soggetti imputabili, che si aggiungono, quindi, alla pena e che sono eseguite al termine della stessa. Questo discorso non coinvolge pertanto la misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Anche tali trattamenti penali hanno un effetto negativo sui processi d’inserimento sociale e in particolare su quello lavorativo: sia per gli effetti limitativi della libertà e delle possibilità di spostamento delle persone, sia per le conseguenze giuridiche che si possono accompagnare alla sottoposizione alla misura di sicurezza. Ricordiamo che il ventaglio di tali misure è ampio: ci sono quelle generali, che possono essere detentive o non detentive e sono elencate dall’art. 215 C.p., e quelle previste da normative speciali, come l’espulsione dello straniero dallo Stato, prevista dall’art. 86 T.U. 309/90 (legge stupefacenti).
Una premessa
Affermata la utilizzazione della pena in funzione di riabilitazione e risocializzazione, prevista la sua conclusione attraverso misure alternative alla detenzione per dare concretezza a quella funzione, ci si chiede che senso abbia prevedere, al termine della esecuzione, la possibilità di una permanente valutazione di pericolosità sociale nei confronti di un soggetto e la applicazione di una misura di sicurezza. Certo, è possibile che, nei confronti di chi abbia dato scarse prove di risocializzazione nel corso della pena, un giudizio di pericolosità possa essere mantenuto, ma parrebbe che il c.d. doppio binario - pena + misura di sicurezza - previsto dal Codice Rocco, non sia in sintonia con la sempre più marcata sottolineatura della funzione rieducativa della pena, affermata dalla Corte Costituzionale. Per altro verso, quella parte della teoria penalistica che non condivide la sottolineatura ora detta della funzione rieducativa della pena e la connessa flessibilità della stessa attraverso un sistema di misure alternative in sede esecutiva, e che afferma un ritorno alla concezione classica della pena certa e immodificabile, anche se nel quadro di un diritto penale minimo nelle incriminazioni e nelle pene, non può non contestare la previsione di un ulteriore trattamento penale, per giunta indeterminato nella sua durata, quale quello delle misure di sicurezza. In conclusione: il sistema delle misure di sicurezza dovrebbe avere fatto il suo tempo. Tanto è vero che i progetti di riforma del codice penale (Progetto di legge delega per un nuovo codice penale, predisposto presso il Ministero di grazia e giustizia, c. d. bozza Pagliaro, aggiornato, negli anni più recenti, dai lavori della Commissione Grosso e disegno di legge per la sostituzione del I° libro del Codice penale, presentato da Ritz e altri, nelle legislature scorse), ne prevedono la soppressione. Resta, in sostanza, la sola misura di sicurezza nei confronti di soggetti non imputabili: l’ospedale psichiatrico giudiziario o equivalente. La prima soluzione del problema è dunque quella ora accennata: sopprimere le misure di sicurezza nei confronti dei soggetti imputabili. Può essere una soluzione non immediata, ma è ormai quella che sembra largamente accettata. Sono possibili ovviamente soluzioni più immediate e di minore respiro, che sono quelle che si propongono qui. Al proposito, conviene distinguere, ancora una volta, fra i casi in cui la pena è stata eseguita o quantomeno si è conclusa in misura alternativa alla detenzione e i casi in cui ciò non è avvenuto.
Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale
Relazione specifica
La situazione è diversa nei due casi indicati. Nella liberazione condizionale il problema è già risolto dall’art. 177, comma 2, C.p, che dispone: "Decorso tutto il tempo della pena inflitta, ovvero cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale, se trattasi di condannato all’ergastolo, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca, la pena rimane estinta e sono revocate le misure di sicurezza personali, ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo." Di questo testo è stata proposta la modifica nelle pagine che precedono per chiarire che la estinzione della pena investe anche la pena pecuniaria e le pene accessorie. Ma quanto alle misure di sicurezza, lo stesso è già pienamente in linea con quanto sopra sostenuto. Diverso il discorso per l’affidamento in prova, anche se la soluzione normativa per la liberazione condizionale, risalente fra l’altro, ad anni lontani, indica chiaramente che la stessa soluzione può essere adottata per l’affidamento in prova. Secondo alcuni interpreti questa è già la conclusione da trarre col testo vigente, anche se l’art. 47 dell’Ordinamento penitenziario non la esplicita. Va, in effetti, ricordato, che il testo originario dell’art. 47, al comma 1, prevedeva che, quando alla pena seguiva una misura di sicurezza detentiva, l’affidamento in prova era inammissibile. Tale previsione è venuta meno con le modifiche della L. 10.10.1986, n° 663. L’affidamento in prova è quindi ritenuto compatibile con la applicazione di una misura di sicurezza detentiva. E se la prova della misura alternativa ha esito positivo, la logica vuole che l’indicazione di pericolosità sociale, insita nella applicazione della misura di sicurezza, perda completamente rilevanza. A questo punto, tenendo conto che, con le successive modifiche in materia d’effettiva esecuzione delle misure di sicurezza, introdotte dagli artt. 658 e 679 C.p.p., occorrerebbe comunque un accertamento di pericolosità sociale attuale del soggetto per applicare la misura di sicurezza, sembra di dovere concludere che, conclusa positivamente la prova in affidamento al servizio sociale, la misura di sicurezza non sia da eseguire. Si ritiene, però, che sia opportuno rendere esplicita questa conclusione, aggiungendo all’ultimo comma dell’art. 47, già modificato nelle pagine che precedono, la stessa parte conclusiva dell’art. 177, comma 2, C.P..
Modifiche normative
L’ultimo comma dell’art. 47 della L. 26.07.1975, n° 354, calcolate anche le modifiche già previste nella parte I e II, è sostituito dal seguente: "L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena nella sua interezza, compresa la pena pecuniaria, le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna. Sono inoltre revocate le misure di sicurezza personali, ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo."
Esecuzione della pena conclusa in semilibertà o in detenzione domiciliare, anche in detenzione domiciliare speciale, o in esecuzione in carcere.
Relazione specifica
È indubbio che, nei casi ora in esame, il sistema attuale esclude ogni automatismo, così che la applicazione della misura di sicurezza si ricollega ad una valutazione di pericolosità sociale attuale, che viene operata dal magistrato di sorveglianza, come previsto dagli artt. 658 e 679 C.p.p., già richiamati. È utile, comunque, sottolineare la esigenza di un accertamento di pericolosità particolarmente completo quando la pena si è conclusa di recente e vi è stata la regolare fruizione di semilibertà o di detenzione domiciliare o, almeno, vi è stata, durante la esecuzione in carcere, la regolare fruizione della riduzione pena per liberazione anticipata o dei permessi-premio o del lavoro all’esterno. Nel caso, comunque, che la misura di sicurezza abbia esecuzione, si dovrebbero porre in evidenza due punti essenziali. Il primo è che l’esecuzione della misura dovrebbe recuperare le finalità di reinserimento che non hanno avuto attuazione nella esecuzione della pena. Se la misura di sicurezza è detentiva e la pericolosità sociale non venisse esclusa, il magistrato di sorveglianza decidente può richiamare la necessità della utilizzazione del periodo detentivo della misura di sicurezza per offrire, all’internato da parte degli operatori, occasioni di inserimento sociale. Se la misura di sicurezza non è detentiva, le prescrizioni di questa devono essere finalizzate a non ostacolare in alcun modo l’eventuale svolgimento di un’attività di lavoro. Deve essere, d’altronde, possibile allo stesso magistrato che dispone la esecuzione della misura di sicurezza di disapplicare quelle norme che comunque ostacolino lo svolgimento di attività lavorative durante lo svolgimento delle misure: ci si riferisce alle norme che determinano il mancato rilascio o la revoca della patente di guida (sempre che non se ne attui la abrogazione, come indicato più oltre) o altre norme che ricollegano alla applicazione delle misure di sicurezza conseguenze limitative della possibilità di inserimento e svolgimento di attività di lavoro da parte dell’interessato.
Modifiche normative
Nell’art. 679 C.p.p., dopo il comma 1, sono aggiunti i seguenti:
Effetti penali ed extrapenali della condanna Disposizioni di agevolazione all’inserimento lavorativo
Relazione specifica
Alle condanne si ricollegano una serie di conseguenze aventi caratteristiche diverse, ma che, sovente limitano le possibilità di inserimento lavorativo degli interessati. Un primo problema è quello degli effetti penali. Per questi, si è già detto che, nei casi di esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale, gli effetti penali della condanna si estinguono. Se ne trova una applicazione, indubbiamente rilevante, nell’art. 106 C.p., che dispone: "Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena". "Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali." E abbiamo veduto che le due misure alternative alla detenzione citate, estinguono, appunto, gli effetti penali: pertanto, quelli di cui all’art. 106 non si produrranno per le pene che hanno fruito delle misure stesse. Si ritiene che non si possa andare al di là di questo intervento, già compreso e chiarito in modo più esauriente con le modifiche, proposte nelle parti precedenti, dell’art. 47 dell’Ordinamento penitenziario e dell’art. 177 C.p., nel testo vigente. Per gli effetti penali, pertanto, non sembra si possa proporre altro. Ma vi è poi il problema degli effetti delle normative non penali, discendenti come conseguenza da condanne penali o, in genere, da provvedimenti penali, come la dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato o la applicazione di misure di sicurezza. Un primo rilievo è questo: non si possono avere soluzioni diverse a seconda del diverso regime della esecuzione penale: quali che siano le misure alternative fruite o se le stesse non siano state fruite affatto, gli effetti e i problemi relativi sono identici. Per tali effetti, il problema non è tanto quello di individuarli nella varia legislazione in materia, in cui sono dispersi, ma è, invece, quello di coglierne le conseguenze negative sull’inserimento sociale e, in particolare, su quello lavorativo delle persone e di individuare uno strumento che possa impedire tali conseguenze. A puro titolo esemplificativo, certamente sommario e non esaustivo, possiamo indicare una breve casistica di tali effetti extrapenali:
Possiamo individuare due tipi d’interventi
In primo luogo, occorrerebbe effettuare una ricognizione delle singole disposizioni a contenuto ostativo, alcune delle quali possono esser ragionevoli, mentre altre non lo sono affatto. In sostanza, in sede di ricognizione, una parte di tali disposizioni dovrebbero venire meno, perché ormai ingiustificate. In presenza di una pena che ha mutato natura e che deve essere volta alla riabilitazione e al reinserimento sociale del condannato, la presenza di norme che ostacolano il suo inserimento sociale impone una ricognizione e verifica della loro compatibilità con le nuove finalità della pena stessa. Fra normative che si ritiene debbano essere soppresse, se ne può, senz’altro, individuare una ed è quella relativa "ai requisiti morali per ottenere il rilascio della patente di guida", richiesti dall’art. 120 del Codice della strada. Parlare di requisiti "morali" sembra decisamente improprio. Sia perché, per il rilascio e la conservazione della patente, servono requisiti fisici e psichici, sulla cui verifica tutti gli accertamenti sono legittimi. Parlare di requisiti morali, definiti d’altronde, con esclusivo riferimento alla storia giudiziaria di una persona, sembra davvero fuori luogo. Il discorso, comunque, è semplice: la patente di autorizzazione alla guida di auto e motoveicoli è uno strumento usuale nella vita delle persone; escludere da questo strumento è una forma di incapacitazione della persona, che ha riflesso sulle sue normali possibilità di vita, sul suo inserimento sociale e particolarmente su quello lavorativo. La patente di guida degli auto e motoveicoli è materia del ministero dei trasporti, aprire anche a valutazioni del ministero degli interni, come accade con la normativa in questione, è un modo improprio di affrontare la questione: aprendo ad una possibile gestione di polizia (con gli abusi abbastanza inevitabili) le valutazioni e i pareri da cui può dipendere il rilascio della patente. Questa normativa deve, pertanto, essere soppressa. Possiamo, però, prevedere anche un intervento più modesto della soppressione delle normative in questione. Si può introdurre nell’Ordinamento penitenziario una disposizione che rimetta a un organo giudiziario, che può essere sempre quello che segue la concreta esecuzione della pena, cioè il magistrato di sorveglianza, la concessione di un nulla osta perché nei singoli casi, a seguito di idonea verifica, possa non tenersi conto della normativa ostativa. Questo non vincola l’organo competente ad adottare una data decisione, ma gli consente di non tenere conto della preclusione stabilita dalla legge. Ed è logico che il nulla osta al superamento della preclusione venga espresso dal magistrato di sorveglianza, che, essendo l’organo che segue la esecuzione della pena, può esprimere una valutazione adeguata al riguardo. Anche qui si può distinguere fra i casi in cui la pena è stata eseguita o conclusa in misura alternativa, nei quali il nulla osta di cui si è parlato può essere più scontato, e i casi in cui la pena è stata eseguita senza momenti alternativi alla detenzione. In tutti i casi, comunque, il rilascio del nulla osta da parte del magistrato di sorveglianza va rimesso ad una sua verifica, tramite accertamenti del servizio sociale e, ove occorra, anche di polizia, che verifichino la reale utilità dell’intervento nel processo di inserimento sociale e lavorativo del soggetto. Per vicinanza di tema, è utile inserire, qui, anche alcune riflessioni ed interventi per introdurre disposizioni positive di agevolazione all’inserimento lavorativo. Il tema è strettamente legato, per la sua finalizzazione, a quello esaminato fin qui.
Si mettono in evidenza tre questioni
La prima è quella dei cittadini stranieri sottoposti ad esecuzione penale. Deve essere chiarito, aldilà dei dubbi ingiustificati, ma largamente esistenti, che, quando la persona condannata deve stare nello Stato perché sottoposta ad esecuzione penale, non è necessario alcun permesso di soggiorno per il suo inserimento lavorativo o abitativo. La corretta esecuzione della pena, anche con la fruizione dei benefici penitenziari, dovrebbe poi influire sulla sua espulsione o meno dallo Stato, all’esito della esecuzione stessa. Seconda questione. Bisogna chiedersi, in tempo di integrazione europea, se sia da escludere ogni possibilità di esecuzione di misure alternative fuori dallo Stato, anche solo con permessi e tempi limitati. Anche questo si riflette in una limitazione delle possibilità di lavoro di un soggetto, ma sono in giuoco anche altre limitazioni personali, di cui si può fare a meno. Ebbene: si può regolare tale situazione con opportune previsioni, pur senza arrivare ad ipotizzare lo svolgimento della intera misura alternativa all’estero, che presuppone, invece, un confronto fra legislazioni e organizzazioni dei vari Stati, quantomeno della Comunità europea, che non è stato ancora concretamente affrontato. Terza ed ultima questione. Può considerarsi legittima la richiesta fatta a coloro che vengono assunti in un’impresa privata di produrre il certificato penale? Non è in giuoco anche qui il diritto alla riservatezza? È vero che tale documentazione è richiesta per l’assunzione in un ente pubblico, ma, in tal caso, vi sono disposizioni di legge che giustificano la richiesta. Là dove tali disposizioni mancano, quali risposte si debbono dare alla domanda ora avanzata? La risposta a tali domande sta nell’effetto della produzione del certificato penale. Si produce una situazione di discriminazione, che rende difficile il recupero sociale di una persona pur dopo che la stessa ha regolarmente espiato la propria pena. E allora non c’è che da vietare tale prassi.
Modifiche normative
L’articolo 120 del D. Legislativo 30.04.1992, n° 285 (Codice della strada) è abrogato.
Dopo l’art. 57 della L. 26.07.1975, n° 354, sono aggiunti i seguenti:
Articolo 57 bis (Interventi di agevolazione all’inserimento lavorativo e sociale)
Articolo 57 ter (Ammissione a misure alternative di cittadini stranieri durante l’esecuzione della pena o di misure di sicurezza)
Articolo 57 quater (Uscita dallo Stato durante la esecuzione di misure alternativa)
Articolo 57 quinquies (Documentazione richiesta per la assunzione al lavoro nel settore privato)
Le risorse necessarie per il funzionamento degli uffici e dei tribunali di sorveglianza
Relazione specifica
Tutte le pagine che precedono fanno costante riferimento al magistrato di sorveglianza: cioè al giudice monocratico di sorveglianza. Sullo sfondo potrà esserci anche l’accrescersi dell’impegno dei tribunali di sorveglianza, ma è l’ufficio monocratico che subisce il maggiore impatto dei vari interventi previsti. Si tenga conto che le funzioni dello stesso si sono accresciute recentemente con la attribuzione allo stesso della competenza a provvedere in materia di liberazione anticipata. È stata recentemente restituita allo stesso ufficio giudiziario la competenza in materia di conversione di pene pecuniarie. Se mai dovesse concludersi il percorso parlamentare del c.d. "indultino", anche questo porterebbe al magistrato di sorveglianza nuove competenze e nuovo lavoro e non di modesta portata. Che il sistema giudiziario della sorveglianza sia in grave difficoltà lo dimostrano varie circostanze. Da un lato, i lunghi tempi di decisione dei tribunali di sorveglianza, presso i quali giacciono ormai, con esecuzioni sospese per l’intervento della Legge Simeone, un numero di istanze di misure alternative di soggetti in stato di libertà equivalente al lavoro che il sistema dei tribunali di sorveglianza può smaltire in un periodo fra i due e i tre anni. Dall’altro lato, la presenza del magistrato di sorveglianza negli istituti e il suo rapporto con i detenuti sono, in molte realtà, assai ridotti: con la conseguenza che vi è una scarsa conoscenza diretta dei casi e delle richieste dei detenuti e della stessa realtà degli istituti da parte dell’organo giudiziario centrale del sistema. Si ritengono essenziali tre interventi, da compiere tutti con la modifica dell’art. 68 dell’Ordinamento penitenziario.
Primo intervento. Gli uffici di sorveglianza in situazione più critica sono quelli esistenti nei capoluoghi di distretto di corte dì appello o di sezione distaccata di corte d’appello. In questi si cumulano le funzioni del giudice collegiale e di quello monocratico. È inevitabile che abbia avuto una certa prevalenza nell’assorbimento del personale il giudice collegiale, cioè il tribunale di sorveglianza, a scapito dell’ufficio monocratico del magistrato di sorveglianza: il quale ufficio, essendo collocato nel capoluogo regionale è generalmente quello ampiamente più gravato di lavoro rispetto agli altri uffici monocratici presenti nel distretto. Ora, tali uffici di sorveglianza, con doppia funzione giudiziaria, collegiale e monocratica, hanno sempre avuto un organico unico. Vi è la necessità assoluta di definire un organico distinto per le due funzioni, collegiale e monocratica, di tali uffici.
Secondo intervento. Si deve prevedere legislativamente una ridefinizione dell’organico di tutti gli uffici di sorveglianza dello Stato in occasione della entrata in vigore della presente legge e una sua revisione periodica: tre anni per la prima revisione e cinque anni per le successive.
Terzo intervento. L’attività del magistrato di sorveglianza richiede un livello di conoscenza specifico, che può, in particolare, favorire un più efficace livello di partecipazione a tutte le molteplici attività di competenza. Di qui l’opportunità che sia richiesto ai magistrati per accedere agli uffici una specifica preparazione in materia penitenziaria.
Modifiche normative
L’art. 68 della L. 26.07.1975, n° 354 è così modificato:
Alla fine del comma 2 è aggiunta la seguente proposizione: "Nella assegnazione dei magistrati si tiene conto della specifica preparazione in materia penitenziaria."
Dopo il quarto (ultimo) comma sono aggiunti i seguenti commi:
"5. Entro tre mesi dalla entrata in vigore della presente legge, vengono definiti, a seguito di revisione dell’effettivo carico di lavoro, gli organici dei magistrati e del personale degli uffici di sorveglianza. Tali organici saranno sottoposti a revisione periodica: entro tre anni, la prima volta, e ogni cinque anni successivamente." "6. Negli uffici di sorveglianza del capoluogo del distretto di corte di appello o della sezione distaccata di corte di appello, vengono definiti organici del personale distinti per il tribunale di sorveglianza e per l’ufficio del magistrato di sorveglianza".
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