Oreste Pivetta

 

Società senza informazione

I media, i diritti e gli esclusi

Venerdì 21 giugno 2002 - Milano

Oreste Pivetta, dell’Unità

 

Stamattina, in modo del tutto casuale, ho trovato un saggio molto bello sulla società post moderna, di uno studioso di nome Jempson, che sicuramente Manconi avrà letto. Ho cominciato a leggere dall’ultima pagina, dall’ultimo capitolo, dove si faceva riferimento a Marx: "Noi vediamo nella società moderna, tutto il male di questo mondo, ma anche tutto il bene di questo mondo".

Invita ad accogliere questi due estremi dialettici e, in fondo, anche nell’universo rappresentato dai media italiani (mettendoci dentro la radio, la televisione, i giornali) si può trovare tutto e l’incontrario di tutto. Si può trovare, appunto, l’inchiesta dell’Espresso sui manicomi, citata da Corleone, come si possono trovare clamorose falsificazioni, come sull’articolo 18, attorno al quale sono raccontate delle balle terrificanti. Eppure la materia poteva essere chiara: uno stuolo di studiosi ha lavorato su questo argomento, sul mercato del lavoro in Italia, sulle condizioni dei lavoratori…

Nel cogliere il bene e il male del mondo dell’informazione, mi va bene il riferimento di Manconi alla storia di Genova, un po’ perché l’ho vissuta direttamente, un po’ perché è proprio di ieri questa notizia, che è stata data giustamente con rilievo, secondo la quale si sono inventati le famose "armi del delitto", le bottiglie molotov e tutto il resto.

Io ero stato nella scuola di Genova, ho assistito alla famosa perquisizione e non l’ho riferito solo io, ma tanti altri: semplicemente, c’era un cantiere edile, bastava andare là per prendere un martello. La cosa più divertente è che presentavano come oggetti del reato i fondi delle bottiglie di plastica, tagliate e piene di chiodi… "queste sono le armi nelle mani di questi delinquenti", senza capire che qualsiasi carpentiere prende il fondo della bottiglia, la riempie di chiodi, e se lo porta appresso per inchiodare.

Ma la cronaca di quei giorni, tutto sommato, ci ha dato una lezione, ci ha dato un’immagine positiva del giornalismo italiano e anche qui mi riferisco alla varietà e alla complessità delle voci e della molteplicità di strumenti possibili.

Io ho avuto la sensazione, allora, e continuo ad averla, che i fatti di Genova sono stati raccontati con grande efficacia, primo perché l’immagine è una forza in sé dirompente, secondo perché la moltitudine, la quantità dei giornali, delle testate, delle radio, delle televisioni presenti, rappresentavano una garanzia di correttezza nelle ricostruzione degli eventi, terzo perché accanto alle grandi testate, italiane straniere, alle radio più importanti, alle televisioni, lì si è manifestato un fronte, una quantità enorme di piccolissime realtà, diciamo quasi di realtà famigliari, casalinghe, di piccolissime televisioni indipendenti, di piccolissime radio indipendenti.

Ho visto una marcata distinzione, per quella che è stata la cronaca, per quello che è stato il commento, cioè ho assistito al tentativo disperato di alcune testate di disciplinare le cronache, di imporre la propria valutazione. Devo dire che questo tentativo è stato sconfitto e credo che il giornalismo (non faccio riferimento ad un giornalismo istituzionale, cioè ai giornalisti con il tesserino dell’Ordine in tasca), il giornalismo come universo più ampio della comunicazione, ha dato, tutto sommato, una grande prova. Sicuramente è vero quello che ha detto Manconi rispetto al giornalismo politico - morale e al giornalismo d’inchiesta. Come tu hai ben detto un’inchiesta costa, tu hai citato l’Unità, il Manifesto, e mi permetto di citarli anch’io: probabilmente certe cose non sono in grado di sopportarle, non è un giudizio assolutorio ma, in un certo senso, questa distinzione è imposta dai fatti.

Ho sentito qui molte cose interessanti dette anche, ovviamente, da Corleone, che faceva riferimento alle questioni poste dalle carceri, ma lui diceva di non aver letto mai, se non in quell’inchiesta, un’informazione completa, forte, su un tema peraltro così devastante. In questa rivista molto bella, che s’intitola "Ristretti", c’è una lettera di un agente di custodia, che dice: "Il mondo carcerario riguarda una minoranza, però potrebbe riguardare direttamente voi".

Vorrei andare un pochino in là, perché ho la certezza che questa gerarchia della notizia è la gerarchia politica, della politica politicante che domina su tutto e non è che mi impedisca soltanto di conoscere il carcere, o mi impedisca soltanto di conoscere il problema delle tossicodipendenze, o mi impedisca soltanto di conoscere il problema dell’AIDS. Se leggo i giornali italiani ho la sensazione che questa gerarchia politicante della notizia mi impedisca di conoscere che cos’è il paese in cui vivo; certo, quotidianamente mi vengono riferiti gli spostamenti e le parole di Berlusconi, da parte di tutti i giornali, ma quotidianamente non so che cosa avviene nella provincia italiana, intendendo per provincia italiana tutto ciò che è lontano, non dico da Roma, perché sembra un po’ leghista, ma dal Palazzo che sta al centro, che sta al centro di Roma.

Cioè mi pare che davvero i giornali italiani siano fatti per ignorare la realtà italiana, la realtà sociale italiana, cioè che condizioni di vita in Italia. Anche un giornale come l’Unità, che pur su questo terreno fa ovviamente uno sforzo, quando rappresenta le condizioni reali del lavoro in Italia? Io credo che nessuno di noi abbia letto un articolo e sappia cosa significa lavorare in una grande azienda metalmeccanica, che significa lavorare in call center, che cosa significa lavorare in un grande magazzino, quale siano le condizioni contrattuali di lavoro, che tipo di rapporto esista lì dentro con il sindacato e con le normative. Io credo che questa sia una materia completamente ignorata dai giornali italiani, eppure questa è la condizione prima della mia esistenza, il luogo della mia esistenza, il luogo del lavoro, il luogo principale della mia esistenza.

In questi giorni c’è stata questa sparata di Tremonti sui conti della sanità pubblica, ma anche lì c’è un uso tutto politicante: mi sta benissimo fare la polemica con Formigoni, ma noi raccontiamo mai com’è la condizione dell’utente, delle strutture della sanità pubblica e privata, come sono cambiate in tutti questi anni a quali difficoltà vanno incontro?

L’altro giorno sull’Unità c’era, in prima pagina, un pezzetto che s’intitolava, a proposito della morte di quel ragazzo nella metropolitana, che aveva un titolo che diceva più o meno: "Vivere a Milano a quindici anni". Non sto a discutere il contenuto dell’articolo; ora non mi interessa, mi interessa l’articolo. Noi sappiamo che cosa voglia dire vivere a quindici anni a Milano, ma vorrei raccogliere esigenze di altre generazioni: rappresentiamo mai che cosa sia vivere a cinquant’anni a Milano, a settant’anni a Milano, a ottant’anni a Milano!? Cioè quale disastro sia la condizione di questa città, ecco, mi pare che tutto questo, che poi è la vita concreta, sono i problemi concreti, è tutto ciò che poi costruisce la cultura di una società, i comportamenti di una società, sia sparito, sia stato tolto di mezzo.

D’altra parte c’è questa cosa che sconvolge quella tradizionale gerarchia delle notizie politiche: l’altro giorno l’Italia è stata eliminata dal campionato del mondo, tutti i giornali hanno aperto (tranne il Manifesto) con la notizia dell’eliminazione dell’Italia dai campionati del mondo. La maggior parte dei giornali ha dato di taglio la notizia dei morti in Israele causati dai kamikaze, la Stampa di Torino ha dato l’intera pagina ai campionati del mondo, con un titolo a tre colonne basso sui morti in Israele.

In questo caso la tradizione delle notizie è stata sconvolta ed io sono rimasto sconvolto dalla rappresentazione data, dai giornali italiani, di questi due eventi. Ecco, mi pare di poter dedurre da questi due esempi che, in questa nostra cultura autoreferenziale, si è perso il senso delle cose, si sono persi i riferimenti, all’interno di questo paese e all’esterno di questo paese.

Se dovessi pensare al giornale che non c’è penserei ad un giornale che mette in prima pagina i morti di Israele; perché mi pare sia quello l’evento, in sé e nella concatenazione dei fatti, che grava sulla società mondiale in questo momento. Le pagine interne devono poi dare una rappresentazione efficace, un racconto efficace, della società in cui vivo. La cosa che mi interessa meno è ciò che fa e cosa dice Berlusconi: quella mi sembra la cosa meno interessante dal punto di vista giornalistico e anche la più penosa per chi la deve scrivere.

Questo penso che sia il mio giornale, penso che sia un sogno; mi sembra assolutamente fuori luogo in questo momento, un momento assolutamente negativo per la cultura italiana, per la stampa italiana, per i media in generale. In particolare mi riferisco alla televisione che ci sta offrendo degli spettacoli obbrobriosi. Se c’è qualcosa che si muove, di solito si muove dal basso perché tutto sommato sopravvivono riviste e radio che con autonomia, con senso della ricerca e responsabilità sociale, cercano di rappresentare la società in cui vivono.

 

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