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Venerdì 21 giugno 2002 - Milano Luigi Manconi, presidente dell’Associazione "A buon diritto"
Partirei da una constatazione, che magari non è molto diffusa ma, nonostante ciò, credo incontestabile. Siamo in una società dell’informazione massiccia e si può affermare, con un po’ di forzatura, che però non attenua la valutazione complessiva, che in questa società dell’informazione massiccia tutti hanno diritto (il che è semplicemente il riconoscimento di un diritto costituzionale) ma, aggiungo, possibilità e spazio di far sentire la propria voce come mai in passato. Io credo che è difficile, oggi, che i rappresentanti di una qualunque forma organizzata di domanda sociale non abbia accesso alcuno al sistema dei mass media. Per capirci, a "Porta a Porta" ha partecipato più spesso la rappresentante dei COBAS che Franco Corleone. Cosa significa? Forse che in giornale che non c’è invece c’è e i mass media forse sono espressione precisa e puntuale, autentica e soddisfacente di domande collettive? Ovviamente no, perché il problema oggi (questo va detto, altrimenti sbaglieremmo il bersaglio) non è il diritto d’accesso, che è ampio, esteso, articolato quanto una moderna democrazia può garantire, ma il vero problema è quello che diceva Sergio Segio, credo citando Magnaschi, cioè la gerarchia della notizia. Sarà una forma troppo sintetica e troppo sbrigativa ma ha, a mio avviso, un significato elementare: la gerarchia della notizia altro non è che il primato politico. Per capirci, la gerarchia della notizia è anche – per tornare all’esempio fatto prima di "Porta a Porta" – la gerarchia dei soggetti, lo spazio che hanno, l’attenzione che viene loro riservata, la possibilità di una presenza non occasionale, di una continuità di ragionamento, di una capacità di discorso. Quello che però fa la differenza è – per esempio considerando un telegiornale o i quotidiani nazionali – la gerarchia della notizia: cosa sta in prima pagina, come ciò che sta in prima pagina viene, nella continuità dell’informazione, nella produzione complessiva, valorizzato, fatto emergere e imposto. E lì ciò che decide è il rapporto di forza tra i diversi interessi in conflitto. Vi faccio un esempio elementare. Una delle cose che più mi fanno perdere il controllo è il mito del politicamente corretto. Da vent’anni si dice che in Italia domini il politicamente corretto e che questo abbia trasformato la mentalità collettiva e informato di sé il senso comune, per cui nel nostro paese la cultura diffusa sarebbe poi quella di una sorta di "senso comune di sinistra". La cosa interessante è che, per contestare il politicamente corretto, ad esempio sulla questione della rilevazione delle impronte digitali agli immigrati, nel corso di tredici giorni, nella prima pagina, nella prima colonna, del primo quotidiano italiano, io ho letto cinque editoriali. Immediatamente se ne ricava che il politicamente corretto nel nostro paese non è il rifiuto delle rilevazione delle impronte digitali agli immigrati, ma è, "ovviamente", l’accettazione della rilevazione delle impronte digitali agli immigrati, dal momento che questo messaggio è, per tredici giorni, nel corso di cinque articoli, nella prima colonna della prima pagina del primo giornale italiano, il messaggio inviato alla collettività. Politicamente corretto è l’opportunità di rilevare le impronte digitali agli immigrati, non c’è alcun dubbio. Perché questo esempio a me fa perdere in controllo e forse anche la capacità di raccontarlo bene? Perché, ovviamente, chi nel corso di tredici giorni, ha scritto cinque editoriali nella prima colonna della prima pagina del primo giornale in Italia, vive questa scrittura di articoli, questa sua battaglia a favore della rilevazione delle impronte digitali agli immigrati come un atto eroico di anticonformismo, come il conformismo del politicamente corretto di quanti riterrebbero che, invece, le impronte digitali hanno un sottile sapore discriminatorio. Tutto ciò mentre una legge della Repubblica veniva approvata e nella quale quella rilevazione di impronte era norma contenuta. Dunque, tanto politicamente corretto da essere, il messaggio lanciato per tredici giorni in cinque articoli, diventato norma e legge dello stato italiano. Credo di aver perso troppo tempo in questo esempio, ma perché il problema, appunto, è politico. Allora, il giornale che non c’è a mio avviso ha alcune possibilità di materializzarsi attraverso una produzione giornalistica diversa. Noi partiamo tutti dal presupposto che non siamo qui per fondare un giornale, che ciascuno di noi quotidianamente costruisce il proprio quotidiano attraverso un patchwork fatto di articoli che legge, su varie testate, su giornali on line, su varie forme d’informazione, sull’emittenza televisiva. Allora, quello che si può dire del giornale che non c’è, di quello che vorremmo leggere, intanto non è subalterno a quella gerarchia delle notizie. Questo non essere subalterno è la cosa più difficile del mondo, perché quella gerarchia delle notizie, essendo la posta in gioco del conflitto politico, fa sì che chi conduce una battaglia politica si sente disertore se, tutti i giorni, sui giornali all’opposizione dell’attuale Governo, non fa il controcanto alla politica del Governo e quindi ai giornali che quella politica difendono, promuovono, sostengono. Qua io credo ci sia un primo limite, anche se superare questo limite è un’impresa difficilissima. Io credo che l’opposizione a questo Governo la si fa anche attraverso un ribaltamento di quella gerarchia delle notizie. Una diversa organizzazione dell’agenda delle priorità. I giornali collocati all’opposizione questo non fanno, se non con occasionali eccezioni. La gerarchia delle notizie, in tutti i giornali, compresi quelli d’opposizione, segue l’agenda politica, quella stabilita dal Governo, dettata dal Governo, dove quindi la gerarchia dei temi è subita. Questo io credo sia un primo problema. Penso che ci sia spazio, anche di pubblico, nel ribaltare questa gerarchia. È chiaro che se esiste, all’ordine della Camera o del Senato, la legge sull’immigrazione, essa è tema cruciale ed è giusto che i giornali accettino questa agenda imposta dal Governo e si battano contro le soluzioni, che quel tema all’ordine del giorno propone. Però, ripeto, scegliere i temi è la prima forma d’opposizione alla politica al Governo, perché la prima forma d’opposizione è rovesciarne l’agenda politica. Altre due cose, volevo dire: io sono un lettore onnivoro e maniacale di quotidiani e credo di conoscerli anche bene. Oggi, lo dico con la massima umiltà possibile, ma esprimendo una posizione di fan dei giornali, da militante dei quotidiani, e dei quotidiani d’opposizione in particolar modo, io vedo una divaricazione che a mio avviso costituisce un altro rilevantissimo problema. Una divaricazione tra un giornalismo ideologico – morale e un giornalismo di inchiesta. Se io penso alla più classica delle tematiche di critica del sistema di potere, la critica dei comportamenti degli apparati dello Stato, quello che rilevo è che sui due fatti più significativi degli ultimi dodici mesi, i cosiddetti "fatti di Napoli" e i cosiddetti "fatti di Genova", io questa divaricazione – senza alcuna polemica preconcetta – credo di averla notata. Le contro – inchieste sono state fatte, facciamo i nomi e i cognomi, da giornalisti di "Repubblica", i giornali che più hanno condotto una battaglia ideologico – morale su quello che era in gioco (e in gioco c’era nientemeno che l’infeudamento definitivo del più importante apparato dello Stato a una parte politica, Alleanza Nazionale), sono stati "Il Manifesto", "L’Unità" e "Liberazione". C’è stata una divaricazione, che mi sembra non essere fatto raro. In particolare i due quotidiani che conosco meglio, tra quelli citati, cioè "Il Manifesto" e "L’Unità", per ragioni che io conosco bene, e la prima ragione è quella economica, perché le inchieste costano e costano moltissimo. Però devo rilevare che questa divisione di ruoli, tra un giornalismo più ideologico – morale e un giornalismo più d’inchiesta, nelle due vicende che ho citato, "fatti di Napoli" e "fatti di Genova", è emersa in maniera, a mio parere, incontrovertibile. Potrò sbagliarmi, ma su questi quotidiani, "Il Manifesto" e "L’Unità", quelle inchieste non ci sono state o non sono arrivate ai risultati attesi. Cito un altro episodio: la vicenda della Kater i Rades, cioè il naufragio del venerdì santo, vicenda che io ho seguito, nel 1998. Gli sviluppi successivi, cioè le vittime, i processi, i mancati risarcimenti, le battaglie dei famigliari delle vittime, sono stati seguiti da "Il Resto del Carlino". Forse "Il Resto del Carlino" ha fatto questa scelta per ragioni ideologico – morali, per usare quella frase? No, l’ha fatta semplicemente perché tra i suoi redattori un giornalista particolarmente bravo e appassionato ha preso a cuore questa vicenda. Credo che tra i presenti, però, nessuno ne abbia letto le cronache, perché appunto su un giornale regionale, poco diffuso razionalmente, che non è presente nelle mazzette, e così via. Per concludere, Franco ha alluso a una serie di aneddoti che poi sono stati materia viva dell’attività politica e giornalistica di questi anni perché l’aneddoto, per così dire, è una sorta di lezione di giornalismo. Nel corso della mia attività pubblica ho adottato, ormai da una decina d’anni, un metodo: quando ho una notizia, ad esempio la notizia è che all’interno delle carceri italiane ci si ammazza 19 volte di più di quanto ci si ammazza all’esterno delle carceri. Quindi alla domanda sublime, citata da Franco, io la risposta c’è l’ho, ecco una notizia! E attenzione, questa è una notizia, non è che venga considerata una non - notizia perché riguarda quei disgraziati che stanno in carcere: eccome se è una notizia. A questo punto ho due soluzioni: fare una conferenza stampa, alla quale so che verranno tutti i giornalisti di tutte le principali testate, dove io espongo questi dati e, siccome questi sono particolarmente "forti"; io so che il giorno dopo su 6 o 7 giornali verranno riportati, in uno spazio di 20/40 righe (il mio ragionamento è quasi scientifico). Oppure c’è un’altra scelta, propongo al direttore del "Corriere della Sera", o al direttore della "Repubblica", l’esclusiva. Io quei dati li do solo al "Corriere della Sera", a "Repubblica" o a "La Stampa", e allora avrò una pagina, forse. Questo garantisce che nessun altro quotidiano, darà mai notizia di quel dato, perché è già stato pubblicato da "Repubblica", quindi non è più una notizia, perché è gia stata consumata, risolta. Allora io penso che la situazione non sia drammatica, perché l’esperimento di "Fuoriluogo" è un’ottima esperienza: per fare un esempio, i lettori di Manifesto sono in 15.000 e possono avere un’informazione qualificata su quel tema. È un’ottima cosa se si tratta di lettori motivati, competenti; quelle stesse notizie pubblicate su un giornale i cui lettori non sono motivati, competenti, sarebbero notizie in qualche modo dissipate. Esiste uno spazio sull’Unità, una pagina settimanale sul mondo omosessuale, spesso bellissima. Ma chi sa che c’è questa pagina? La situazione è questa, io credo che il problema sia di far sì che questo lavoro di comunicazione, che alcuni privilegiati possono permettersi, leggendo tutto in maniera selettiva, organizzandosi delle rassegne stampa complesse e selettive, che questo diventi una possibilità per molti. Qual è la soluzione? Probabilmente la soluzione è uno strumento on line che metta insieme soggetti diversi, che utilizzi i giornali esistenti, e che garantisca a un numero più ampio possibile di lettori, che non hanno né competenza, né militanza precisa, la possibilità di accesso a questa quantità d’informazioni, che io ritengo comunque utilissime.
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