Antonio Palzeri

 

Società senza informazione

I media, i diritti e gli esclusi

Venerdì 21 giugno 2002 - Milano

Antonio Palzeri, Segretario Generale Camera del Lavoro

 

Se ho compreso bene, l’obiettivo che noi ci poniamo con questa giornata è come diverse frontiere sociali sono riconosciute, comunicate o escluse dall’informazione. Io concordo con alcune osservazioni che sono state fatte negli interventi, quando si dice che, sostanzialmente, temi come quelli dei diritti e dell’esclusione, generalmente in questo paese sono affrontati in due modi: uno è quello di parlarne, quando c’è il fatto, anche i termini scandalistici; l’altro è quello di avere delle campagne, a sé stanti, di solidarietà, che poi finiscono lì. In realtà, c’è una difficoltà concreta nel far crescere e durare una cultura capace di considerare i diritti come tema dominante della politica e dell’informazione.

Cerco di darmi una risposta del perché questa difficoltà oggi esiste. Noi non andiamo su un campo neutro, l’informazione è, piaccia o no, nel mirino delle contraddizioni sociali e del conflitto aperto, sia su scala planetaria, sia su scala locale. Chiediamo all’informazione di essere "più informazione" ma l’informazione è anche quella cosa condizionata dai grandi poteri e del grande conflitto che si sta determinando.

Tutto questo porta a due interrogativi, che io credo possano essere discussi stamattina. Il primo: di chi è il compito di formare una coscienza pubblica, di formare l’opinione pubblica? Certamente il primo ruolo, essenziale, io credo che sia e debba essere della politica. Ma non c’è dubbio che anche i media abbiano questa funzione.

Penso che il problema, come diceva Segio, non sia semplicemente che noi abbiamo sempre meno un giornalismo in grado di indagare la realtà. C’è anche questo, molte volte si tende a dire che c’è un giornalismo che lavora troppo sulle agenzie e, da questo punto di vista, l’ANSA è davvero la madre di tutte le sofferenze del giornalismo, perché è vero che nel cestino ci sono anche notizie che poi non vengano riportate (e sono quelle più importanti), ma è anche vero che un lavoro non fatto bene da un’agenzia implica un lavoro non fatto bene dal giornalista perché lui copia e il suo lavoro finisce lì.

In questo paese c’è, io credo, un giornalismo sbagliato, da retroscena. C’è un’informazione molto frenetica, nel senso che la precarietà del lavoro, introdotta ormai anche nel mondo del giornalismo, produce per sua natura anche una precarietà dell’informazione.

Poi ci sono i condizionamenti che derivano dalla competizione, oggettiva, anche tra giornali e quelli che derivano dalla politica. Io credo che dobbiamo cominciare a cercare una risposta, su questo versante, cioè come è possibile costruire le condizioni perché si possa formare in maniera adeguata una coscienza pubblica e un’opinione pubblica su temi di carattere sociale.

Il secondo interrogativo è di questa natura: io non sono favorevole all’idea generalista dell’informazione e, su questo, c’è stato un dibattito anche rispetto al sistema radiotelevisivo, se era di qualche utilità avere un sistema radiotelevisivo generalista e poi affidare ad un canale l’approfondimento.

Molte volte si tende a dire che i giornali, per loro natura, non possono parlare di cose particolarmente importanti come le questioni sociali, che sarebbe bene affidare a giornali che possono specializzarsi su di esse. Io penso che non si possa e non si debba andare semplicemente in questa direzione, perché il rischio è quello di settorializzare di più, certamente con una maggiore specializzazione, ma probabilmente il rischio è quello di far venir meno una trasversalità informativa su questi temi.

Penso che siamo ancora molto lontani dall’aver collocato nell’ambito giusto le ragioni, i diritti, l’esclusione, e così via. Non fa testo l’art. 18, e non lo fa per le ragioni che diceva Manuela: è diventato un fatto politico, perché se togliamo dalle pagine dei giornali l’articolo 18 sfugge a tutti il fatto che ben più grave è la ristrutturazione del diritto che si sta facendo per quanto riguarda il libro bianco, però questa è una cosa che, se dovessimo cominciare a scriverla sui giornali, probabilmente non troverebbe neanche un minimo di udienza presso l’opinione pubblica. Quello è diventato un fatto politico approvato e così via…

Io temo, ad esempio, la precarietà, la competizione esasperata, temi che sono collegati, perché la società competitiva aumenta le disuguaglianze e rende la gente più inquieta, meno coesa. Ci sono sempre più famiglie al di sotto del livello della precarietà, non mi riferisco solo ad immigrati, alle categorie operaie, ma anche a pezzi di ceto medio.

Ecco, queste cose trovano malamente spazio, se non quando vengono pubblicate alcune indagini sulla povertà, oppure si tenta di sopperire con quella che io chiamo la "politica delle faccine". Che non sono le storie, sono storielle, non producono di fatto una formazione, dal punto di vista dell’opinione pubblica sul tema.

Io credo sia necessario, da parte nostra, tentare di contraddire quella che può essere l’indicazione politico - operativa, dopodiché io mi accontento dei pertugi, che sono sempre importanti. Ma io penso anche sia indispensabile lavorare attorno ad un progetto per dar voce ad antiche e nuove problematiche che animano la società civile e buona parte della nostra realtà.

Qui torna la non neutralità, la necessità di identificare altri modelli di trasformazione sociale, diversi da quelli che fin qui sono stati praticati. Perché, se noi la mettiamo su questo piano, rendiamo evidente perché è necessario che ci sia una trasversalità nell’informazione e non un semplice approfondimento di quel determinato tema.

Io trovo che in questo contesto la comunicazione può essere al centro della ricerca di nuove relazioni, attraverso, ad esempio, la riabilitazione di reti sociali, che possono essere il presupposto essenziale di qualsiasi utilizzazione di reti, anche tecniche, da parte di movimenti di cittadini.

L’azione diffusa della società civile deve contribuire in qualche modo a reinventare uno spazio pubblico che faccia proprio un dibattito sui problemi sociali ed economici diversi, che possono essere temi di carattere generale, dal G8, al debito estero, alla droga, al razzismo, ai disabili, fino ad arrivare ai temi che sono legati al lavoro, nelle sue nuove dimensioni.

Però questi sono tutti i grandi temi che il cosiddetto villaggio globale e il nuovo ordine tecnologico della comunicazione tende, in qualche modo, a ricacciare sullo sfondo. Io penso che è su questo versante che dobbiamo tentare di agire: costruzione organizzativa di una rete, che riesca a collocare meglio il prodotto informativo; un’interazione anche con i media più importanti, perché il tema ridiventi elemento di informazione; un’interlocuzione tra di noi, per mettere in campo un modello sociale che sia diverso, alternativo.

Entrando nel vivo di quel conflitto aperto, nel quale anche i media sono presenti, noi possiamo in qualche modo incidere su questa realtà. Sarebbe importante riuscirci e il sindacato, in qualche modo, contribuisce a quest’obiettivo, se non altro sfruttando il peso che con l’art. 18 ha determinato. Facciamo anche finta che si sia aperto un varco e, da quel varco, tentiamo di incidere ancora di più su tutti gli altri aspetti.

 

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