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Venerdì 21 giugno 2002 - Milano Corrado Mandreoli
In questi giorni mi è toccato fare delle assemblee in preparazione dello sciopero che la C.G.I.L. ha convocato per il 20 e ho spiegato semplicemente cos’erano le proposte del Governo, per esempio in materia fiscale. La reazione di fondo è stata di chiedermi come mai di queste cose non se ne parla? Un conto è l’informazione, l’altro aspetto è che, tolta l’informazione cosiddetta ufficiale, non ci sono più canali che creano coscienza critica e quindi l’informazione, i grandi media, sono spinti ad andare non troppo per il sottile, in quanto non sono sottoposti ad una valutazione critica. Ci sono stati in anni in cui l’informazione ha dovuto fare i conti con questa. Io sono del ‘55 e quindi so quanto era dura dire che la strage di Piazza Fontana, piuttosto che altri fatti, avevano dietro una strategia. Il problema è che in quegli anni non c’era un’assemblea di quartiere, di scuola, di fabbrica, che non avesse una sua capacità di fare comunicazione e che quindi inducesse anche chi faceva informazione a fare i conti con questa realtà. Questo ora non c’è più. Una controinformazione, utilizzando quelli che sono i canali a disposizione, oggi è molto difficile, ma il problema è anche come le organizzazioni di massa fanno loro stesse informazione. La seconda questione, che ha a che fare con questa, sta appunto nei limiti di chi fa la controinformazione. Sarebbe interessantissima una chiara lettura di alcuni temi, come la malattia mentale; adesso Vita ha fatto questo numero, però noi passiamo anni a costruire un’idea che cancelli l’immagine del malato di mente come mostro e quotidianamente la stampa, i grandi media, rilanciano l’equazione malato di mente = mostro. Cioè anni e anni di lavoro per far passare un messaggio corretto e basta un passaggio sul giornale, sulla televisione, per distruggere questo tipo di lavoro. Questo la dice lunga sulla debolezza della nostra capacità di fare informazione in proprio e di non delegarla.
Francesco Morelli
Io lavoro in un giornale fatto in carcere e voglio dire una cosa sulle difficoltà particolari che abbiamo noi per essere veramente liberi nell’informare. Dentro al carcere, rispetto a chi lavora fuori, hai maggiore difficoltà a ottenere che sia tutelato il tuo ruolo, il tuo diritto di fare informazione. Poi rivendichiamo sempre il fatto che non siamo censurati, che siamo liberi, ma non è così semplice, perché spesso succede che uno si autocensuri. Perché tu sai che non puoi urtare più di tanto le componenti con le quali convivi, sono tutte componenti che hanno un potere maggiore del tuo. Per fare un esempio, nel carcere di Padova un detenuto è morto per infarto, i medici sono stati condannati per omissione di soccorso, ma dopo di ciò continuano a fare i medici. Voi capite che non è semplicissimo per noi dire che i medici sono stati condannati, quando il giorno dopo hai di fronte quegli stessi medici e devi chiedergli un certificato, per andare a fare una visita in ospedale, oppure devi chiedergli un’altra cosa per avere la sospensione della pena per malattia. Loro hanno il potere di decidere su queste cose con una forte discrezionalità, quindi tu dipendi da loro… Non è semplicissimo far passare il discorso che l’informazione dal carcere è una garanzia di democraticità nella gestione dell’istituto, anche perché forse qualcuno non è proprio soddisfatto di tutta questa democraticità e di tutta questa trasparenza. Chi fa informazione all’esterno, chi fa informazione sui grandi media, dovrebbe in qualche modo collaborare con noi, così da creare anche una qualche forma di tutela per il nostro lavoro. Si era parlato, qualche mese fa, di creare un organismo a livello nazionale sull’informazione dal carcere. Questo credo sia di fondamentale importanza e non solo per agire meglio a livello di mercato ma anche perché dentro al carcere rischi davvero che una redazione venga chiusa, se non vai bene a qualcuno, rischi di essere trasferito in un altro carcere, magari a mille chilometri di distanza, se fai cose che non vanno troppo bene. Quindi, al di là dei possibili livelli di autocensura che puoi darti, avere una tutela dall’esterno sarebbe importante. Questo intervento vuol essere una provocazione nei confronti dei giornalisti presenti, della Repubblica, del Corriere della Sera, del Manifesto, di altre testate. Diamoci una qualche struttura, perché voi all’esterno riusciate meglio a fare informazione sul sociale e noi, che facciamo dall’interno questo tipo di lavoro, possiamo avere una maggiore tutela.
Laura Galbiati
Mi chiamo Laura Galbiati e lavoro per il Comune di Milano all’Assessorato alle Politiche Sociali. Quando i giornalisti vengono a intervistarci noi siamo terrorizzati. Non più tardi di venti giorni fa è venuta una giornalista di un grande quotidiano nazionale sul caso del padre che ha ucciso il bambino a Milano… una storia tristissima. Era una giornalista di cronaca nera che non sapeva assolutamente niente di quello che è la psichiatria. In quaranta minuti c’è stato questo tentativo di dare i miei dati, di spiegare delle cose, ma è difficilissimo con una persona che non sa nulla di queste tematiche. Quindi moltissime volte vengono fuori degli articoli sbagliati, che danno un’informazione fasulla ai lettori, ai cittadini. Quindi per noi operatori è terribile. Invece, che quando gli articoli vengono fatti bene, come diceva prima il giornalista del Corriere, la gente li legge, capisce, può essere educata e io credo che questa sia una funzione molto importante, perché questi sono i problemi di tutti: uno ha l’anziano, la zia matta, il figlio tossico, e così via…, sono problemi che tutti gli italiani vivono. Volevo dire un’ultima cosa, non ho mai lavorato nel mondo dei giornali e quindi non conosco bene quali siano i vincoli e il potere che c’è all’interno di un grande quotidiano nazionale, dato da un editore, dato dall’intreccio con la politica. Però io credo anche che esistano delle responsabilità personali di un singolo giornalista, che può scrivere bene un articolo dando un’informazione reale, concreta, così come ciascuno di noi nel proprio lavoro ha una responsabilità personale. Io non posso rispondere quello che dice il Sindaco, però posso sicuramente rispondere per quello che è il mio lavoro quotidiano, quindi credo anche che questo vada anche un po’ detto, nel senso che tantissime volte io ho sentito un chiamarsi fuori del singolo giornalista.
Ornella Favero
Sentendo soprattutto gli interventi dei giornalisti de Il Corriere e di Repubblica, mi sono posta una domanda: non è che noi diamo troppo per scontato che i lettori sono fatti così, sono quelli e non facciamo nessuno sforzo per vedere di proporgli qualcosa di diverso? Io coordino questa rivista dal carcere, in questo numero c’è un intervento di un poliziotto di una Questura di un’altra città, che è capitato nel nostro Sito e ci racconta un po’ una sua storia. Dice: "Io ero un poliziotto come tanti altri, che pensava che la divisa significasse poter anche esercitare una specie di potere per cui tu hai una pena ed io ti aggiungo, da parte mia, un di più. Che cosa è successo nella mia vita? È successo che improvvisamente un mio parente è finito in carcere". Questa, tra l’altro, è una lettera che noi non abbiamo firmato ma che è firmata, conosciamo la persona che ci ha scritto insomma. Cioè l’abbiamo conosciuta attraverso Internet. Allora, che cosa voglio dire? Molto spesso una persona, per interessarsi ai temi di cui ci occupiamo noi nel sociale, ha bisogno che nella sua vita succeda qualcosa per cui c’è un cambiamento nel suo ruolo. Altro tipo di esempio il padre di Erika, se non avesse scoperto di essere il padre dell’omicida, sarebbe stato solo padre e marito due persone assassinate e, certamente, sarebbe stato sfruttato dai media, con il microfono sotto a chiedergli che cosa si deve fare. Poi, ad un certo punto, stato lo shock è stato lo scoprire di essere anche il padre dell’assassina. Quindi, quando ti capita nella vita un ribaltamento dei ruoli, allora capisci molte cose di più. Allora, perché non cerchiamo, anche il giornalismo dei grandi mezzi di informazione, di fare vivere ai lettori un cambiamento di ruolo, un ribaltamento, un provare ad immaginare cosa vuol dire vivere nella parte di un altro. Un secondo tema, che vorrei proporre oggi alla discussione, è che io che mi occupo di sociale ho anche paura dell’informazione che viene dal sociale, perché generalmente l’interesse di chi opera nel sociale, non è quello di informare, approfondire, discutere, essere critici sulle proprie esperienze. Molto spesso la logica è un’altra: se tu mi dai un po’ spazio ne approfitto per parlare di quello che faccio, per lodarlo, per dire quanto è bello, etc.. Insomma, anche da questo punto di vista c’è un vizio dell’informazione, assolutamente stereotipata al contrario. Ecco, questi sono due temi in più che vorrei proporre alla discussione di oggi pomeriggio.
Intervento dal pubblico
Mi dispiace tanto che siano andati via alcuni dei relatori, perché avevo una domanda precisa per il direttore dell’A.N.S.A. ed è questa: lui ci ha detto che produce 1.500 notizie al giorno e che solo 150 di queste, vengono successivamente acquistate, ma non ci ha detto quante, tra le 1.500 notizie veicolate dall’A.N.S.A, sono notizie che riguardano questi argomenti del mondo sociale. Poi mi sarebbe piaciuto capire, dagli operatori dell’informazione, se ci sono casi in cui scrivo, o vorrei scrivere, o vorrei informarmi di qualcosa, e il sistema del cui vivo me lo impedisce: il capo redattore, il direttore, l’editore del giornale… Ricordo d’aver letto un autore americano, che ha analizzato un po’ queste cose vivendo un anno in alcune redazioni di giornali, con altri ricercatori. Secondo quest’autore non esiste tanto una censura da parte delle proprietà dei giornali, che ovviamente sono molto presenti e determinano la linea del giornale, ma esiste piuttosto una fortissima autocensura da parte dei giornalisti. Per cui diventa difficile dire: "La colpa è della proprietà!". Persone sicuramente democratiche, di sinistra, etc., che operano nella Fininvest e nei dibattiti televisivi fanno assolutamente lo stesso discorso, dicono: "Io non ho mai avuto censura, io posso dire ciò che voglio". Allora, rispetto ai temi sociali dovrebbero avere il coraggio di dire: "A me non interessano". L’ultima cosa che volevo dire, era sull’intervento di Panzeri, perché secondo me è un punto chiave e non vorrei che venisse sottovalutato. Io sono un ottimista, secondo me viviamo in un mondo dove l’informazione è talmente incasinata, complicata, che poi uno, se ci si mette d’impegno, riesce anche a farle uscire le notizie che lo interessano; certo, è un lavoro; certo, è faticoso; certo, è complicato; certo, non è scontato. Io trovo sorprendente che in un sistema, quello italiano, nel quale molti giornalisti sono sicuramente democratici, sono, probabilmente, anche un po’ stanchi di questo meccanismo, non nascano iniziative di controinformazione. Perché non è possibile, da parte vostra, riunirvi, trovare delle sponde, lavorare con le associazioni, con il sindacato, che poi sono le cose che hanno consentito, appunto, ad alcune esperienze di esistere, di emergere dalla marginalità? Ma forse non è questo il problema, il problema è non essere marginali dentro, a priori, non marginalizzarsi da soli. Io spero che esistano ancora delle risorse da dedicare all’informazione, ne sono convinto, anzi!
Sergio Segio
Grazie per gli spunti, che sicuramente svilupperemo nel pomeriggio, quindi spero vivamente che tutti possiate essere qui anche alle 14.30. |