Manuela Cartosio

 

Società senza informazione

I media, i diritti e gli esclusi

Venerdì 21 giugno 2002 - Milano

Manuela Cartosio, del "Manifesto"

 

Come ha detto Sergio, mi sono arrogata il diritto di parlare e lo faccio adesso partendo da una citazione di un libro di vecchi operaisti: "Non esiste più la classe operaia, in questo fine secolo, ci sono soltanto gli operai". Una formazione di senso comune che può essere considerata come il corollario di un’altra più generale e radicale, il frutto della rivoluzione liberale, che ha caratterizzato l’ultimo ventennio. Non esiste la società, ci sono soltanto gli individui. Allora, se esistono soltanto gli individui nella percezione di questo fine secolo ed inizio di terzo millennio, uno dovrebbe dire che finalmente anche gli operai, essendo diventati individui, dovrebbero essersi conquistati un qualche posticino al sole in un’informazione che ha bisogno dell’individualità, cioè di avere una faccia, di avere un vestito da descrivere, di avere una storia etc. etc., invece è successo esattamente il contrario, com’è sotto gli occhi di tutti…

Cioè, proprio perché gli operai e i lavoratori dipendenti non sono più una classe e un collettivo che pesa, non esistono neppure in quanto individui, a meno che servano per costituire questa specie di fondale che, ad esempio, in questi ultimi mesi la vicenda dell’articolo 18 ha richiamato in qualche modo fuori dall’armadio, e io su questo sono d’accordo su quanto dicevano prima gli altri colleghi, ad esempio Bianconi, cioè l’articolo 18 non mi sembra abbia fatto succedere nessun miracolo, è diventato un tema d’attenzione non perché si parla di lavoro ma perché Cofferati ha deciso di impegnare la più grande organizzazione sindacale, che è la C.G.I.L, su questo tema, ma il trattamento che ne viene fatto è più o meno identico a quello della nota politica. Non esiste più, come una volta, la nota politica con i suoi crismi, però questo è. Non si parla dei lavoratori, si parla di cosa succederà a livello politico sullo scontro dell’articolo 18.

Sempre da questo libro, ho trovato una citazione (non la conoscevo assolutamente), è dell’anno 1964, ed è di Italo Calvino: "Da più di un secolo a questa parte, il termine operaio, da denominazione di condizione sociale o professionale, è diventato elemento esplicito o implicito di ogni discorso culturale. L’operaio è entrato nella storia delle idee come personificazione dell’antitesi".

Anche questo, quarant’anni dopo, non è più assolutamente vero e con un po’ di sarcasmo vorrei dire che l’unica antitesi che gli operai in questi ultimi anni hanno davvero fatto vedere è stata quella di votare a destra. Questa è stata la vera rottura, la vera sorpresa che ci ha un po’ annichilito, fatto ammalare, fatto diventare i capelli grigi, però questa è la vera notizia politica che viene dal mondo operaio, è una scelta a destra, che c’è stata qui in Italia, sulla Lega; su Le Pen in Francia, su Haider in Austria.

Tutti i media, nelle varie forme da quella scritta a quella della televisione, sono stati colti assolutamente di sorpresa da questa cosa, perché non frequentano più il lavoro dipendente, non se ne sono accorti… e questa non è un’accusa che faccio come chi scrive su un piccolo giornale, libero ed indipendente, ai giornali generalisti che non guardano al sociale o a che cosa succede in giro.

No, sono stati presi in contropiede soprattutto i giornali di sinistra, e questa è la cosa bizzarra. C’è una giustificazione, in questa perdita di contatto, in questa perdita di conoscenza di cos’è il mondo del lavoro? Sicuramente sì, e quindi io, tutte queste colpe che Sergio continua ad ogni intermezzo a buttarci addosso, potrei in qualche modo giustificarle, innanzitutto perché incontrare, frequentare e conoscere il lavoro, dopo il salto nel post fordismo, è stato reso proprio difficoltoso quasi fisicamente, nel senso che il passaggio dal fordismo al post fordismo non è semplicemente che cambia il modo per fare l’automobile.

No, è proprio un ridisegno innanzitutto delle coordinate dello spazio e del tempo nella vita di tutti, una modifica del territorio. Una volta c’erano dei luoghi ed un’ora nei quali in cui un giornalista era sicuro di trovare qualcuno che gli diceva delle cose interessanti su una lotta, su quello che stava succedendo, come si produceva una tal cosa nel determinato posto.

Adesso non è più così, e addirittura questa comunicazione è interrotta non soltanto tra il lavoratore e l’operatore dei media, che dovrebbe parlare di loro, ma è interrotta tra i lavoratori stessi. Sono stata un paio di giorni fa a Bergamo, dove la C.G.I.L. ha presentato un’inchiesta che è stata fatta sui lavoratori degli ipermercati, e c’erano i direttori di queste grandi catene, e da uno ho sentito dire che (non sto parlando di una grande Città mercato, dove ci saranno migliaia e migliaia di persone, no, sto parlando di un posto dove tutto sommato ci saranno al massimo 100 commesse) può succedere che, per anni, due di queste commesse non si incontrino mai, perché gli orari sono talmente diversi che non si conoscono.

La difficoltà, parlo un po’ in prima persona, nel senso proprio questo è il lavoro che faccio da sempre, e posso anche documentare come mi era più semplice farlo prima e di come mi è più difficile farlo ora, è che ad ogni corteo al quale vado mi accorgo che faccio delle domande forse in un modo che non vengono capite da molte delle persone a cui le faccio, e viceversa ci sono un sacco di persone che mi dicono delle cose che io non capisco, e questa difficoltà non è una buona o cattiva volontà. È cambiato tutto un mondo e un modo di produrre, per cui mi trovo con delle persone che non sanno neanche più i rudimenti di quella che potrebbe essere la politica o il sindacato, per cui, anche se scioperano, rispondono in modo abbastanza bizzarro a delle cose che una volta erano considerate l’ABC del sindacato o dello stare dalle parte degli operai.

Un altro argomento è quello dei nuovi lavori. Adesso la bolla della nuova economia, della net economy, si è sgonfiata, senza però che nessuno ci sia andato a mettere il naso dentro, e anche qui, quando vediamo questi lavoratori?

Solo quando diventano dei licenziati, ad esempio col caso milanese che tutti abbiamo coperto, quello dei lavoratori di "Virgilio", che abbiamo scoperto che esistono soltanto quando li hanno licenziati. Prima erano un mondo sconosciuto. Ci sono delle rimozioni che sono di parte, come dire, dei giornali "borghesi" tra virgolette, e ce ne sono anche da parte dei giornali di sinistra, come anche "Il manifesto".

Volevo farvi un esempio recente per dirvi che le cose cambiano in continuazione ma restano sempre uguali: il potere della FIAT sui quotidiani lo dimostra ancora una volta come viene trattata la vicenda che riguarda la crisi che sta attraversando, in particolare ovviamente sulla "La stampa". Sembra quasi una barzelletta, però il giorno in cui era uscita la notizia che la FIOM a Torino aveva fatto una conferenza stampa per dire che non era vero che a rischiare il posto di lavoro erano soltanto i 3.000 annunciati dalla Fiat, ma che guardando l’indotto sarebbero stati almeno 12.000. Ecco, nello stesso giorno, è successo che al pomeriggio Paolo Fresco per cinque minuti è uscito di controllo, l’addetto stampa della FIAT che lo tampinava era a Firenze ed era a un convegno, e ad una domanda mi sembra dell’ANSA che gli ha chiesto "ma lei cosa dice di questa cifra dei 12.000", lui ha risposto : "beh sì, è ovvio, perché quando uno dice che la FIAT ha 3.000 esuberanti, basta moltiplicare per 3 o per 4 e viene fuori quella cifra lì".

Ora, l’unico giornale che non ha pubblicato le dichiarazioni di Paolo Fresco, è stata "La stampa", come dire che è proprio un controllo tipo da caserma sul flusso delle notizie che riguardano la FIAT, però queste rimozioni, queste bugie, questo mettere le cose sotto il tappeto, secondo me è un male che riguarda anche il modo in cui i giornali, anche "Il manifesto", guarda ai lavoratori dipendenti.

Cioè c’è uno stare troppo comodi in qualche modo in stereotipi che ci portiamo dietro, ne nomino soltanto due, cioè che ci sia sempre una base che è più vogliosa di lottare di quanto lo siano i vertici, il che non è più vero; oppure le 35 ore, anche lì, se volessimo dire la verità fino in fondo, se volessimo fare delle inchieste vere, secondo me il risultato è di un freddo o al massimo tiepido interesse da parte dei lavoratori.

Un’altra cosa che sento, questa sì la sento come una specie di colpa, me l’ha fatta venire in mente la lettera che ha citato Sergio da "La repubblica". Ci sono dei meccanismi, in tutto il lavoro giornalistico ma soprattutto quello quotidiano, di assuefazione e di cinismo… non trovo un’altra parola per dirlo. Ad esempio, io ormai non sono più capace di parlare in un modo in qualche maniera intelligente di un omicidio bianco, di una morte sul lavoro. Mi sono interrogata molte volte su questo, e non capisco se è più il cinismo o se è più il senso di impotenza, nel senso che non so più come dirlo, mi sembra una ripetizione, una cosa che non riesce più a stimolare niente.

Un’altra differenza tra i media. È stato detto che il mezzo del cinema è stato molto più capace di seguire le modificazioni del mondo del lavoro di quanto lo siano stati i giornali scritti. L’esempio che si fa sempre è quello del cinema inglese. È in qualche modo vero, però anche se andiamo a vedere quei film lì, che cose mettono a tema? Mettono a tema la figura di un lavoratore che smette in qualche modo di esserlo, non ci dice qualcosa su quello che è o che diventerà, lavora su una cosa che finisce, non sul nuovo, mi sembra.

Un’ultima annotazione la volevo fare sui lavoratori immigrati, per dire una cosa, che ho trovato sempre molto più stimolante incontrare e parlare con un lavoratore immigrato di quanto lo siano le cose che ha da dirmi un lavoratore normale, italiano, e mi sono chiesta perché questo. Ovviamente sì, è vero, perché c’è un’esperienza del mondo che è molto più ampia, è come se avessi la sensazione che ormai quest’esperienza del mondo sia quella che gli operai che io ho conosciuto all’inizio, 30 - 40 anni fa, invece facevano nella fabbrica, che consideravano la loro università. È come se questo bagaglio di conoscenze che ha un lavoratore, ormai non venisse più dal lavoro in quanto tale, ma dalla sua esperienza veramente complessiva della vita, e anche questo secondo me meriterebbe un’attenzione più attenta, ma di nuovo si cadrebbe in queste storie di vita che neppure un giornale come "Il manifesto" fa assolutamente, sul lavoro.

 

Sergio Segio

 

Grazie a Manuela Cartosio, con una precisazione: io non parlo di colpe dei giornalisti, semmai di responsabilità. Io credo che fondamentalmente ci siano dei vincoli forti del sistema informazione, che però spesso è un prodotto umano, quindi correggibile. Che poi ci siano delle responsabilità, qui è stato accennato sia da te che da Bianconi il discorso della proprietà dei mezzi d’informazione, che evidentemente è dirimente sotto molti aspetti, compreso quello della selezione delle notizie, della gerarchia delle stesse.

Su questo io credo che ci sia possibilità di intervenire per creare poi delle interazioni, che nascono anche dalla consapevolezza, ovviamente, di esprimersi come l’informazione opera, per non rivoluzionare il sistema, perché sicuramente ha dei vincoli economici troppo ampi. Però sicuramente per aprire se non altro delle fessure. Una terza pagina del sociale è ipotizzabile sui grandi quotidiani, con spazi fissi, però quanto meno bisognerebbe creare dei pertugi perché tutto ciò cominci ad avere una visibilità.

Sulla cosa dei morti sul lavoro che ora citavi, i morti sul lavoro sono individualità. Il singolo morto di Rozzano dell’altro giorno ha una famiglia, voglio dire. È costruibile come notizia, storia, come racconto. Ma sono anche fenomeno sociale, ci sono 1.300 morti in media all’anno, che pigliano anche dei risvolti di carattere economico, etc.

Però anche questo mi sembra, come dire, un caso di specie dal punto di vista delle omissioni del sistema dell’informazione su cui si potrebbe lavorare, e su cui i grandi media, secondo me, dovrebbero e potrebbero raccogliere gli stimoli, talvolta altamente professionali, che vengono dal sociale.

Ora ci sono gli interventi di Riccardo Bonacina, che è direttore di "Vita", e di Stefano Trasatti, che è redattore di dell’agenzia "Redattore sociale", poi c’è l’intervento di Antonio Panzeri, ed io credo quindi che avremo ancora un po’ di tempo per eventuali domande o interventi. Uno degli interrogativi che porrei, adesso, a Bonacina e Trasatti, se sono d’accordo, è di cercare di capire di più assieme perché quel che è stato citato da Magnaschi, il caso di "Vita", è pionieristico sotto molti punti di vista. Informazione qualificata e professionale. Perché la grande informazione non raccoglie i contributi e gli stimoli materiali che dall’informazione sociale vengono forniti su un piatto d’oro? Quindi, voglio dire, c’è un’impermeabilità tra questi due sistemi?

 

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