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Associazione "Diritti umani - Sviluppo umano" di Padova e Associazione "Antigone" Il difensore civico per le carceri
Marco Mona
Interazioni tra organizzazioni non governative (ONG) e Ombudsperson Ringrazio l’associazione Diritti Umani e Sviluppo Umano e Antigone per avermi invitato a partecipare a questo interessantissimo seminario che tocca un tema che ci sta molto a cuore, spiegherò perché. Antigone si conosce nel mondo dei diritti umani, specie tra organizzazioni che si occupano di diritti e garanzie per le persone private della loro libertà - ho avuto occasione di conoscere l’organizzazione un po’ più da vicino quando due rappresentanti di Antigone parteciparono ad uno dei nostri seminari sub regionali (sub regionali in termini europei) a Onati, un paese basco. Il tema del seminario era l’implementazione pratica della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura, e Antigone ha dato un grandissimo contributo all’ottima riuscita del seminario. Se in questa sessione parliamo di "international framework" non è certo a caso che ci ritroviamo, a questa tavola rotonda, cinque partecipanti al seminario di Onati. Non posso svolgere il mio tema senza introdurre l’Associazione per la Prevenzione della Tortura, APT. È chiaro che da buon presidente di un ONG non tralascio la ghiotta occasione di uno spot pubblicitario per la mia organizzazione ma state tranquilli, la cosa serve anche per portare avanti il nostro discorso. Poi parlerò brevissimamente del ruolo che possono avere le ONG per, finalmente toccare quello che interessa: ci vogliono le ONG perché l’Ombudsperson possa fare un lavoro efficace? L’APT è una ONG internazionale che ha base a Ginevra. Attualmente vi lavorano otto persone (troppo poche ma tutte con ammirevole impegno), una segretaria generale, due persone che si occupano dei dossier europei, due che operano nel settore extraeuropeo (e nell’ambito delle istituzioni dei diritti umani dell’ONU), e tre che curano il settore amministrativo. Io stesso ne sono presidente, ma sono per così dire un esterno, svolgo questo compito per passatempo, di mestiere faccio lo scrivano pubblico, è così che mi piace definire il mio mestiere di avvocato, che svolgo a Zurigo. Gli inizi dell’ APT sono del 1977 (allora l’organizzazione si chiamava Comité Suisse contre la Torture): il suo fondatore, il banchiere e umanista ginevrino Jean Jacques Guatier, a una svolta della sua vita, decise che non bastava indignarsi di fronte alla piaga della tortura e dei trattamenti inumani e crudeli. Lasciò la sua banca e si dedicò interamente alla sua idea della prevenzione: ci vogliono, disse, uno e più strumenti preventivi - accanto e in complemento agli strumenti di repressione, di denuncia e di cura alle vittime - dei sistemi ufficialmente riconosciuti di visita a tutti i luoghi di detenzione per depistare sin dall’inizio, prima ancora che possano agire, i meccanismi che possono portare a maltrattamenti e torture. Vi sembra un’idea semplice e utile? Però non era facile farla passare, ci volle una alta dose di tenacia da parte dei nostri predecessori prima che l’idea iniziasse a realizzarsi. La prima realizzazione, dopo dieci anni di lotta, fu la "Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani, crudeli e degradanti" firmata nel 1987 da tutti gli Stati che allora facevano parte del Consiglio d’Europa (ed era una sorpresa generale che tutti firmassero, perché la Convenzione, come certamente sapete, prevede una insolita interferenza "straniera" in questioni di sovranità che normalmente sono oggetto di massima gelosia nazionale). E oggi sono più di trenta gli Stati aderenti alla Convenzione che prevede un comitato europeo (CPT), di cui il prof. Economides è un esimio membro, cui spetta il dovere ed il diritto di visitare ad ogni momento in tutti gli Stati firmatari tutti i luoghi in cui persone sono private delle loro libertà ( per intenderci: prigioni, posti di polizia, posti di raccolta per rifugiati, istituti di correzione per giovani, ma anche istituzioni psichiatriche, etc.) secondo delle regole ben definite e con il ruolo principale di dialogare con le autorità competenti dello Stato visitato. Dieci anni fa l’interrogativo era: funzionerà questa idea, permetteranno gli Stati, i direttori di prigioni, i capi dei posti di polizia, che dei ficcanasi esperti entrino nei loro regni per individuare i meccanismi che potrebbero portare a trattamenti inumani e alla tortura? Oggi, dopo otto anni di funzionamento concreto, la risposta è chiara: funziona; merita il nostro rispetto e soprattutto il nostro appoggio. Non è che l’operato dell’ APT si fermi qui, rimanga europeo. Noi siamo un’associazione con un crescente numero di membri (e persone ed organizzazioni amiche), in molti Paesi del mondo, tutti fissati su questa semplice idea di prevenzione, che contribuiscono divulgando l’idea, facendo parte della nostra rete di informazione e azione, sostenendo, con noi, per esempio l’azione del CPT europeo. Gli obiettivi dell’ APT sono la prevenzione della tortura attraverso: - la promozione di un sistema di visite preventive fatte da un organo convenzionale a livello regionale o universale ed il sostegno di sistemi esistenti; - servire da catalizzatore per la riflessione generale su altri strumenti preventivi a livello nazionale, regionale e universale (dall’Ombudsperson nazionale all’attività del CAT, il Comitato contro la Tortura della Commissione dei diritti dell’ONU); - l’identificazione di categorie a rischio (attivo o passivo) di tortura e trattamenti disumani: persone, situazioni, professioni, al fine di individuare i meccanismi che possono portare alla tortura e proporre le misure preventive adeguate; - l’aumento della presa di coscienza e formazione interdisciplinare per le professioni interessate, i sindacati delle categorie toccate, e delle ONG sui mezzi di prevenzione; - ricerca e stesura di rapporti e pubblicazioni su condizioni di detenzione, standards, legislatura; dare seguito alle visite del CPT nei vari Stati (di cui la stragrande maggioranza pubblica i rapporti di visita del CPT) per stabilire se lo Stato visitato da seguito alle raccomandazioni del CPT. Vediamo che la prevenzione della tortura si fa in diversi modi. In teoria è molto interessante stabilire se uno Stato usa o no la tortura e i trattamenti degradanti sistematicamente. Però in pratica è più importante stabilire quali sono le relazioni delle autorità dello Stato al fenomeno della tortura e dei trattamenti disumani scoperti entro i propri confini: il solenne e ovvio impegno dello stato di diritto contro ogni genere di tortura e maltrattamento è effettivamente tradotto in una volontà politica applicata ovunque e fino in fondo? Il CPT riscontra il fenomeno dappertutto, non c’è uno Stato che si salvi: vi è maltrattamento in Svizzera, Paese ricco e, per molti, al disopra di ogni sospetto, vi è in Svezia dove l’isolamento in pulitissime celle costruite anti - suono, anti - tutto insomma, risulta essere una condizione gravissima per la persona che vi deve passare giorni, settimane, mesi. E sono, di norma, i marginali della società che soffrono più di altri la tortura ed i maltrattamenti - sono i rifugiati, i migranti illegali, gente che appartiene a minoranze etniche e religiose -... è in effetti spesso possibile identificare quali sono i gruppi più esposti al rischio di essere torturati, ed è perciò possibile prevenire. La maggior parte del lavoro preventivo oggi è fatto attraverso visite nei posti di detenzione. Lo fa il CPT europeo, lo fanno altri enti, Ombudspersons (in Inghilterra, e non solo lì, vi è un Ombudsperson per le prigioni a cui i detenuti si possono rivolgere; però c’è anche un "ispector general for Prisons" indipendente, una istituzione garantista con 20 persone che oggi vi lavorano con grande passione), commissioni parlamentari, "board of visitors" e altri; lo fanno, in certi Stati le ONG che hanno accesso ai luoghi di detenzione per: - vedere i detenuti e parlare con loro per togliere l’anonimato; - stendere dei rapporti sulle condizioni di detenzione e, se necessario, renderli pubblici; - formare ed informare chi lavora nei posti di detenzione, una misura formidabile di sostegno a chi lotta per garantire condizioni umane dall’interno delle istituzioni. E poi c’è, evidentemente, anche la lotta contro l’impunità, fenomeno presente un po’ ovunque, e la prevenzione attraverso l’identificazione di fori nel sistema di maglie che stabilisce lo stato di diritto (la definizione di standards nei sistemi di detenzione, la lotta contro l’isolamento. etc.), due settori dove ovviamente sono chiamati in causa in primo luogo le ONG nazionali. Parentesi: piacerebbe tanto, a noi dell’ APT, stendere e tenere aggiornato un elenco di tutti i meccanismi nazionali; ora non ne abbiamo i mezzi (in persone e soldi), ma ci arriveremo. Parentesi chiusa. Abbiamo già accennato qua e la al ruolo delle ONG in questo lavoro di prevenzione. Sono loro che, tanto quanto le istituzioni accademiche dei diritti umani, sanno e devono fare le ricerche sul posto, ricerche teoriche concernenti la legislazione, la prassi dei tribunali e delle istituzioni europee, le proposte di definizione di standards, ricerche pratiche per costatare quali sono i fatti, i risultati delle regole procedurali che spesso, in astratto, suonano così bene. Sono le ONG che possono identificare le categorie a rischio e le situazioni a rischio di maltrattamenti a livello nazionale e possono anche occuparsene, per esempio, proponendo un controllo interno di qualità e proponendo anche di curare tale controllo, perché no? Se poi le ONG si limiteranno a denunciare ciò che hanno individuato oppure si dedicheranno al compito ben più complesso e impegnativo della cooperazione e della ricerca di un dialogo con gli interlocutori e le interlocutrici (per esempio il personale carcerario, gli operatori sociali, il personale sanitario della prigione che tanto spesso si trova in situazioni conflittuali impossibili), con le autorità, con le istituzioni nazionali e sopranazionali di prevenzione, tale scelta dipenderà dal carattere dell’organizzazione ma anche dai mezzi e dal fiato a disposizione. Comunque il dialogo e la cooperazione sono di regola utili per tutte le parti in causa, sempre che il ruolo e l’identità di ogni protagonista sia ben chiaro e lo rimanga durante tutto il processo. Una ONG non avrà mai lo stesso modo di pensare né lo stesso linguaggio di un rappresentante dell’autorità, ed è bene che sia così se l’operazione vuole essere utile. Ciononostante, o proprio per questo l’autorità, o lo Stato fa bene ad impegnarsi in questo tipo di dialogo, anzi ad ascoltare attentamente, a superare quel fastidio che sembra troppo spesso sentire non appena entra in scena una ONG. Perché le ONG rappresentano delle opinioni, delle correnti, delle priorità all’interno della società civile ed i veri cambiamenti non sono quelli imposti dall’esterno, sono quelli che nascono all’interno del Paese. Parlo di Ombudsperson e non Ombudsman e so di essere un po’ rompiscatole (una ottima qualità ONG) perché mi ostino a non ammettere che là dove si usa il termine uomo (o "man" in Ombudsman) siamo cortesemente invitati a considerare che le donne vi sono automaticamente e miracolosamente comprese. Vi siete già immaginati il contrario? Per evitare tale trappola uso il termine Ombudsperson (OP), quando non è chiaro se la o il protagonista sia uomo o donna. Le interazioni possibili tra OP e ONG sono molteplici, dipenderanno molto anche dalla fantasia degli interlocutori, e che l’OP debba fruire di una buona dose di fantasia per svolgere il suo compito mi sembra chiaro, tanto chiaro come il fatto che una delle caratteristiche principali dell’ONG, immediatamente dopo la tenacia e l’insistenza, sia appunto quella della fantasia, dell’inventare vie e soluzioni laddove tutti gli altri già da tempo dicono: oramai... Premetto che le esperienze che conosciamo ci dicono che l’istituzione dell’OP è onorata da molto prestigio e da alte aspettative; normalmente poi le persone incaricate sono scelte in funzione di tale prestigio e delle alte attese di indipendenza e incorruttibilità. Ma da lì a voler dedurre che il lavoro dell’OP sia una passeggiata, che trovi ovunque porte aperte, situazioni trasparenti, funzionari pronti ad aprire tutti i loro libri e calepini, sarebbe un grosso errore. Ma proprio qui subentrano le ONG - una come la nostra che dispone e sviluppa ulteriormente di una solida rete di informazioni - ma meglio ancora le ONG nazionali che sanno, conoscono, hanno accesso ad informazioni di prima mano. In un seminario del Consiglio d’Europa che data già 1982 e che si tenne a Siena il tema era: l’OP quale mezzo non giudiziario per la tutela dei diritti umani. Gli atti di tale seminario ed il susseguente rapporto alla Direzione dei Diritti Umani a Strasburgo, senza parlare tanto di ONG, sottolineano quanto è importante avere a disposizione degli strumenti terzi, né "giudici" né "giudicati", per esempio: 1.- per divulgare l’esistenza e le competenze dell’OP. Lo farà già l’OP stessa, ma risulta più credibile se le ONG che operano nel settore dei diritti delle persone detenute invitano a rivolgersi a...; molto spesso i nostri interlocutori e le nostre interlocutrici a rischio di maltrattamenti in detenzione non hanno grande fiducia nelle istituzioni dello Stato; e l’OP risulta essere una di queste. Per essere sentiti dall’OP non è necessario avere né un avvocato né fornirsi di carta bollata. Naturalmente non può essere interesse delle ONG né delle OP né tantomeno di ogni tendenza garantista nel settore dei diritti umani, di soffocare le amministrazioni, gli uffici, le direzioni dei penitenziari, etc. in procedure, inchieste, doveri di rendiconto ed altro. Sappiamo che ne hanno già troppi di compiti di questo genere che impediscono di fare delle cose più intelligenti. Con ciò voglio dire: non è il massimo di una nostra attesa quella di vedere il numero delle richieste rivolte alle OP moltiplicato (anzi, l’ideale sarebbe un calo drastico delle richieste per mancanza di bisogno), d’altra parte deve essere la nostra rivendicazione prioritaria che ogni persona, anche la più umile ( anche la più "colpevole") abbia un facile accesso alla protezione dei suoi diritti umani. Una ottima misura del sistema delle garanzie, l’efficacia dell’istituzione di un OP è in effetti la sua accessibilità per un marginale analfabeta. l’ONG può vegliare. 2.- naturalmente l’OP si confronta con le storie più incredibili, deve poter verificare le informazioni e lo farà sul posto, con le istituzioni ed i suoi funzionari. Ma deve poter disporre anche di informazioni non filtrate, non inquinate, e le cercherà, con la dovuta cautela, presso le ONG. E le ONG possono, senza dover avere paura di ritorsioni, sollevare problemi e questioni che incontrano nel loro lavoro pratico, additare i casi di - come il CPT troppo gentilmente chiama - sproporzionato uso della forza, e insistere che il caso sia investigato fino in fondo anche se la persona che ha preso le sberle è oramai libera e magari non crede più in una investigazione. 3.- è poi altamente importante il flusso di informazioni continuo sull’evolvere della giurisprudenza, della prassi, degli standards valevoli nel settore dei diritti umani, delle tendenze che si stanno sviluppando nella società civile. Se domani vedrà la luce l’istituzione dell’OP, competente per i luoghi di detenzione, sarà ben presto inondata da quintali di carta; le ONG con le loro competenze e le loro pubblicazioni possono operare una scelta, possono informare per esempio su quanto il CPT europeo trova e raccomanda nello svolgimento del suo compito. 4.- e analogamente ci vuole chi divulga ciò che fa, ciò che vede e decide l’OP che avrà, naturalmente un suo strumento di resa dei conti, ma ciò raramente basta. Il ruolo delle ONG sarà pure quello di verificare se effettivamente le misure e raccomandazioni adottate dall’OP sono applicate in modo durevole ed efficace. 5.- aiutare a mantenere l’indipendenza del difensore civico. È l’elemento che, evidentemente, ci sta più a cuore. E quindi bisogna dire che ci sono due aspetti quando parliamo di indipendenza. Vi è da prima quella formale: l’OP deve, nell’organigramma, stare all’esterno di linee di pressione politica e/o amministrativa. Però non basta e nemmeno è una garanzia, perché ci vogliono le persone indipendenti per fare questo tipo di mestiere, indipendenti e con la grinta sufficiente. E a volte basta questo. Faccio un esempio: il mio amico Rodriguez Maximiliano che è, di fatto, un eccellente Ombudsman della polizia portoghese, formalmente non ha quel titolo perché è inserito nell’organigramma del MInistero degli Interni, ma la sua persona, la sua storia, è garanzia sufficiente. A ciò si aggiunge, bisogna dirlo, il fermo sostegno del Ministro a cui è subordinato direttamente. Ero in Portogallo quando fu, un anno e mezzo fa, annunciata la sua nomina ed il giudizio dei giornali fu unanime: questo è l’uomo che ci vuole. Lui stesso rincara la dose: "se non funziona, me ne vado". Lo farebbe anche, ne sono certo, ma evidentemente funziona. Con o senza indipendenza formale: sono le ONG che meglio si prestano a vigilare l’indipendenza di fatto dell’OP, a sostenerla pubblicamente nel suo operato che qua e là lascia tracce anche dolorose. I difensori civici che conosco lo sanno e mantengono stretti contatti con le maggiori ONG che operano negli stessi settori. D’altronde tanto nella ricerca dell’indipendenza quanto in quella dell’informazione e nella sua divulgazione non vi è senso unico; ne trae vantaggi l’OP tanto come le ONG, anche loro interessate a potersi avvalere della qualifica di ONG indipendenti. 6.- chi interviene a favore delle vittime dell’OP? Perché niente e nessuno è infallibile, anche l’OP può sbagliare e proprio perché si tratta di uno strumento extragiudiziario lo sbaglio dell’OP è inappellabile. E non è certo l’amministrazione che "fruisce" dello sbaglio che correrà ai ripari a favore della persona che non trova l’attenzione dovuta ma sarà, di nuovo, l’ONG. Ecco quindi alcuni esempi di interazione tra OP e ONG. Ce ne sono altri ed altri ancora bisognerà inventarli. Chiudo sottolineando il nostro vivissimo interesse per la creazione dell’istituto del difensore civico nazionale (con l’attribuzione di compiti e mezzi specifici nel settore dei luoghi di detenzione) e auguro a voi, e a me stesso, che l’iniziativa che qui discutiamo abbia successo, e presto. Così sarebbe anche più probabile che ci si riveda; e mi auguro anche questo.
Patrizio Gonnella Ringrazio Marco Mona. Ora lascio la parola al dott. Franco Maisto per le conclusioni di questa prima parte della giornata.
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