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Anelli, competenze in rete per i volontari della giustizia Forlimpopoli, 23 settembre 2005 ore 17.30
Intervento di Livio Ferrari (Presidente del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo)
Quando si tratta di formazione mi piace spendermi volentieri, qui però, facendo una fotografia, guardando il pubblico si nota subito la differenza: le donne sono la stragrande maggioranza e noi uomini siamo molto pochi, e così diciamo, non è proprio nella misura di oggi, ma anche nel volontariato del carcere ci sono più donne che uomini, poi se qualcuno di voi vuole vedere i dati di tutto questo sul nostro sito internet è pubblicata la ricerca che ormai da quattro anni facciamo, pubblicata nel giugno scorso relativamente ai dati del 2004. (www.volontariatogiustizia.it) Credo di essere stato invitato qua soprattutto per provocare un interesse e dare il senso anche un po’ al mio ruolo, purtroppo dovrò sintetizzare, ma è un argomento molto complesso. Parlare del volontariato, parlare del mondo della giustizia e del carcere in particolare, che è un segmento del mondo della giustizia, sicuramente ci porterebbe via tanto tempo, quel tempo che voi avrete nel momento della formazione. Però anche per quello che è il primo input, la prima disamina, vorrei partire con una provocazione, nel senso che sono molto preoccupato, vi spiego perché: perché sia il Magistrato Rossi, sia il Provveditore Cesari, e tutti quanti, hanno iniziato con una grande sviolinata "noi dei volontari abbiamo bisogno", il che significa che siamo alla frutta. Lo dico per un motivo molto semplice, perché nella mia esperienza i primi anni che entravamo in carcere non ci volevano, facevano di tutto perché non entrassimo. L’esperienza del volontariato è di una grande fatica nel rompere il muro del carcere, nel senso culturale, nel senso della fatica di portare il territorio dentro un’istituzione chiusa, ecco questa è l’esperienza del volontariato. È un volontariato che noi fotografiamo oggi nel 2005, ma è un volontariato dentro un carcere di tante carceri, in un’Italia di tante italie, è un volontariato che nasce in una dinamica completamente diversa; oggi lo vediamo organizzato, e ben venga, la formazione è una preoccupazione e un’energia che viene espressa continuamente, ma il volontariato nasce in tutt’altra maniera. Il discorso della chiesa ha una doppia funzione, qui se ne parlava nel senso buono del termine, cioè la chiesa come espressione di valori da portare all’interno del carcere, ma è stata anche una questione di poteri, non solo di valori, perché come ricordava prima il Provveditore, le suore gestivano gli istituti femminili, il cappellano che oggi è più o meno il volontario, quasi, seppure con un leggero stipendio, fino alla riforma del 1975 faceva parte del Consiglio di Disciplina ed era uno che chiedeva anche mazzate per i detenuti, non era un santarellino. Perciò voglio dire se poi guardiamo tutte queste cose, vediamo che la fotografia è un po’ diversa. La prima presenza nel mondo che voleva influire positivamente sul reinserimento sociale del condannato noi la troviamo nelle leggi dello Stato italiano con un Regio Decreto del 1931, successivamente il grande passo dopo la guerra, un passo che oggi ci fa ridere, ma che allora era un grande passo, ci fu nel 1954 con una Circolare che recitava: "(...) Gli assistenti carcerari, assimilati agli organi ausiliari del Consiglio di Patronato, devono essere persone di specchiata moralità e benemerite dell’assistenza ai detenuti". Perciò pensate che siamo in tutto un altro mondo, tutta un’altra storia, tutto un altro concetto di quello che è essere volontari oggi, tutto un passaggio temporale di quello che è stato un volontariato assistenziale degli anni ‘50, ma anche ‘60 e ‘70, successivamente alla riforma iniziamo ad avere un volontariato un po’ più cosciente; io lo chiamerei volontariato carcerario anni ‘75/’85. La svolta decisiva per un volontariato che esce dall’assistenzialismo, che ha ancora paura a muoversi nel territorio, perché in fondo il carcere è un luogo che ci fa sentire sicuri anche a noi volontari, abbiamo delle modalità molto tecniche, precise, un rapporto semplice, lì dentro entriamo facciamo il nostro lavoro poi torniamo a casa ed è finito tutto. Mentre il lavoro del volontariato nasce nel territorio, entra nel carcere e si riproduce nel territorio, perché il luogo da cui proviene ogni essere umano non è il carcere, è il territorio, perciò è lì che deve ritornare ed lì che bisogna seminare. Quindi il volontariato che inizia a muoversi diversamente è quello che nasce anche sulla spinta della Gozzini, del 1986, è un volontariato che trova più forza, e negli anni, io ho visto proprio il cambiamento a fine anni ‘80, mi ricordo il SEAC che è la più antica organizzazione nazionale che una volta era il Segretariato enti carcerati (?), adesso è il Coordinamento Nazionale Volontariato Penitenziario, che è nato nel 1967, quando io divenni presidente del Seac, mi ricordo che la maggior parte del volontariato aderente al Seac era rappresentato da volontari singoli, li abbiamo decimati, nel senso che abbiamo creato un’attenzione diversa attraverso il volontariato organizzato, noi abbiamo promosso il volontariato organizzato, negli anni successivi il volontario singolo è rimasto proprio un caso isolato. Perché il volontariato organizzato ha la necessità di essere tale, cioè un volontario singolo non ha le risorse, ma anche gli strumenti, i progetti, il contatto, il dialogo, la contrattualità politica. Il ruolo che il volontariato si è assunto in questi anni è un ruolo politico nella società civile, perché in fondo se voi guardate un po’ anche come si è distribuita, come è cambiata l’Italia, anche perché noi dobbiamo un po’ fotografare il tutto all’interno della realtà attuale, molti di coloro che erano i capisaldi del nostro mondo, penso ai sindacati, ma anche altre organizzazioni, che tutelavano delle fette deboli della nostra società; lo stesso ente locale che tutelava in un’altra maniera, magari più assistenzialista, ma che tutelava una certa fetta, adesso non ha più queste modalità. Tutto è basato sul rapporto produzione/risultato; il denaro è il rapporto che esiste, in Italia con tanti milioni di abitanti che abbiamo, siamo circa 56 milioni, abbiamo ancora circa 10 milioni di poveri, con addirittura 7 milioni di poveri che non sanno come sbarcare il lunario tutti i giorni. Perciò questa ce la dice lunga sul fatto che non siamo cresciuti esponenzialmente rispetto alle conquiste sociali anche dal punto di vista della qualità della vita dei nostri territori. Noi adesso ci siamo abituati a convivere con la morte attraverso i telegiornali, a passare sopra ai barboni in mezzo alla strada, li superiamo senza preoccuparci più. Ormai il nostro impatto emotivo rispetto alle persone in difficoltà, ai drammi, ai dolori è stato sicuramente modificato dai mezzi di comunicazione; mi ricordo che le prime volte che succedeva di vedere qualche immagine dolorosa per TV c’era un sollevamento popolare, adesso guardiamo qualsiasi cosa durante un break, uno spuntino, ecc., e non ci facciamo caso, anzi la comunicazione tende poi ad enfatizzare, a drammatizzare, o addirittura a rendere spettacolo cose che sono di una drammaticità, ed è umiliante anche dal punto di vista umano, della dignità delle persone. Ritornando al volontariato di adesso, questo è un volontariato impegnato nella giustizia, perché ha capito il suo senso, il suo ruolo, quello che una volta era visto come ruolo profetico del volontariato, che è quello di essere l’ultima roccaforte a difesa dei più deboli, ma anche perché, rispetto a tutti gli altri soggetti che esistono nella nostra società attuale, parlo dell’Italia soprattutto in questo momento, è l’unico che non può avere nessun tipo di condizionamento. È l’unico che non ha bisogno di essere pagato, che non ha contrattualità da questo punto di vista. Una cooperativa sociale, in fondo, che sono i parenti del volontariato, il terzo settore fa anche volontariato, sono soggetti importanti, che lo fanno con spirito di volontariato, però a fine mese devono portare a casa uno stipendio e se il tal appalto va male a fine mese va male tutto, devono chiudere. E allora vedete come anche lì la solidarietà è condizionata dalla questione remunerativa. Il volontariato dunque ha questo ruolo, e questo ruolo è prezioso, lo dico a quelli che faranno i volontari, la vostra coscienza deve essere sempre forte, dovete sempre sapere che nessuno vi può condizionare; non c’è direttore di carcere, non c’è direttore dell’amministrazione penitenziaria, non c’è capo dello stato che vi può condizionare; l’unica cosa che deve condizionarvi è la vostra morale, la vostra etica e la dignità delle persone, mai calpestare la dignità delle persone. Questo è il senso alto del nostro ruolo, il senso di andare lì dove ci sono dei disastri, lì dove tutti vanno lontano, e noi invece ci siamo per riaffermare il senso della socialità, di una vita fatta veramente di giustizia, di una vita fatta veramente di pace. Però questi sono sempre spesso discorsi, perché alla fine anche noi se iniziamo a parlare di cose tecniche rischiamo di cadere nella trappola del carcere come un luogo normale. Io è da tanti anni che entro in carcere, ma non riesco a viverlo come un luogo normale, non riesco a pensare a un essere umano chiuso dentro quella gabbia; da sempre, mi ricordo di quando mi avvicinai a questo mondo, da sempre tutti, anche i più grossi pensatori di questo settore, parlavano del carcere come estrema ratio, anche se adesso può sembrare un’immagine un po’ desueta; cioè proprio il luogo conclusivo, finale, dove non se ne poteva fare a meno, perché quei soggetti lì non si poteva in altra maniera ricondurli alla ragione. Oggi invece è tutto il contrario; se per anni si è lavorato tutti per ridurre il carcere sempre di più, oggi stiamo esportando il modello carcere sul territorio. Voi guardate come in tutte le varie città si continuano a mettere le telecamere agli angoli delle strade, anche in carcere tu entri e sei controllato, e anche noi dobbiamo essere controllati: il Grande Fratello, il controllo sul telefono, il controllo su internet, il satellite, in maniera che tutti siamo sotto questo controllo. Invece di creare una società che ha più fiducia di se stessa, abbiamo creato una società, e di questo siamo tutti responsabili, dove tutti controllano tutti, dove tutto è diventato "orwelliano". È inverosimile questo nella logica che proponiamo noi, è inverosimile per noi volontari, perciò lo sarà anche per voi nel momento in cui affronterete questo impatto, questo percorso, perché quello che proponiamo noi è altro. Mi piace sentire che nel vostro progetto c’entra la mediazione penale, noi abbiamo iniziato dieci anni fa a proporla, a parlarne, di una mediazione che riuscisse a ridare alla vittima, perché noi del volontariato del carcere pensiamo sempre agli autori dei reati, ma sono le vittime. Noi abbiamo fatto un seminario sul Lago di Garda, drammatico nei contenuti e nell’incontro delle persone; abbiamo fatto incontrare gli autori del reato con le vittime, con testimonianze dolorosissime, però ricordo ancora che alla fine di questo seminario una vittima ci chiese perché noi, che da anni andavamo dietro ai delinquenti, non aiutavamo anche loro, le vittime, che allo stesso modo sono sole e lasciate sole dallo Stato, e sono sole nel territorio e nelle città. Perciò un grido di dolore anche dalle vittime; e in fondo il carcere di adesso, non voglio che qualcuno pensi che sto esagerando, non è un carcere della rieducazione, non è quel carcere della speranza di cui parlava Amato negli anni ‘80, è il carcere della vendetta, perché non aiuta nella rieducazione, come ci dicono i numeri, e persegue solo il senso vendicativo. Uno commette un reato e per quel reato viene carcerato, con nessuna restituzione del danno per chi l’ha subito e, anzi al danno si aggiunge la beffa, tutta la comunità deve pagare fior fiori di quattrini per mantenere una macchina che significa tenerlo recluso, quando invece ci potrebbero essere altre strade, e la mediazione penale è una di queste, non è certo la panacea, ma è una delle strade che si potrebbero percorrere per ridare a chi ha subito, se non direttamente, faccio una parentesi: ricordo una volta parlammo di mediazione a Sciacca, che è una cittadina molto bella ed anche molto tragicamente segnata della Sicilia, e una signora si alzò e mi disse che parlavo bene, ma lei aveva avuto ammazzato il marito e un figlio; in un caso del genere cosa si risponde, certamente nessuno può ridarglieli indietro, ma eventualmente se la persona avrà acquisito coscienza del proprio errore potrà ridare alla società, se non proprio a chi direttamente ha ferito. La cocciutaggine di mantenere tutto sotto la repressione e l’esercizio della restrizione della libertà personale non porta da nessuna parte, non aiuta a creare una società che riesce a diminuire i propri conflitti, anzi il contrario; guardiamo i numeri, siamo arrivati a 60.000 detenuti nelle carceri italiane, ad oggi non nell’arco di un anno, insieme a questi dobbiamo aggiungerci altre 47.000 persone che fanno parte dell’area detentiva, che sono quelle in misura alternativa, in affidamento sociale e quelli agli arresti domiciliari; i dati sono questi al 30 dicembre dello scorso anno avevamo 32.085 persone in affidamento in prova al servizio sociale, anche se su questi ci sarebbe da aprire una grossissima parentesi, di questi solo 5.700 venivano dal carcere, qui faccio presente specialmente al Magistrato di Sorveglianza e ai servizi sociali quanto sia difficile che le misure alternative trovino efficacia dal carcere, nonostante il numero alto di affidamenti in prova. Mentre 14.645 erano le detenzioni domiciliari, delle quali 3.348 quelle provenienti dal carcere; questi sono i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Perciò noi abbiamo complessivamente un’area di persone in detenzione, dentro e fuori, di 110.000; storicamente non è mai esistito un numero così alto. Allora io mi faccio una critica, così voi volontari, se avete voglia di fare i volontari, dovete sapere che dovete guardare anche in faccia quello che state facendo, non pensare di essere più buoni o più bravi di altri solo perché andate gratuitamente in carcere; io mi sono fatto una critica perché ad un certo punto ho sentito il rischio del fallimento anche della nostra azione. Pur se in tutti questi anni c’è stata una grande espressione di qualità, ve lo posso assicurare, e credo che anche gli amministratori della giurisdizione penitenziaria, dal Provveditore alla direttrice, ecc. , chi opera in carcere, il centro servizi sociali, possa dire che i volontari in fondo in qualche cosina sono migliorati, grazie anche alle tante lotte. Io ricordo ad esempio con la dott.ssa Casella uno scontro bellissimo: lei si arrabbiava tantissimo, ed aveva pure ragione di arrabbiarsi, perché alcuni di noi ne facevano di tutti i colori, ed io lì dovevo fare la parte di quello che tutelava anche gli altri volontari, compresi quelli che commettevano delle stupidaggini; insomma lei una volta si arrabbiò tantissimo e disse che ci avrebbe cacciati tutti. Le risposi che andava bene, così noi avevamo più tempo libero ed i problemi se li sarebbe risolti da sola. Si arrabbiò ancora di più, ma non disse più quella frase, probabilmente capì la minaccia. Perché in effetti è così, noi in fondo avremmo molto più tempo libero e al pomeriggio anziché andare il carcere potremmo andare al mare, o chissà. Però quello che voglio dire, invece, è che noi dobbiamo stare molto attenti: io ad un certo punto, nel 2001, ho avuto una crisi, non una crisi esistenziale, una crisi di numeri, perché ho fatto un’analisi, ho guardato la popolazione detenuta nel 1991, erano 31.000 detenuti; ho guardato la popolazione detenuta del 2001 ed erano 51.000, ce n’erano 20.000 in più. Ho guardato i morti nel carcere, per suicidi, nel ‘91, erano 31; ho guardato quelli del 2001, erano 72, e via via, in maniera drammatica i dati dell’aumento dell’autolesionismo, delle violenze, ecc.; allora mi sono chiesto: se noi volontari nel ‘91 eravamo sì e no un migliaio e adesso siamo circa 6.000, abbiamo prodotto una serie di iniziative infinite, di inserimenti lavorativi, di attività interne, teatrali, culturali, ci sono 50 giornali delle carceri italiane su 207 istituti; vi ricordo sempre che stiamo parlando di adulti, c’è anche il carcere minorile, che però è tutta un’altra realtà; se noi abbiamo fatto tutto questo, e nonostante tutto non siamo serviti a migliorare la qualità della vita dentro, a diminuire il numero, vuol dire allora che non serviamo a niente, o addirittura peggio siamo funzionali ad un sistema che non va. È una domanda che dobbiamo farci, è una riflessione che dobbiamo fare ad occhi aperti, essendo ben coscienti del proprio ruolo, è anche una provocazione quella che vi faccio oggi, perché poi le dinamiche e le risposte ci sono, però , questo lo dico a chi si pone nell’attività di volontario, si deve aver sempre la coscienza di ciò che si sta facendo, la coscienza che il proprio ruolo inizia nell’associazione, prosegue in carcere e poi torna fuori, con gli enti locali, e con tutte le altre risorse del territorio. Perché, a parte alcune esperienze che stanno migliorando dal punto di vista della sensibilità dell’ente locale, fino a pochi anni fa erano rari i casi di progettualità nel carcere in giro per l’Italia. In questi anni io ho girato parecchio per tutta Italia, e devo dire che gli enti locali sono in genere un disastro, sono distanti, tante parole, briciole che cadono dal piatto, briciole che non servono a niente; perché se si vogliono creare delle progettualità ci vogliono degli investimenti, con la buona volontà, con tanta abnegazione non si reinserisce nessuno, perciò se non ci sono le risorse non si arriva a niente. Allora noi del volontariato abbiamo questo ruolo di promuovere nei nostri territori, nell’ente locale, quelle commissioni consultive, che esistono già dal ‘90; ma quanti comuni hanno, in Italia, la commissione consultiva per i problemi della devianza e per il carcere, sono pochissime; quante città, quanti luoghi che ospitano gli istituti penitenziari, hanno creato dei tavoli di confronto o Hanno espresso delle progettualità; poi venendo alla questione dell’edilizia penitenziaria, non voglio toccare l’aspetto politico se no ogni volta mi ritrovo con qualche battibecco, perché voi lo sapete che ci sono degli interessi grossi sull’edilizia penitenziaria, però sull’edilizia penitenziaria la cosa drammatica è che quando fanno un progetto in un territorio non coinvolgono le forze del territorio, cioè lo fa l’amministrazione penitenziaria e il sindaco, l’amministrazione comunale. Le altre forze che hanno il polso, perché poi la politica spesso, purtroppo per lei, se non ha la capacità, è condizionata da tanti soggetti che si muovono sul territorio, e allora si costruisce qui e non lì, ecc., ma la domanda che non si pone è se si vuole veramente il carcere. Non ci si chiede se ha senso il carcere in quel territorio, ne quale tipo di carcere: il carcere stile super-carcere speciale che è tutto cemento, dove la gente è spesso analizzata, istituti dove si ammucchiano 200/300 persone, o 400/1000 persone; sono questi gli istituti. Ancora quando c’era il Direttore Generale, che adesso si chiama Capo del Dipartimento, Caselli, mi ricordo che un giorno ebbi una discussione animata con Giancarlo, perché gli facemmo presente il fatto che secondo il nostro punto di vista, dopo tanti anni di esperienza, gli istituti penitenziari non dovevano superare il numero degli 80 detenuti, perché con un numero così c’è la possibilità di incontrarli tutti, di seguirli tutti, tutti hanno un nome e un cognome, hanno una storia e si spera abbiano un futuro. Quando hai un istituto con 1000 detenuti sono numeri lasciati a loro stessi, in balia di un girone dantesco che diventa il carcere, ingestibile anche dal punto di vista della custodia, diventa un’esplosione di tutto quello che può comportare vivere in una dimensione di perdita della libertà. Quando gli feci presente perché non si può umanamente pensare una cosa così, mi disse che non si poteva fare, perché costava troppo, e lo Stato non si poteva permettere di spendere troppi soldi; a quel punto mi sono cadute le braccia e mi sono chiesto com’era possibile che fossimo arrivati ad una società che per se stessa, che non sia in grado di spendere tutto il possibile per recuperare se stessa, per avere la migliore qualità della propria vita, che si trova invece a fare i conti, ma per chi? Per quei pochi che hanno i soldi, per quei pochi che governano la terra, è assurdo questo, che noi non siamo più in grado come società civile di indignarci dinanzi a tutto questo; è assurdo che possiamo tacere a tutto questo, e il volontariato ha questo ruolo di doversi indignare, ha questa necessità di riuscire ancora a farlo, rispetto a tutti quelli che invece "concertano", oggi è una parola che va, una volta si diceva ci si mette d’accordo, oggi si concerta. Allora io credo che dobbiamo stare attenti a quello che facciamo tutti, tutti noi del volontariato, perché non vorrei che ci trovassimo ad avere la sindrome di Grisù, il draghetto che voleva fare il pompiere, ma che quando cercava di andare in aiuto di qualcuno lo bruciava, cioè che cerchiamo di fare delle cose buone, mentre invece facciamo solo dei guai; ecco perché è importante che il volontariato abbia questo concetto del proprio ruolo, dei propri limiti e della propria funzione, di essere quello che esercita la tutela del territorio, il rappresentante del territorio nel carcere, che è un luogo che, checché se ne dica, è ancora enormemente separato dal territorio, è ancora enormemente lontano dalla gente, è solo per gli addetti ai lavori; voi provate ad organizzare un convegno e vi accorgerete che partecipano solo gli addetti ai lavori, ma gli altri, anche del mondo della solidarietà, anche i volontari che si occupano, che so, di handicap o di anziani, o altro, non vengono lì, non gli interessa; è un luogo scomodo, è un luogo fastidioso, le mura stesse che ne delimitano lo spazio lo rendono lontano dalla gente, è un luogo di cui in fondo si ha paura come di tutto quello che non si conosce. Mentre noi dobbiamo creare comunione, conoscenza, coscienza, questo è il ruolo del volontariato sul territorio, perché solo attraverso la conoscenza sparisce la paura, ecco perché è nata la Conferenza Nazionale Volontariato di Giustizia, è nata per l’idea di mettere insieme tutti coloro che operano, per l’idea di superare le nostre distinzioni culturali, politiche; la Conferenza è formata dalle più grosse organizzazioni che operano, a livello nazionale, con idee completamente diverse: pensiamo all’associazione Papa Giovanni di don Benzi e all’Arci Oradaria, quanto sono lontane, eppure sono lì; Caritas italiana e Antigone sono lì, Libera di don Ciotti, il Seac, la Fivol, la San Vincenzo, il Comitato per il telefono Azzurro; tutto questo mondo. Negli anni abbiamo creato una struttura regionale in tutte le venti regioni, abbiamo 18 Conferenze Regionali, perciò una presenza capillare per una scommessa che è quella che, se si parte dalla solidarietà, che se si ha tutti la stessa sensibilità, si riesce tutti quanti a trovare, per lo meno, il minimo comune denominatore; questo è il significato, non l’affermazione di se stessi, ma l’affermazione di una società che ha la capacità di confrontarsi, di guardarsi anche nella sua parte più deleteria, più faticosa, quella che non si vorrebbe vedere, che è capace anche di questo, che è una società che sa guardarsi, che sa cercare anche una soluzione, che sa cercare delle strade per migliorarsi, per superare tutto quello che non funziona. Uno dei progetti, sui quali noi ci teniamo, avevamo lavorato due anni, iniziando dalla giustizia, prima di questo governo, poi questo governo non ha neanche voluto saperne, non era neppure interessato a conoscere, con l’amministrazione penitenziaria e con la giustizia minorile, avevamo messo insieme i due dipartimenti e avevamo già in mente un progetto sperimentale rivolto ai giovani adulti. È una cosa alla quale noi teniamo tanto, perché, perché l’esperienza nel minorile, chi di voi conosce qualcosa del minorile forse sa che è veramente un carcere residuale, non supera mai i 500 ragazzi dentro i minorili italiani, che sono 17; il resto, circa oltre 35.000, sono tutti fuori, messi alla prova, casa-alloggio, comunità, ecc. Per un’idea del reinserimento, della riappropriazione del territorio dei propri figli diversa, che è veramente un’estrema ratio; e abbiamo visto quanto sono importanti queste comunità, ad esempio fra le varie esperienze sono stato in Sardegna, vicino a Cagliari, nel carcere di Quartucciu, che è un carcere minorile, lì ci sono delle esperienze bellissime di ragazzi, che hanno commesso degli omicidi, perché mi ricordo che la prima volta che sono stato a Quartuccio c’erano ragazzi, minorenni, che avevano commesso tutti degli omicidi. La Sardegna è un luogo un po’ particolare, con una situazione culturale che però si sta evolvendo in maniera bellissima, c’è una gioventù che ha una gran voglia di cambiare, di rifare un po’ la storia di quei territori, ragazzi che avevano ammazzato, da piccoli a quattordici, quindici, sedici anni; come si fa a pensare che uno a sedici anni possa veramente essere un assassino, c’è un territorio, c’è una struttura intorno che lo ha deteriorato. Beh! Vedere questi ragazzi a venticinque anni rifioriti, in una comunità, con un lavoro, con una ragazza che stanno per sposare; recuperare questi figli al dolore, al dramma è un compito bellissimo nel momento in cui avviene, ma è anche un compito che abbiamo tutti di portare avanti storie di questo genere. Allora, a questo punto, ho pensato: ma perché uno che ha 17 anni e 11 mesi va nel carcere minorile, se commette un reato, e uno che ha 18 anni e 1 giorno va nel carcere per adulti; non è che quello che ha diciotto anni e un giorno è così vecchio rispetto all’altro, sono coetanei, però va nel carcere per adulti, e nel momento in cui entrano nel carcere per adulti è finita, non c’è lo stesso percorso, non c’è la stessa attenzione, non ci sono le stesse modalità rieducative, viene perso, anche se ci sono istituti cosiddetti "sezioni per giovani adulti", sono come le altre, non cambia niente, non c’è il tempo, non ci sono neppure gli operatori. Come si fa in istituti che hanno 700 detenuti, come a Padova che su 700 detenuti ci sono 3 educatori, ci sono detenuti che non vedono un operatore in un anno e mezzo, se non volontario. Come pensate che ci possano essere percorsi di recupero, allora perché buttarla via la vita di questi ragazzi? Noi abbiamo lavorato due anni con l’Amministrazione Penitenziaria, con il Dipartimento della Giustizia Minorile, avevamo un progetto sperimentale e avevamo già individuato due istituti, a Lecce per il minorile e a Massa Marittima per gli adulti, dove mettevamo insieme anche la polizia, gli operatori, ecc., si faceva una miscellanea, per arrivare, se poi andava bene, nel giro di due anni ad una proposta legislativa che modificasse l’attuale situazione, che creasse una legislazione per i giovani adulti, per dargli una possibilità, a questi figli giovani di poter avere delle opportunità di reinserimento; perché non si è vecchi ha 18, 19 o 20 anni, dipende dalla maturità del ragazzo, dipende dal luogo da cui proviene, la cultura del luogo la sua maturazione sono elementi importanti, anzi, spesso fondamentali. Perciò non si possono fare delle leggi che vanno bene a tutti, un vestito che va bene a tutti, ma a chi di noi va bene il vestito di un altro, dobbiamo avere l’attenzione verso gli esseri umani, tutti nelle loro specificità, nelle loro difficoltà, altrimenti che vita sociale è; allora questi progetti, queste proposte, queste attenzioni, queste modalità sono il filo conduttore, le cartine di tornasole, sulle quali il nostro modo di operare deve porsi, ecco, dobbiamo sempre stare attenti a quello che facciamo, che sia in linea con la dignità degli altri, se vediamo che un progetto che stiamo costruendo non è in linea con questo, fermiamoci. Per concludere, prima di lasciare lo spazio, se ci sono, alle vostre domande, vi cito una bella frase che dà il significato del tempo che stiamo vivendo e del ruolo del volontariato, ma del ruolo di tutti se vogliamo, perché volontariato significa persona che vuole creare coscienza, e in fondo ognuno di noi ha il proprio compito nel luogo di lavoro, nella scuola, a casa, in famiglia; c’è una bella frase di Pedro Tierra (?) che dice: "Il tempo che stiamo vivendo esige occhi chiusi e scarpe abituate alla marcia, per questa marcia non c’è l’ora di arrivo".
Nello Cesari (Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria)
Io avrei una domanda. Tu hai tracciato un’immagine estremamente drammatica, credo che il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto, ti sei fatto la domanda che è successo quello che è successo perché eravate presenti, fai la domanda all’inverso: quanti ne sarebbero morti, che cosa sarebbe successo se voi non ci foste stati, se noi non ci fossimo stati. Altra domanda, ti sei mai chiesto, c’è stata una sentenza della Corte Costituzionale che ha definito incostituzionale l’art.222 in relazione al, recita l’articolo: "sordomutismo, malato, infermo, infermo di mente, definito incapace di intendere e di volere, nell’OPG", mi vuoi dire questo "sordomutismo" cosa c’entra con l’OPG? Ebbene, la Corte Costituzionale addirittura è intervenuta, come questa volta, facendo una sentenza additiva, cioè dice: guardate è incostituzionale, però nella misura in cui il giudice deve essere libero, non deve mandare a giudizio, nella misura in cui questo è bisognoso di assistenza, di cure, ecc. Cioè abbiamo una situazione sacramentale, purtroppo tu vedi il mondo da una parte, noi che ci siamo dentro lo vediamo dall’altra e vediamo che le problematiche sono estremamente più difficili, più complesse, soprattutto. Purtroppo, non c’è una norma penale, una qualsiasi norma, che non finisce per scaricare nel carcere le problematiche: chiudono le case di tolleranza e le carceri si riempiono di prostitute; lo scontro politico sfocia nel terroristico e le carceri si riempiono; non si fa l’assicurazione e si va in carcere; guida senza patente e si va in carcere. Fin quando il concetto della penalizzazione come privazione della libertà personale e coazione, sarà nella nostra cultura, questo saranno i discorsi; non è facile aggredire questi discorsi di natura culturale, purtroppo siamo in una società "inferno di cristallo", vegliata e vigilata da tutti, è questa insicurezza che è dentro di noi, che obbliga le forze di repressione a mettere le telecamere, ecc., forse perché quest’insicurezza l’abbiamo dentro di noi, l’abbiamo tutti. Come vedi le problematiche sono molto più complesse, e noi che ci stiamo dentro abbiamo veramente tante difficoltà; poi ci sarebbero tanti altri aspetti, ma comunque il dialogo arretra anche per noi, arretra quando andiamo a bussare agli enti locali, quando cerchiamo di portare avanti dei progetti. Io, ad esempio, da otto anni ho presentato un progetto a Castelfranco Emilia, per un "carcere/comunità", cioè un carcere alla stregua di una comunità, perché il modello organizzativo, così come è, non è idoneo per i tossicodipendenti, bisogna uscire dallo schema carcere e creare una sorta di comunità; mi hanno dato addosso da destra, da sinistra, da su e da giù. Infondo volevo solo creare un ambiente più umanizzante, ho citato un esempio, ma potrei citarne tanti altri; attenzione la realtà è sempre piena di chiaroscuri, e inoltre perché vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto, proviamo a vederlo mezzo pieno.
Livio Ferrari
Ti ringrazio per l’intervento, però la questione è questa, l’ho detto anche prima, la mia era anche una provocazione, per dire state attenti a quello che facciamo, perché si sono create molte situazioni che sono di natura sociale, la società ha comportato questo, e soprattutto quello che poi l’Amministrazione Penitenziaria paga sono le scelte di natura politica, perché che ci sia un governo di destra, di centro o di sinistra, quello che decide voi lo dovete fare da un punto di vista legislativo, perché alla fine ricade su di voi; il dramma è l’Amministrazione Penitenziaria, che io credo di conoscere abbastanza bene, avendola frequentata spesso in questi anni, e la nostra frequentazione vede bene quello che succede, rispetto proprio a quello che dicevi tu: che siamo passati da un carcere penale a un carcere sociale. Cioè i problemi che dovrebbero essere risolti in maniera sociale, vengono risolti in maniera penale, e questa è una scelta repressiva, ma politica, non è una scelta dell’amministrazione Penitenziaria, è la scelta dei governi che si sono susseguiti. Per esempio, una cosa che noi abbiamo visto in questi anni è un trend veramente triste, io ricordo le guardie carcerarie di prima della riforma, c’è stato un momento di crescita diciamo positiva, perché negli anni l’arrivo del corpo di polizia penitenziaria ha portato una crescita ed anche una modalità diversa di muoversi negli istituti, ma con gli anni, non so cosa sia successo, si sta creando una regressione. Una regressione dovuta alla mancanza di chiarezza rispetto a un corpo che, come tutte le polizie, ha la possibilità sindacale di fare quello che qualsiasi dipendente può fare, che sta creando dei grossi disastri, ma nessuno interviene. Allora ricordo che dieci anni fa a Sollicciano ero con il Comandante che mi disse che, già allora, era presente l’abitudine che a gruppi di venti per ogni sezione erano in malattia per un mese a testa. Noi siamo stati sempre caustici con tutti i governi passati, quello che non è stato mai fatto è una scelta organica rispetto all’Amministrazione Penitenziaria, perché ogni giorno l’Amministrazione Penitenziaria ha in ruolo circa 43.000 agenti, di questi 43.000, giornalmente quelli occupati non arrivano neanche a 30.000. Con un disastro per quelli che restano, di stress, perché fanno più ore, sono più soli, ci sono sezioni dove c’è solo un agente, non riescono neanche a fare operare gli operatori esterni perché da soli non ce la fanno a gestire tutto, vanno in burnout, e quindi c’è tutta una serie di conseguenze. Sono quasi dieci anni che succede questo e nessuno ha mai mosso un dito. Voi avete fatto tanto per trovare stellette e soldi, ma non avete fatto niente per aumentare la qualità degli agenti e per creare delle condizioni di vivibilità; per esempio è assurdo che in una struttura chiusa come il carcere non ci sia un operatore di sostegno per gli agenti, tutte le comunità hanno uno psicologo per gli operatori di comunità, che possono essere in difficoltà, in certi momenti, per interagire, e il carcere che ne avrebbe ancora più bisogno di qualsiasi altro luogo, perché popolato anche da individui violenti, di situazioni limite, per cui gli agenti dovrebbero essere sostenuti...ma non ho mai visto i sindacati lottare per questo, che sarebbe una cosa fondamentale per migliorare il loro ruolo. Vi posso assicurare una cosa, quando io sono entrato in carcere ho speso molto più tempo, in certi momenti, per gli agenti che non per i detenuti, perché ci sono tantissimi agenti che sono in difficoltà e che chiedono di parlare, che hanno bisogno di raccontarti tutta la loro storia, le loro fatiche, spesso persone che sono state sradicate dal proprio territorio e che faticano a impiantarsi nel nuovo territorio. È una situazione che non piace neanche a noi, quello che ci dispiace è che tutto quello che sta succedendo la polizia penitenziaria, l’Amministrazione penitenziaria, gli operatori, hanno da parte del volontariato tutta la stima possibile.
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