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Per una nuova amministrazione penitenziaria Roma, martedì 9 maggio 2006
Relazione di Patrizio Gonnella
L’amministrazione penitenziaria ha un mandato che è direttamente definito dalla Costituzione. Gli articoli 13 e 27 della Carta Costituzionale definiscono quali sono i limiti e quali le finalità della propria mission. È questa una particolarità rispetto a tante altre amministrazioni dello Stato, che pur nella complessità delle loro funzioni, hanno obiettivi più strettamente contingenti, prefissati dalla classe politica che temporaneamente governa. L’amministrazione penitenziaria è per necessità costretta a governare una organizzazione difficile e complessa. La sua complessità sta nei contenuti, nelle forme, nei numeri. Per quanto riguarda i contenuti deve assicurare il rispetto delle norme costituzionali, internazionali e nazionali in materia di carceri e diritti umani e deve rassicurare la classe politica e l’opinione pubblica sul tema della sicurezza. Qual è la mission dell’esecuzione penale: quella prevista dall’ordinamento giuridico (risocializzazione e rispetto della dignità del detenuto), o quella esistente de facto (neutralizzazione e sicurezza)? Per quanto riguarda le forme l’amministrazione penitenziaria deve essere capace di raccordarsi, superando consolidate tentazioni di primarietà, con molte altre amministrazioni dello stato, del territorio, del privato profit e del privato non profit. Per quanto riguarda i numeri deve governare una macchina che fra operatori, utenti e terzi interessati a qualsiasi titolo coinvolge più di duecentomila persone. Per fare questo non va bene una macchina strutturata in modo piramidale quale quella attuale, che appare pensata principalmente per evitare che succedano eventi gravi e non invece per governare grandi questioni quali: uso razionale delle risorse umane, capacità di coinvolgimento delle imprese, raccordo con le regioni e gli enti locali, tutela della salute in luoghi oggettivamente patogeni. Sono due quindi i piani di ragionamento. Il primo politico-costituzionale. Il secondo amministrativo-gestionale. Una amministrazione penitenziaria nuova è una amministrazione che per cultura, opzione ideale, capacità manageriale sappia contestualmente occuparsi di ambedue i piani. Che sappia e voglia miscelarli opportunamente, che non scelga uno dei poli del tradizionale contendere pubblico, ma che, pur sempre nella consapevolezza della complessità, sappia riconoscere nella Costituzione e nelle leggi il faro della propria azione amministrativa. Una amministrazione che non legittimi, come è accaduto in questi ultimi cinque anni, violazioni di legge nel nome della sicurezza o della classe politica di turno. Che non rincorra le emergenze, o le pseudo-emergenze (vedasi circolari sul prototipo del detenuto che evade), che non si accontenti della autoreferenzialità, che non difenda corporativamente se stessa o pezzi di se stessa (vedasi la medicina penitenziaria) a scapito dell’interesse generale e del mandato istituzionale, che non spenda tutte le proprie energie nella propria sopravvivenza o nella sola auto-conservazione, che sia disposta a dismettere pezzi del proprio potere a favore di altri comparti dello stato o degli enti territoriali. Le carceri non appartengono alla sola amministrazione penitenziaria. Sarebbe cosa buona e giusta agli inizi di ogni anno una sorta di grande conferenza di servizi dove l’amministrazione penitenziaria, il ministero della sanità, quello delle infrastrutture, le regioni, le province e i comuni, il terzo settore e il volontariato ragionino e programmino insieme il lavoro di un anno, le priorità su cui investire, i problemi da affrontare primariamente, le sinergie da promuovere, le proposte normative da suggerire al Parlamento. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non deve più detenere il monopolio esclusivo della gestione della esecuzione penale. Deve compartirla con gli altri attori. Deve snellirsi nelle funzioni e nei numeri. Se mai è nata una seconda repubblica, è opportuno che nasca anche una nuova amministrazione penitenziaria. Una amministrazione agile, efficiente, che risponda in tempi brevi alle sollecitazioni, che dialoghi con tutti in condizione di parità, che tratti un sindaco come è giusto che sia trattato, che non tema i parlamentari dello stato perché questi ultimi sono eletti dai cittadini. Una amministrazione che non sia gerarchizzata, che costruisca un rapporto bi-direzionale con i Provveditorati, che metta questi ultimi in condizioni di funzionare quali centri efficienti di azione amministrativa, che valuti il lavoro dei direttori e del personale di polizia non per quello che hanno evitato ma per quello che hanno fatto, che non intimidisca o inibisca il lavoro innovativo della periferia ma ne sia di stimolo e promozione. Vanno previsti ed elaborati indicatori di valutazione di efficienza e di efficacia. Non è ardito pensare che la tecnica della customer satisfaction sia applicabile al sistema dell’esecuzione penale, dove il "cliente" di tale sistema è il detenuto. Un Dap rinnovato è un Dap che deve avere il coraggio di non essere sempre la fotocopia di se stesso. Una organizzazione complessa più che grandi numeri richiede personale specializzato. Un buon capo del dipartimento, così come buoni capi delle altre direzioni generali, possono essere manager pubblici, personale provenienti dalla carriera penitenziaria, esperti di settore, donne o uomini con lavoro politico nell’ambito della giustizia, accademici. La giustizia non è solo affare di giudici e avvocati. Perché non affidare la complessa organizzazione del personale, o della formazione, o dei beni e servizi rispettivamente a manager formati nel settore delle risorse umane o dirigenti della periferia abituati a lavorare con le persone, a professori universitari o esperti penitenziari, a ingegneri o economisti? Ad esempio il sovraffollamento è "a macchia di leopardo", e richiede la necessità di utilizzare appieno il patrimonio edilizio penitenziario. Bisogna evitare sprechi e operare per una razionalizzazione delle risorse. Non sempre l’incremento delle risorse produce benefici effettivi se non si investe anche nella cultura organizzativa. Perché non distinguere la gestione degli imputati da quella dei condannati e affidare quest’ultima a esperti interni del trattamento? Perché non assecondare il dettato legislativo e affidare alle regioni la sanità, e nel frattempo affidare a un dirigente medico o un esperto manager sanitario la gestione transitoria della medicina penitenziaria? Perché non affidare esperti/dirigenti del servizio sociale o a qualcuno che proviene dagli enti locali la gestione della esecuzione penale esterna, visto che essa è prioritariamente ricerca di opportunità sociali e lavorative? Vi è la necessità di pensare al sistema "esecuzione penale" e non esclusivamente al carcerario. Per progettare un’autentica "politica penitenziaria" occorre avere una prospettiva che comprenda anche l’area penale esterna e, al tempo stesso, un’attenzione alle specificità del carcere come organizzazione complessa. Un Dap rinnovato deve rinnovare il proprio rapporto con le singole carceri. L’ultima grande circolare organizzativa è quella che prevedeva la istituzione delle aree. È possibile che non si riesca a fare un passo in avanti? Il mondo delle professioni è oggi molto più vario di quello che vediamo all’interno degli istituti di pena. La popolazione detenuta è cambiata. Molti sono gli stranieri. Va adeguata la formazione degli operatori attualmente in servizio alla differente utenza, vanno selezionate nuove professioni (agenti di sviluppo locale, mediatori culturali), va rotta la divisione rigida tra militari e civili, va ripensata la scala gerarchica interna. Il Programma dell’Unione per la giustizia dedica molto spazio alla cultura organizzativa che dovrebbe sostenere la riforma dell’amministrazione giudiziaria nel nostro Paese. Lo stesso discorso si possa e si debba fare anche per quanto riguarda la riforma dell’amministrazione penitenziaria. Tra le priorità di metodo della riforma penitenziaria vi è quella di conoscere per progettare. Qui si pone la questione delle statistiche penitenziarie e della conoscenza complessiva del sistema. Raccogliere statistiche non è sufficiente se non per produrre numeri fini a se stessi. Invece devono essere utilizzate produrre informazioni operative. Bisogna far crescere una cultura della statistica.
Dieci questioni per una nuova politica penitenziaria
Appello per la decarcerizzazione e una nuova politica delle pene non detentive
Seguiamo da anni con attenzione e interesse il lavoro svolto dall’associazione Antigone e l’impegno che rivolge all’affermazione, nel sistema penitenziario, di una concezione della pena aderente ai principi costituzionali ed al rispetto dei diritti della persona; consideriamo, quindi, necessario, oltre che tempestivo, il convegno organizzato per il 9 maggio, perché, mentre si apre una nuova stagione di governo, è il tempo di pervenire ad una sintesi delle idee e delle proposte sulle quali si è dibattuto in questi ultimi anni, per arrivare a definire nel concreto le linee di azione di una nuova politica della pena e di un governo nuovo dell’amministrazione penitenziaria. Certamente uno tra i temi più presenti all’attenzione dell’opinione pubblica, uno dei più sentiti e delicati in quanto tocca corde molto sensibili direttamente legate alla vita quotidiana dei cittadini, è quello relativo alle politiche della giustizia e dell’esecuzione della pena. È forte la richiesta di rendere il sistema di esecuzione penale più efficiente ed efficace, in quanto diffusa è la sensazione che le sanzioni penali siano variamente e tanto sensibilmente modificate da renderne non effettiva l’espiazione. È forte la richiesta di sanzioni sempre più severe, come pure del ricorso/ritorno alla sola pena detentiva, quasi che sia l’unica via per garantire la sicurezza delle comunità. E d’altronde le politiche della pena sviluppate negli ultimi anni ci consegnano una situazione del sistema penitenziario arrivata ai limiti del collasso: da un lato il sistema della detenzione ormai sull’orlo dell’esplosione a causa del sovraffollamento degli istituti, dall’altro quello dell’esecuzione penale esterna privo di una chiara missione ed in condizioni di tale povertà di risorse e operatori da spingerlo alla paralisi operativa. Non ci piace essere catastrofisti, apparire come coloro che non riescono a vedere il buono che comunque viene fatto; al contrario! Da operatori dell’esecuzione penale esterna, siamo consapevoli di quanto impegno abbiano profuso tutte le componenti professionali operanti nell’universo penitenziario per rendere un servizio all’altezza delle necessità e delle attese della società. Ma, con altrettanta chiarezza, riteniamo di dover segnalare che ci troviamo di fronte alla effettiva necessità di rendere più efficiente ed efficace il sistema penitenziario e siamo convinti che uno dei settori in cui occorre investire con urgenza è quello dell’esecuzione penale esterna che, pur essendo da trenta anni parte integrante di tale sistema, vede sempre rivolgere l’attenzione esclusiva al mondo "carcerario", quasi che le pene non detentive siano figlie illegittime del sistema sanzionatorio. Siamo, inoltre, convinti che occorre, con altrettanta urgenza, trovare risposte risolutive al problema del gravissimo sovraffollamento degli istituti di pena, senza che la soluzione adottata diventi, o sia percepita dall’opinione pubblica, come un aumento del livello di insicurezza delle comunità, un prezzo da pagare inevitabile per ridurre il sovraffollamento. Richiamiamo, però, l’attenzione di tutti coloro che agiscono nell’universo penitenziario ed i governanti che, davvero, vogliono impegnarsi in politiche di riduzione del ricorso alla carcerazione, sull’importanza di evitare di cadere nella trappola "meno carcere uguale meno sicurezza per i cittadini"; se la comunità è costretta a scegliere tra queste due opzioni, come se fossero alternative, si orienta sulla seconda, condannando al fallimento certo qualsiasi politica di decarcerizzazione. Occorre, pertanto, che ogni politica intenzionata a deflazionare il ricorso al carcere risponda al problema di come realizzare questo obiettivo senza dare l’impressione di spostare i condannati non detenuti nell’area dell’impunità, a tutto danno della sicurezza dei cittadini. È vero, infatti, che le conseguenze negative sulla sicurezza sono più apparenti che reali ma, come insegna la sociologia, se gli uomini considerano un fenomeno come reale, anche se non lo è, esso diventa reale nelle conseguenze; e quindi i cittadini si comporteranno e percepiranno la realtà "come se" si abbassasse il livello di sicurezza. Per queste ragioni, noi riteniamo che occorra un ribaltamento completo del quadro culturale di riferimento: per ridurre la pervasività del ricorso alla carcerazione, bisogna parlare e riflettere sul non carcere poiché, come dice don Ciotti, "dobbiamo portare il margine al centro"; e se, nel sistema delle pene, il carcere è il centro, allora ci si deve occupare del non carcere. Se davvero si vuole che il carcere non sia il luogo unico della pena, allora bisogna impegnarsi a costruire realmente il sistema delle pene "altre dal carcere" attribuendo ad esso, sia sul piano della dottrina giuridica che su quello della dimensione organizzativa, quella dignità che finora non ha ricevuto. Le ragioni che oggi, a nostro avviso, attribuiscono centralità cruciale al tema della necessità di procedere ad una profonda ricostruzione del settore delle pene non detentive possono così brevemente sintetizzarsi:
Tale obiettivo può essere perseguito attraverso un coraggioso modello organizzativo capace di avvalersi di contributi professionali qualificati che, mentre valorizzano pienamente le competenze professionali già presenti, si aprano all’apporto di altre figure professionali esperte nel disagio e nel recupero dello svantaggio sociale, così da consentire ai servizi dell’area penale esterna di dare risposte complete e molteplici alla complessità insita nella gestione della pena. Il modello organizzativo dovrà, inoltre, essere in grado formulare progetti e programmi che tendano a favorire il reinserimento sociale di condannati e internati non solo nella fase detentiva ma anche e soprattutto nella esecuzione di misure alternative alla detenzione. Per far ciò dovrà essere capace di utilizzare pienamente le risorse finanziarie che il sistema penitenziario può già mettere a disposizione attraverso un ampio e massiccio utilizzo dei fondi disponibili attraverso la Cassa delle ammende. In conclusione, è necessario, a giudizio degli operatori dell’area penale esterna, avviare un processo di profonda riorganizzazione che porti ad una "ri-costruzione" ed al potenziamento di tali uffici in modo tale che costituiscano un sistema organizzato in grado di gestire le pene non detentive. Noi riteniamo che sia giunto il tempo che anche l’Italia, dopo i paesi europei di più antica tradizione di "probation" (Regno Unito, Penisola Scandinava), ma anche dopo quelli in cui più recente (Francia,Belgio, Austria, Portogallo, Germania) o recentissima (Europa centrale ed orientale) è la previsione nella legislazione penale di sanzioni e misure nella comunità, dopo il Kossovo, dove abbiamo contribuito a realizzarlo, costruisca sia un articolato sistema sanzionatorio sia l’organizzazione dedicata a gestirlo adeguati ad un paese che vuole "essere europeo" anche in questo settore. Chiediamo che la legislatura appena iniziata si caratterizzi sin dall’avvio per la proposizione di tali nuove politiche della pena, indirizzate a:
Su tali questioni riteniamo di dover proporre le nostre riflessioni, ed assicurare il contributo della nostra esperienza, agli interlocutori che si accingono ad intraprendere una difficile azione di governo e di trasformazione del sistema penitenziario. Nel ringraziare per l’attenzione che vorrete dedicare alle proposte da noi avanzate, vi porgiamo i nostri distinti saluti.
Elena Paradiso; Eustachio Vincenzo Petralla; Sebastiano Zinna; Emilio Molinari; Salvatore Nasca; Antonina Tuscano; Domenico Paonessa; Luisa Gandini; Roberto Grippo; Laura Borsani; Pietro Guastamacchia; Emilia Turiano; Rosaria Furlotti; Rossella Giazzi; Mariapaola Schiaffelli; Maria Bove; Mariantonietta Cerbo; Mariagrazia Cinguetti; Antonietta Pedrinazzi; Marina Altavilla; Rita Andrenacci; Antonio Nastasio; Patrizia Garofalo; Severina Panarello; Luisa Cappa Lettera del Coordinamento Nazionale Assistenti Sociali Giustizia
Il Casg, accoglie con piacere l’avvio del dibattito sul tema oggetto dell’iniziativa che si terrà Martedì 9 maggio 2006 sul tema: "Per una nuova amministrazione penitenziaria" (Il management di una organizzazione complessa), e per contribuire attivamente a tale dibattito, condividendo in pieno le posizioni che "Antigone" ha in più occasioni espresso, oltre che partecipare attraverso la presenza di un consigliere nazionale del coordinamento (Michela Bozzelli), invia questa nota riassuntiva di quelli che ritiene essere i principali impegni che il nuovo governo dovrà assumere in tema di giustizia e di esecuzione delle pene:
In particolare ci esprimiamo, perché ci riguarda da vicino, in merito alla riorganizzazione degli Uffici Esecuzione Penale Esterna (Uepe) (ex Centri di Servizio Sociale per Adulti - Cssa), attualmente in fase di elaborazione presso la Direzione Generale Epe, attraverso un Pea (Piano Esecutivo di Azione). Tale Pea prevede la elaborazione di una bozza del regolamento, che sarà emanato dal prossimo Ministro della Giustizia (art. 3 Legge 154/2005.) Riteniamo che solo in una visione generale e complessiva del sistema giustizia è possibile riorganizzare il settore penitenziario. Per una migliore comprensione del nostro pensiero segnaliamo alcune questioni, da cui non è possibile prescindere in un processo di riorganizzazione degli Uepe attraverso il documento che alleghiamo alla presente. Tale documento è stato presentato dal Casg alla commissione istituita presso la D.G. Epe con il compito di stilare la citata bozza del regolamento previsto dall’art. 3 delle legge 154/05.
Contributo della Cgil
I compagni di Antigone ci invitano oggi ad una riflessione importante. Quello dell’organizzazione dei servizi penitenziari e delle prospettive di evoluzione del sistema carcerario. A mio giudizio è stata proprio la questione dell’organizzazione e dell’agire dirigenziale, unita al progressivo degrado, sia culturale che strutturale, del nostro sistema penal-penitenziario a far consumare drammaticamente l’esperienza del governo delle destre sul tema del carcere; ciò che più di altri ne ha determinato il fallimento. Il loro combinato disposto, letto attraverso il filtro di una inarrestabile invasività del sistema politico e della sua macroscopica incultura istituzionale ci riconsegna oggi un’Amministrazione penitenziaria peggiore di quella che avevamo cinque anni fa, un ‘amministrazione che ha finanche rinunciato a difendere principi di legalità del sistema penitenziario attraverso l’affermazione di un sistema di regole e di responsabilità condivise, chiare, esigibili. Gonnella nella sua relazione ci offre spunti interessantissimi. Proverò a soffermarmi su alcuni, quelli che reputo, dalla prospettiva di un sindacalista, quelli più urgenti da approfondire. Il primo è il suo netto richiamo al mandato direttamente definito dalla costituzione, specificità assoluta rispetto alle altre pubbliche amministrazioni. Questa dichiarazione, tanto nota quanto recentemente dimenticata, ha confermato in me una convinzione già radicata, forse un po’ desueta, ma credo basilare per l’affermazione di una pubblica amministrazione efficiente e funzionale: quello della terzietà della pubblica amministrazione. Nei principi costituzionali, quello dell’imparzialità dell’amministrazione pubblica pone le premesse per la separazione tra indirizzo politico ed attività amministrativa ed incardina quest’ultima in un rapporto diretto con i cittadini, con quelli che anche noi amiamo definire utenti. Un rapporto caratterizzato dall’affermazione non mediabile di un principio di legalità, quello cioè che imporrebbe agli amministratori il rispetto della sola norma e che li dovrebbe obbligare ad esercitare nei soli limiti imposti dalla legge. Una convinzione, la mia, che per l’amministrazione penitenziaria dovrebbe divenire certezza anche a fronte di quella specificità alla quale accennava Patrizio che ne fa derivare il mandato istituzionale direttamente dal patto costituente. È con questo spirito fortemente critico che io leggo l’atteggiamento assolutamente condizionato, servizievole se non servile, privo di autonomia e di dignità istituzionale tenuto da questa amministrazione per tutta la durata della legislatura di centro destra. Due esempi generali ed uno specifico per rendere l’idea delle mie affermazioni. Quelli generali sono ascrivibili alla colpevole disapplicazione di due norme legislative importantissime per l’evoluzione democratica del nostro sistema: la legge 230/99 e il decreto legislativo 145/2000 (il decreto Fassino); 6 anni di cosciente violazione di legge nel primo caso, quattro nel secondo.
L’esempio specifico
Sulla base di quale interesse pubblico da difendere, sulla base di quale ragione di opportunità diversa da quella servile del compiacimento alla politica, questa amministrazione continua ad affidare responsabilità di comando di un carcere, fra i più grandi del nostro sistema, ad un funzionario della polizia penitenziaria rinviato a giudizio per i fatti di Genova Bolzaneto? Un’idea, quindi, di terzietà e di legalità dell’amministrazione penitenziaria che va quantomeno riaggiornata, ridefinita e resa strutturale. C’è un’altra affermazione che mi ha colpito particolarmente nella relazione di Patrizio: le carceri non appartengono all’amministrazione penitenziaria. La Fp Cgil condivide appieno questa verità. Come parte rappresentativa del mondo del lavoro abbiamo da sempre scelto un’interpretazione universale delle tematiche penitenziarie, fortemente convinti della straordinaria ricchezza di un sistema integrato di servizi per l’offerta di concrete opportunità di inclusione, di emancipazione, di effettività dei diritti di cittadinanza. Da sempre sosteniamo l’opportunità di un disegno politico organizzativo che sappia contaminare in maniera strutturata la realtà penitenziaria, modificarne le logiche anguste ed autoreferenziali, produrre buone prassi operative, servizi appropriati ai bisogni, per riaffermare i valori di dignità umana e dei diritti di cittadinanza delle persone detenute. Per questo abbiamo sostenuto l’esigenza di nuovi indirizzi per la gestione dei progetti e dei piani di azione dell’amministrazione, degli accordi di programma con gli enti locali e con le altre amministrazioni pubbliche che abbiamo obiettivi chiari di reinserimento sociale dei detenuti e degli internati. Bisogna però prendere atto che qualcosa in tutto ciò continua a non funzionare e, onestamente, non solo per la pervicacia opposizione del pensiero politico delle destre sui temi sociali e dell’ordine pubblico. Dobbiamo rivedere, insomma, l’esperienza dei piani di zona, previsti dai sistemi integrati degli interventi e dei servizi sociali territoriali evitando quello al quale spesse volte abbiamo assistito inermi: la duplicazione degli interventi, la dispersione delle risorse, la parcellizzazione degli interventi e dei progetti, la loro mancata proiezione sulle realtà cittadine e territoriali. La Fp Cgil, per questo condivide anche l’idea lanciata da Antigone di una annuale conferenza dei servizi fra tutti i soggetti istituzionali interessati alla gestione dell’esecuzione penale, intra ed extra muro. Questa ipotesi di esperienza la ritengo, oltretutto, propedeutica all’effettiva devoluzione di attività istituzionali a soggetti diversi dall’amministrazione penitenziaria (anche a questo, per noi, serviva il trasferimento della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale) La terza ed ultima sollecitazione della relazione di Patrizio io la leggo nel suo richiamo ad una diversa organizzazione dell’amministrazione penitenziaria, ad una diversa qualità del suo management. La Fp Cgil ha sempre voluto e sostenuto processi riformatori e di riorganizzazione che consentissero alle amministrazioni di organizzarsi tenendo conto delle proprie specificità e dell’esigenza di migliorare la qualità e l’efficacia delle proprie attività. Nell’amministrazione penitenziaria l’obiettivo che abbiamo sempre declinato era quello del riconoscimento, a quell’articolato sistema delle professioni, del ruolo da protagonista che gli si addice e che è premessa decisiva per l’affermazione di un sistema penale e penitenziario democratico e solidale. Per noi tutto ciò si realizzava con un organizzazione per linee orizzontali del lavoro, delle funzioni e dei centri di responsabilità. Un organizzazione cioè che consentisse la partecipazione attiva dei lavoratori agli obiettivi comuni, una migliore qualità complessiva dei servizi ed una maggiore consapevolezza della missione perseguita attraverso l’assolvimento dei compiti di ciascuno, nel reciproco rispetto e riconoscimento fra diverse esperienze. Abbiamo perseguito un organizzazione per aree di intervento dotate di autonomie tecnico professionali mettendo a disposizione di tutto ciò innumerevoli occasioni di confronto contrattuale, tentando sempre e comunque di evitare quella spinta isolazionista e autoreferenziale che purtroppo ha sempre caratterizzato l’amministrazione penitenziaria. In questi anni, invece, è stata perseguita una vera e propria restaurazione, l’enfatizzazione di un dirigismo strutturato, disciplinare, burocratico e gerarchizzato, nel quale ricorrono suggestioni e tentazioni autoritarie di alcuni apparati forti, fino a far percepire l’amministrazione carceraria come ultimo terminale di sole seppur generali politiche di ordine pubblico. I provveditorati sono stati completamente svuotati delle loro naturali competenze, le direzioni degli istituti sono state lasciate nell’isolamento più assoluto ad affrontare l’emergenza sociale ed il dissesto finanziario prodotto dalle dissennate politiche del Ministro Ingegnere. Io credo, quindi, che quello di un nuovo modello organizzativo penitenziario debba essere il tema attorno al quale ricostruire quel sentire comune disperso da anni di colpevole contrapposizione istituzionale, politica, sociale. Ristabiliamo, però, prima di affrontare processi di ulteriore avanzamento nel sistema di organizzazione dei servizi quel che va ristabilito. Riconduciamo velocemente le prassi operative negli ambiti di un modello organizzativo decentrato, rispondente all’esigenza di territorializzare la pena e la sua esecuzione; riaffidiamo ai livelli territoriali quel valore ottusamente sottratto dalle politiche centraliste assunte a sistema in questa ultima esperienza di governo delle destre, quanto meno come primo atto di pacificazione interna. Sull’identikit del nuovo manager penitenziario vorrei cavarmela con una battuta: il nuovo futuro dirigente penitenziario dovrà essere tutto quello che non è stato in questi anni. Dovrà avere una vera e radicata cultura civile, cioè senso dello stato e spirito di servizio, dovrà essere capace di alimentare un dialogo leale e fecondo con tutte le istituzioni e con il territorio, sensibile ai valori umani e garante dei diritti di cittadinanza, non arroccato nell’esercizio del potere e del comando. Il nuovo dirigente penitenziario dovrà avere una spiccata cultura sociale, dovrà, cioè essere attento all’evoluzione delle sensibilità delle comunità e della domanda di partecipazione e di confronto che proviene dalle formazioni sociali operanti intorno al mondo della pena. dovrà essere ispirato da una salda cultura politica, capace, cioè di interpretare con lealtà l’indirizzo di governo attraverso la partecipazione e l’espressione democratica attorno ai problemi che si è chiamati a risolvere; lealtà che mai deve, però, far perdere di vista quel mandato che la costituzione direttamente gli affida. In effetti tutto ciò che non è stato in questi ultimi anni. Queste le caratteristiche che il sindacato rivendica per il prossimo management penitenziario, che ovviamente si aggiungono alle qualità di organizzazione e di direzione insite nella figura dirigenziale. Tracciato l’identikit a mio giudizio non prioritaria diventa la sua estrazione professionale. Certo che, come al solito, le proposte di Antigone affascinano per gli elementi di novità che sanno sempre offrire. Non sarà sicuramente la Cgil a negare quelle possibilità di evoluzioni e di cambiamento del sistema che stanno dietro l’idea di un nuovo dirigente penitenziario, differentemente esperto.
Problematiche relative al settore penitenziario A cura del Coordinamento Rdb Penitenziari
Il personale penitenziario a seguito di una politica miope e tutta tesa al raggiungimento dei benefici economici solo per talune categorie, è fortemente diviso al suo interno. Tali scelte hanno rafforzato una tradizione ancestrale dal punto di vista culturale ma anche e soprattutto dal punto di vista giuridico che vede tutti armati contro tutti, ciascuna categoria perseguendo per sé il poco in più che è possibile raggiungere. Ciò ha comportato un gran numero di contratti: se ne contano ben sette tipologie per un numero sicuramente non elevato di personale: complessivamente circa 52. 000 lavoratori, di cui 42.353 polizia Penitenziaria, ed il restante appartenente al Comparto Ministeri (6864 presenti al 1.09.06, con una vacanza di organico di ben 2776 alla stessa data, su un organico complessivo di 9640 unità). La Polizia Penitenziaria ha un trattamento giuridico ed economico uguale a quello delle altre forze di Polizia, il che significa che molte sono le differenze di trattamento, e non solo stipendiali. Basti pensare per esempio alla possibilità di fruire di aspettativa per motivi di salute, alla possibilità di avere un anno ogni cinque di scivolo, al fatto che la carriera viene fatta sull’anzianità di servizio. Va inoltre sottolineato che i poliziotti penitenziari, complessivamente come si è detto 42353, sono mal distribuiti, perché dappertutto - da nord a sud - si lamenta carenza di organico, mentre il rapporto detenuto / polizia è il più alto d’Europa. In realtà quasi dappertutto essi vanno a sostituire il personale del Comparto Ministeri mancante e - in queste mansioni - sono sicuramente in eccesso negli uffici centrali e periferici dell’Amministrazione ( Dap, Prap, Scuole, Magazzini Vestiari). L’Amministrazione li sta conducendo fuori dal Carcere, quasi che il compito istituzionale della Polizia Penitenziaria non fosse quello di rieducare il detenuto, insieme agli altri operatori del trattamento. Nonostante il progressivo depauperamento del personale di polizia penitenziaria nell’ambito degli Istituti, si sta tuttavia inevitabilmente andando verso un carcere di polizia, nella sua accezione più sgradevole, perché l’Amministrazione finora non ha mai affermato coraggiosamente né con l’attuale gestione, né con le precedenti, che la Polizia penitenziaria ha il compito di collaborare alla gestione del trattamento del detenuto per l’esatto adempimento dell’art. 27 della Costituzione repubblicana. Le rivendicazioni di questi ultimi peraltro sono tutte tese "ad essere riconosciuti come corpo di polizia e ad essere al pari degli altri", intendendo con questa affermazione dire che essi dovrebbero fare "altro" dal lavoro in carcere. A loro non è mai stato detto in modo inequivocabile che il loro esser polizia non è stato pensato né per il controllo del territorio, né per i controlli tributari, ma per un servizio significativo nell’ambito dell’Istituzione Penitenziaria per la sua sicurezza e per il trattamento del detenuto e che questo non è compito di polizia meno dignitoso di quelli suaccennati. Tanto premesso vale la pena sottolineare che fa parte della cultura dominante di questo personale che sia molto più facile chiudere le persone mettendo in atto tutta una serie di strumenti polizieschi, piuttosto che lavorare per il recupero della loro dignità. Conseguenza di tale gestione è uno spreco di risorse scellerato ed una cronica carenza di personale nell’ambito degli Istituti perché quest’ultimo viene utilizzato per scopi altri da quelli istituzionali: basti pensare che l’ultimo spreco è avvenuto nel Dap, dove alcuni Poliziotti sono stati assegnati alla gestione del bar. Il Personale del Comparto ministeri ha lo status giuridico ed economico che ben conosciamo, soggetto ad una progressiva privatizzazione, così come per tutti gli impiegati dello stato. In questa Amministrazione questo personale - grazie alla precedente gestione - ha realizzato la riqualificazione prevista dal contratto, ma alla quale non è seguito un cambiamento di funzioni e quindi abbiamo il conseguente demansionamento di chi ha raggiunto posizioni economiche apicali. Si è sbandierata la necessità di eliminare completamente l’area A, ma a tutt’oggi, non solo la riqualificazione per questo personale segna il passo con evidente danno economico per chi l’ha superata, ma - quel che è peggio - una parte di quanti vi permarranno, perché non rientrati nel novero dei riqualificati, saranno costretti a rimanervi poste le necessità economiche introdotte dalla cosiddetta legge "Meduri". Infatti per trovare a posteriori i fondi per essa sono stati decisi tagli al personale dell’area B nel suo complesso. Analoga situazione per quanto riguarda i lavoratori già inquadrati nell’area B . Per essi è stato fatto il passaggio contrattuale del passaggio all’interno della stessa area, mentre è ancora da definire il passaggio dall’area B all’area C. Anche per loro vale quanto già detto a proposito dell’area A Anche i lavoratori appartenenti all’area C hanno realizzato il passaggio nell’ambito della stessa area, ma in particolare a quanti hanno raggiunto la posizione economica C3 viene con difficoltà riconosciuta la qualifica funzionale corrispondente alla posizione economica raggiunta. A questo proposito vale la pena di sottolineare che soprattutto per quanto riguarda la posizione economica C3, immediatamente prima della riqualificazione, sono stati espletati concorsi interni per il personale dell’area educativa e dell’area contabile - per l’allora Servizio Sociale invece sono stati espletati i concorsi interni per C2, che poi, a seguito della riqualificazione sono diventati C3 - che si sono andati a sovrapporre ai processi di riqualificazione per il restante personale e c’è la tendenza a considerare questi funzionari un gradino più in alto di quanti hanno realizzato la riqualificazione, come se quest’ultima fosse stata "regalata", mentre il concorso avrebbe permesso che tale posizione venisse "guadagnata". Siamo pertanto in presenza di una ulteriore spaccatura del personale ampiamente sponsorizzata e sfruttata dall’Amministrazione penitenziaria. È come se esistessero funzionari C3 di serie A - sono quanti hanno fatto il concorso - e di serie B - i riqualificati l’un contro l’altro armati. La legge cosiddetta "Meduri". Questa legge, rivolta esclusivamente ai Direttori di Istituto, di Cssa, ora Uepe, e Direttori di Opg ha inteso "fare giustizia " della "ingiusta riqualificazione del personale", pur avendone gli stessi usufruito cosicché i Direttori C1 sono diventati Direttori C2, e quelli C2 sono diventati C3 per cui, avendo fruito dei cosiddetti benefici contrattuali del vituperato contratto del Comparto Ministeri, oggi con questa legge sono diventati altro, appartengono ora al comparto Sicurezza e sono agganciati - dal punto di vista economico - ai prefetti ed agli ambasciatori. Sono diventati de plano tutti dirigenti, senza distinzione di sorta, cosicché chi è stato da vent’anni in istituto è stato messo sullo stesso piano di chi ha espletato per vent’anni figura di rappresentanza in uffici molto più comodi, senza assumersi alcuna responsabilità. Ma non basta. Per attuare tale legge, sono stati rastrellati tutti soldi disponibili, non solo quelli che erano stati stanziati per la 146 /2000, ma soprattutto è stata eliminata una quota di personale nell’area A e nell’area B. Altra grave discrasia di questa legge deriva non solo dal fatto che personaggi discutibilissimi abbiano raggiunto livelli apicali pur senza aver fatto niente per meritarlo, ma soprattutto viene creata una dirigenza di serie A, una di serie B ed una di serie C. Infatti i Dirigenti Meduri hanno accesso a tutti i posti chiave dell’Amministrazione penitenziaria, compresa la Dirigenza Generale che è riservata esclusivamente a quanti hanno avuto accesso ad essa attraverso questa legge - anche se la storia di questi ultimi anni contraddice questo assunto perché vede un Dirigente Generale proveniente dai ruoli del Servizio Sociale in stand by per ben tre anni e mezzo, perché i Dirigenti Penitenziari non lo volevano a dirigere un PRAP, in quanto -a loro dire - incompetente. Vi sono i Dirigenti contabili e tecnici in genere, per i quali è previsto un ruolo ben definito nel Dap e nel Prap - e sono quelli di serie B -, infine vi sono i Dirigenti Educatori, per i quali è previsto un ruolo di dirigente nei Prap, ma devono comunque sottostare a quelli dal ruolo dei Direttori Penitenziari, e non potranno mai esercitare appieno il loro ruolo dirigenziale. Gli educatori da sempre nell’Amministrazione Penitenziaria non solo devono faticare per fare carriera - sono gli unici insieme ai contabili ed i tecnici ad aver fatto il concorso per diventare Dirigente - ma devono sempre e comunque essere sottoposti a qualcuno perché dopo 25 anni di professione, lauree e specializzazioni devono ancora essere messi sotto tutela e non viene loro riconosciuta la specificità nel loro agire professionale. Da ultimo, va detto che questa legge ha escluso quanti hanno fatto il passaggio fra le aree da B3 a C1 verso il profilo di Collaboratore di Istituto Penitenziario, un tempo il livello iniziale del profilo di Direttore di Istituto. In realtà la legge Meduri formalmente non li esclude, ma nei fatti sì. Infatti il limite di età per l’accesso a tale carriera è l’aver compiuto 32 anni, mentre i nostri riqualificati sono tutti più anziani per ovvie ragioni, e vi si accede attraverso il concorso esterno. Quindi al momento attuale ci troviamo un certo numero di riqualificati, che hanno fatto il corso - concorso per passare dall’area B all’area C - profilo professionale di Collaboratore di Istituto Penitenziario - che non si sa in quale settore verranno utilizzati, ma che certamente non faranno i Direttori di Istituto. La legge Meduri pertanto, quanto a ordinamento della dirigenza, anziché fare un riordino,- così come sembrava essere il suo scopo - ha sconquassato gli equilibri a solo vantaggio dei Direttori Penitenziari, ma quel che è più grave, ha utilizzato, per il suo finanziamento soldi che non erano loro destinati, e - cosa ancora più grave - ha diminuito i posti a disposizione delle aree A e B senza nessuna riflessione sulla significatività dell’intervento anche di professioni complementari. Ciò è avvenuto nella consapevolezza che si potrà, in nome della carenza di personale, fare un uso ancora più spregiudicato e clientelare della Polizia Penitenziaria, nonostante l’asserita forte carenza. I numeri, come abbiamo già detto, contraddicono questa tesi, ma va sottolineato nuovamente e con forza che i poliziotti penitenziari tutto fanno meno che i loro compiti istituzionali, per cui in qualunque Istituto, se mancherà una unità in ragioneria, questa verrà attinta dagli esponenti del Corpo, anche se questo significherà che verranno diminuiti i posti di servizio nell’ambito dell’istituto, con innegabili ricadute sulle attività che in esso vengono poste in essere. Va inoltre ricordato che la Polizia penitenziaria così utilizzata continua a mantenere intatti i privilegi contrattuali che li differenziano dal personale del comparto Ministeri, per cui si ritrovano a lavorare gomito a gomito persone che, pur espletando le stesse mansioni, hanno benefici contrattuali diversi e, nella loro diversità, significativi. A seguito della Meduri, anche i medici hanno avuto la loro ghettizzazione perché neanche per loro è prevista una Dirigenza medica, se non negli Opg. Nessun raccordo da parte loro nell’ambito del Prap, e meno che meno al Dap, quasi che le politiche sanitarie dell’Amministrazione possano e debbano dipendere esclusivamente da personale amministrativo assolutamente incompetente nella materia. I parcellisti sono previsti principalmente in ambito sanitario e sono soprattutto infermieri e puericultrici. Ciò si è reso necessario particolarmente a seguito della forte carenza di infermieri di ruolo, cui l’Amministrazione chiede le stesse prestazioni che si chiedono ad un infermiere che viene assunto con il contratto della sanità, ma che - non solo non ha gli stessi benefici - ma non ha neanche lo stesso status giuridico. Quindi nell’Amministrazione Penitenziaria abbiamo anche infermieri parcellisti, cui in qualche maniera viene invece riconosciuto lo status di infermiere "vero" anche economicamente, mentre gli infermieri di ruolo per i quali viene richiesta la laurea, sono inquadrati nell’area B. Dopo molte insistenza, denunce, interventi di questo sindacato si è riusciti a far sì che l’Amministrazione riprendesse in mano l’argomento e si prevedesse per gli infermieri una carriera nell’ambito dell’area C. Ma dopo un anno dall’accordo a tutt’oggi non abbiamo ancora risolto il problema a causa delle lungaggini burocratiche. Rimane il fatto che la stragrande maggioranza degli infermieri di ruolo, è stata inquadrata nell’area B del contratto del comparto ministeri, con inevitabili conseguenze economiche: gli straordinari non possono eccedere le 17 ore, le turnazioni non solo vengono pagate quattro soldi, ma vengono liquidate a fine anno, attraverso i soldi disponibili con il Fua. Le missioni, quando gli infermieri accompagnano il detenuto malato vengono corrisposte solo se il detenuto è presente, per cui il viaggio di ritorno non viene rimborsato e l’infermiere può tornare indietro solo se il capo scorta è buono e consente il viaggio con i mezzi dell’Amministrazione. A questo si aggiunga che agli infermieri di ruolo non viene riconosciuto quasi mai un compito di coordinamento, cosa che dovrebbe essere naturale perché derivante dalla continuità della presenza e dalla conoscenza della situazione. Ma troppo spesso viene a loro anteposto il parcellista che comunque, per il fatto di essere stato assunto, ha un debito di gratitudine nei confronti dell’Amministrazione. Per quanto riguarda le puericultrici poi, queste sono un numero assolutamente esiguo, ma ve ne sono alcune che lavorano nell’Amministrazione da almeno venti anni e sono assolutamente scoperte in ordine a ferie, malattie, maternità. Diversamente dagli infermieri parcellisti, la loro prestazione in ambito penitenziario non costituisce il secondo lavoro, ma è per loro "il lavoro". Gli Ufficiali del disciolto corpo degli Agenti di Custodia. Sono un numero esiguo e per loro vale il contratto degli Ufficiali dell’esercito. Esperti ex art. 80 della legge 354/75. Si tratta particolarmente di psicologi e di esperti in criminologia clinica. Vengono assunti a seconda del bisogno, per l’osservazione scientifica della personalità che viene condotta sul detenuto. Date le note difficoltà di bilancio ogni anno i soldi per questi consulenti vengono diminuiti. Al momento attuale va detto che sono stati banditi dei concorsi - e sono in via di espletamento - per 39 posti per il ruolo di psicologo I lavoratori a tempo determinato: si tratta di 50 educatori e di 50 ragionieri, assunti per sanare minimamente i vuoti nell’organico, soprattutto al nord. Sono stati assunto per un anno attraverso un concorso. Al momento attuale vengono rinnovati di anno in anno, e siamo alla seconda annualità.
Proposte
Le proposte che possono essere fatte devono andare nella direzione di una progressiva unificazione del personale soprattutto dal punto di vista economico oltre che da quello giuridico. Non è possibile che chi lavora in carcere e si occupa sostanzialmente dello stesso fine istituzionale debba essere così discriminato. Innanzitutto sarebbe necessario inserire i lavoratori del Carcere nel novero dei lavoratori sottoposti a lavoro usurante e fruire dei benefici previsti per questa categoria di lavoratori. · La possibilità di fruire di un anno sabbatico, così come previsto nella provincia autonoma di Bolzano per i lavoratori che si occupano di disagio sociale ed espletano professioni di aiuto La revisione della diaria della missioni e la necessità di considerare il tempo di viaggio, tempo di lavoro. Quest’ultima, già di per sé povera, è stata azzerata con la finanziaria 2005. Il personale penitenziario è sottoposto all’obbligo della missioni per la grave carenza di organico di tutte le figure professionali. In particolare gli Assistenti Sociali sono costretti a muoversi sul territorio continuamente per la specificità del mandato. L’istituzione di una dirigenza unica in cui tutti quelli che vi accedono abbiano la possibilità di raggiungere livelli apicali e la revisione delle modalità di accesso ad essa. Passaggio del Sevizio Sanitario Penitenziario al Servizio Sanitario Nazionale. La previsione di una formazione del personale che punti ad una cultura unitaria e soprattutto punti al contenuto del trattamento: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato" e siano incentrate su questo concetto. Ufficio per l’esecuzione Penale Esterna Si sta assistendo ad un progressivo svuotamento del contenuto di questo Ufficio, che un tempo era l’Ufficio per il Servizio Sociale, oggi con la legge Meduri è stato chiamato Ufficio Esecuzione Penale Esterna, rinnegando nei fatti la sua valenza di servizio il cui compito istituzionale è l’aiuto e il controllo. In realtà l’Ufficio Centrale, nato come servizio agli uffici periferici oggi è solo uno strumento di potere di pochi che mirano a farne un momento di prestigio personale per condizionarne le strutture periferiche, senza che queste possano trovare in esso né sostegno, né aiuto, né proposte. È stata istituita una "Consulta per l’esecuzione penale esterna" di cui non si capiscono né i compiti né i contenuti, ma è sicuramente un modo per condizionare il Direttore generale a le fare scelte indicate da quell’organismo, senza che i componenti si assumano la responsabilità delle decisioni. Va detto che quest’ultimo - un magistrato che ha esercitato tale professione per poco tempo - al momento della persa in carico dell’Ufficio poco sapeva di misure alternative e di gestione degli Uffici di Servizio Sociale, come allora si chiamavano; si è dovuto pertanto affidare a chi diceva di saperne più di lui. Pertanto l’istituzione di questa consulta, che di per sé sarebbe potuta essere cosa buona, perché avrebbe potuto rendere democratiche e partecipate le decisioni in effetti non è altro che lo strumento per governare senza assumere responsabilità dirette. Al momento attuale si sta strutturando inoltre un regolamento di esecuzione della legge Meduri che prevederebbe un Dipartimento o un’Agenzia, autonomi dal Dap, e una pletora di posti di comando, quasi piccoli Prap autonomi, in modo da far sentire "dirigenti veri" tutti quelli nominati dalla "Meduri", che lascerebbero la gestione degli Uffici periferici ai vituperati C2 e C3 riqualificati che, ora sì, avrebbero l’obbligo di espletare le funzioni previste dal contratto. Va anche detto che la legge Meduri ha dato la possibilità ai magistrati che lo volessero, di diventare Dirigenti generali dell’Amministrazione Penitenziaria. Il magistrato responsabile dell’Esecuzione penale Esterna ha esercitato questa opzione, nella certezza di rimanere vita natural durante a gestire questo settore. Su questo problema è assolutamente urgente intervenire per riconsegnare a chi è competente la gestione di questo branca perché riconduca con piena dignità l’esecuzione penale esterna nell’ambito dell’esecuzione della pena degli adulti - quindi nel Dap - ridia la dignità di servizi a questi Uffici che, a causa delle ultime scelte operate dal centrodestra, sono stati espropriati delle specificità professionali. Non solo: è sempre presente il pericolo di un inserimento della Polizia Penitenziaria negli Uffici Uepe periferici, inserimento in parte già avvenuto per la presenza di autisti e di addetti in qualche segreteria, assolutamente da evitare nella gestione dei casi, sia pure per il mero controllo dei sottoposti a misura alternativa, controllo che esula dalle competenze della Polizia Penitenziaria, in quanto ascrivibile al controllo del territorio. Altro nodo da sciogliere e da affrontare nell’ambito dell’Esecuzione Penale esterna è quello delle sedi territoriali che, previste ed auspicate, avrebbero dovuto costituire gli Uffici territoriali più piccoli, quindi più a misura del territorio e delle persone che lo abitano. In realtà, al momento attuale - stante la grave carenza di personale - si tenta di aprirle ad ogni costo. Ciò non è possibile perché prevede che alcuni uffici siano sguarniti del necessario e quelli nuovi sarebbero comunque carenti, perché dotati di numeri totalmente esigui di personale. Quindi, sedi di servizio sì, ma tali che il lavoro possa essere espletato con serenità e senza aggravi, perché anche in questo caso la grave carenza di personale porta un notevole disservizio all’utenza.
La gestione delle risorse economiche
Altro grave problema che emerge è la gestione economica del Dipartimento: Non ci sono soldi per il vitto dei detenuti, per le loro cure sanitarie, per il lavoro, per i progetti; si lesina - negli Istituti - la carta igienica e negli Uffici la carta per le fotocopie, non si forniscono gli assorbenti alle donne. Si spendono soldi per il parco macchine, per gli uffici dei dirigenti, per le loro missioni talvolta assolutamente inutili e sulle quali non viene operato nessun controllo: viene utilizzato sistematicamente il personale in missione, quando in loco troppo spesso vi è del personale inutilizzato, solo perché non connivente con le scelte dei superiori. - Si pensi che vi sono funzionari sono in missione ormai da anni. Va fatta pertanto una seria valutazione delle spese del Dap.
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