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Il
sesso del prigioniero mandrillo
"Si rigira continuamente in quei tre metri per tre... Solo, con tutta la carica sessuale che gli scoppia dentro... Nei maschi come lui la sessualità è un segno forte della personalità".
Di chi parlo? Scopritelo.
Stavo finendo di scrivere un ennesimo trattatello sulla sessualità degli uomini prigionieri, commissionato per un libro sul carcere, quando finalmente ho trovato la notizia che fa fare un salto di qualità alla discussione. Il quotidiano Il Messaggero ha avuto la sensibilità di metterla in prima pagina. Il protagonista della storia è fra le sbarre dì una cella, a Roma, da 13 anni. Si rigira continuamente in quei tre metri per tre, di colpo poi si ferma, ti fissa immobile con occhi che sono due buchi neri... Apre la bocca in una smorfia cattiva... Fa paura. Da sette anni è solo, in quella gabbia. "Solo, con tutta la carica sessuale che gli scoppia dentro...". Si legge, negli studi specialistici: "Nei maschi come lui la sessualità è un segno forte della personalità, e la masturbazione è una forma di esibizione, un modo di comunicare, un comportamento sociale: per questo accade con altissima frequenza".
Vi ho ingannato per una decina di righe, ma solo in apparenza. La gabbia di cui si tratta non si trova a Regina Coeli, né a Rebibbia, ma allo zoo di Roma. Il protagonista della storia è una scimmia di 13 anni (la piena maturità) di nome Hurrà. Più esattamente un mandrillo: cioè la scimmia africana cinocefala magnificamente colorata, con il naso e il culo rossi e le gote azzurre. Un mandrillo, cioè il nome che la lingua romanesca ha preso in prestito per designare il campione di virilità sessuale umana. Che cosa è successo allo zoo di Roma? Che, dopo tanti anni, sono state procurate due compagne al mandrillo solitario, acquistate dallo zoo tedesco di Halle.
Bene, lasciamo in pace le scimmie prigioniere e torniamo agli animali umani. Ma i mandrilli e gli altri ospiti dello zoo, diranno subito i miei piccoli lettori, non sono né in attesa di processo, né condannati. Giusto: a maggior ragione non dovrebbero essere schiacciati nei tre metri per tre di gabbia. Ma, quanto alla sessualità, che essa venga loro concessa o no dipende da che cosa? Si troveranno degli zoologi che chiamino in causa i rischi d’estinzione della specie e la necessità di favorirne la riproduzione in cattività. Ipocrisia. In realtà, è chiaro che la forzata privazione sessuale è una crudeltà e una brutalità, una forma di mutilazione fisica e di tortura. Vedete, quando si parla del sesso dei reclusi (umani o altri animali) viene in luce la concezione che del sesso in generale ha, dichiarata o no, una società. La sessualità non le appare come una dimensione naturale, necessaria e ineliminabile della persona, bensì come una concessione, un di più, se non un vizio: il vizio. La prigione svela questi sentimenti.
L’arredo elementare della vita ordinaria appare, alla sua torbida vocazione punitiva, una concessione lussuosa. Un fornello in cella: una concessione revocabile. Tre docce alla settimana. Una cartolina illustrata incollata alla buona sul muro. Di questo elementare corredo della vita quotidiana, visto dal sorvegliante come una concessione fatta al piacere, cioè al vizio, del sorvegliato (tutto ciò che oltrepassa la mera sopravvivenza è inquinato ai suoi occhi dal piacere) la permanenza del desiderio e della relazione sessuale è il centro innominato e aborrito. Il sesso è piacere e vizio: è peccato. Dunque, la privazione sessuale non ha bisogno neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è il cuore dell’afflizione. Tutto ciò ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e al dolore: e fa apparire l’ipotesi della possibilità regolata di una relazione sessuale come un cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere, cioè alla peccaminosa superfluità, dell’animale umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di ogni reclusione e di ogni castigo.
La privazione sessuale non è una privazione: non è cioè l’assenza, la mancanza di qualcosa. Non è un vuoto, una mutilazione. Perfino la mutilazione è una versione eufemistica della realtà. Nella realtà, in quel vuoto cresce una distorsione, tortura, alla lettera, una deformazione che lo riempie fino a forzarne le pareti e farlo esplodere in malattia, pazzia, dolore senza controllo, mania e abiezione. Desiderio sessuale, e amore, non sono un di più della vita umana, da far comparire e scomparire con misure regolamentari o materiali. Sono altrettanto incancellabili e naturali che il pensiero o il battito cardiaco. Forzatelo, e crescerà storto e forte come una pianta nana.
La bibliografia sul tema è incredibilmente laconica. Meglio non vedere, non sapere. Chi ne scorra le pagine, noterà l’assoluta affinità coi resoconti etologici stesi dai tenutari e guardiani di gabbie zoologiche. Soprattutto sul sesso, e le sue pratiche immaginate animalesche e innominabili: irriferibili, cioè riferibili soltanto dal paziente al medico, dal penitente al confessore, dall’analizzato all’analista. Ne risulta un grottesco tecnicismo voyeuristico. Un esotismo, anche. Le abitudini riguardanti il sesso sono il muro più invalicabile fra italiani e stranieri, soprattutto la maggioranza musulmana fra gli stranieri. Come i detenuti italiani vecchi e all’antica, i giovani musulmani fanno la doccia in calzoncini, e si castigano i corpi tagliandoli. Nel loro caso, un’esistenza mutilata di animali in gabbia, che è quella di tutti i detenuti, diventa esistenza di animali esotici, e selvatici (cioè selvaggi, cioè feroci), in gabbia. Parlando a vanvera di risocializzazione la nostra civiltà autorizza (e di fatto incita) una vita sessuale di giovani umani ridotta a masturbazione meccanica e sfinita. Come nelle gabbie dei mandrilli celibi. Davanti alle quali si dice alle scolaresche di voltarsi un momento dall’altra parte. In carcere non è prevista la gita delle scolaresche.
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