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Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti" L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute (La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova) L'intervento di Sergio Segio e Sergio Cusani
In questi giorni abbiamo aderito a una iniziativa, che ci sembra decisamente utile richiamare, rilanciare e proporvi in questa sede. L’iniziativa si chiama "Adottiamo la Costituzione" ed è promossa da un gruppo di cittadini impegnati professionalmente in vari settori, nella ricerca, nella comunicazione, nello spettacolo, nell’istruzione, nella sanità, nel diritto. L’appello dei promotori, è questo: «Ciascuno di noi adotti un articolo: leggiamolo, impariamolo a memoria, parliamone con gli amici, difendiamolo nel nostro quotidiano, viviamolo e amiamolo come fosse individualmente nostro». Noi abbiamo scelto e adottato, questo forse va da sé, l’articolo 27. Uno dei suoi commi specifica: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Tutti noi sappiamo, anche per esperienza personale, che, diversamente, la pena reclusiva in Italia è molto spesso oggettivamente contraria al senso di umanità, poiché si svolge in luoghi e condizioni incivili e, di conseguenza, lungi dal riuscire a promuovere reinserimento e maggiore responsabilità sociale da parte del condannato, producono invece disperazione crescente, sofferenza ed emarginazione aggiuntive. Questo avviene anche, se non soprattutto, perché alla persona reclusa viene negato, dalle norme scritte ma più spesso da quelle non scritte, quel complesso di relazioni, spazi, luoghi, opportunità che garantiscano il diritto all’affettività. Un diritto che, contemporaneamente, viene negato alla famiglia del condannato (e, giova ricordarlo, del non condannato, ovvero di quel quasi 50% di reclusi che sono in carcere in attesa di giudizio definitivo) e a ogni sua altra relazione affettiva. La solitudine, la lontananza e quindi l’impossibilità di avere continui e regolari contatti con i propri cari sono spesso l’origine di un crollo psicofisico per tutta la famiglia, con la conseguenza di un inevitabile frantumazione del rapporto emotivo-sentimentale che colpisce inevitabilmente tutti i componenti del nucleo familiare. Di nuovo, dunque, l’effetto indiretto e sia pure non voluto (ma neppure minimamente evitato) della pena detentiva è esattamente rovesciato al principio affermato nell’articolo 27. Al termine della pena, il detenuto troverà ancora meno risorse e sostegni per compiere un percorso sociale, affettivo e lavorativo di reinserimento di quanti non ne avesse lasciati al momento dell’ingresso in carcere. Basta poco per capire quanto sia angosciante, specialmente per un bambino, per dei genitori anziani, per una compagna o un compagno affrontare una visita nella sala colloqui di un carcere. La carcerazione porta, nella maggior parte dei casi, uno sfilacciamento, quando non una drammatica rottura, dei legami affettivi: alimentando nel detenuto nuove solitudini e sentimenti di abbandono che, in un conseguente meccanismo di reazione, facilmente sviluppano risentimento verso il mondo esterno; il quale, a sua volta, certo non distoglie da nuovi percorsi di attività illecite, una volta libero. Non a caso la recidiva viene stimata addirittura del 79%. Insomma: un classico circolo vizioso. Sicuramente non è semplice rompere l’anello principale e più robusto della catena reato-carcere-reato: quello legato alle condizioni di esclusione sociale, di povertà economica e culturale (il 90% della popolazione detenuta è costituito da persone povere, se non direttamente emarginate). Condizioni che sono preesistenti all’ingresso in carcere e raddoppiate al momento dell’uscita (tranne i meritori, ma percentualmente scarsamente incidenti, casi di abilità professionali e formative acquisite nel periodo di carcerazione). Per rompere la spirale della recidiva su questo specifico e centrale punto occorrerebbe un complessivo sforzo e investimento da parte della società nelle sue varie componenti (volontariato e terzo settore, mondo del lavoro e delle imprese, agenzie formative, enti locali), una lungimirante scelta politica e una strategia coerente. In sostanza, quell’insieme di misure, risorse e disponibilità che chiamammo "Piccolo piano Marshall" per le carceri, che proponemmo due anni fa e che riscosse l’adesione e disponibilità di un vasto cartello sociale di associazioni, sindacati e volontariato, ma non l’indispensabile e fattivo intervento delle forze politiche e del legislatore che si limitò – al solito, su questi temi scomodi – a promesse poi non mantenute. Ma quella stessa spirale reato-carcere-reato è aggredibile in un altro punto: quello, appunto, capace di restituire al detenuto le relazioni e gli spazi affettivi che lo motivino, lo responsabilizzino, lo sostengano in un percorso di reinserimento. Percorso che non può che fondarsi sul riconoscimento di dignità della persona e della inalienabilità dei suoi diritti, posto che il carcere non deve essere afflizione aggiuntiva alla perdita della libertà. Gli spazi di mantenimento, crescita ed espressione delle relazioni sociali, degli affetti e anche della sessualità sono un fattore potente e imprescindibile dell’identità personale di ciascuno. Dunque hanno a che fare con la dignità umana, dunque devono essere intesi e rispettati quali diritti incomprimibili delle persona. Anche di quella reclusa. Garantire quei diritti è dunque rispettare la Costituzione. Ma anche dare attuazione alle normative. A partire dal "nuovo" regolamento penitenziario in materia di colloqui, di spazi verdi, di trattamento. Seppure il Consiglio di Stato, con il proprio parere dell’aprile 2000, ritenne di espungere dal nuovo regolamento la previsione di spazi specifici per l’affettività, ovvero unità abitative senza controllo visivo e auditivo da utilizzarsi come momento reale e intimo da parte dei detenuti per mantenere rapporti affettivi. Una proposta, questa, fortemente e tenacemente sostenuta da Michele Coiro e Sandro Margara, già direttori del D.A.P., e dall’allora sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone. Il Consiglio di Stato ritenne di stralciare questa materia con la motivazione che essa abbisogna di un passaggio legislativo.
Da qui, allora, ci sembra necessario ripartire ed è questa la nostra proposta:
Ci sembra un modo possibile per cominciare a incrinare quella spirale di cui si diceva. Ci sembra un modo necessario per ribadire che la persona detenuta, pur se condannata, è comunque un cittadino cui devono essere riconosciuti alcuni diritti inalienabili e un essere umano di cui va salvaguardata la dignità, così come quella dei suoi famigliari e delle sue relazioni affettive. Ci sembra un modo concreto e un contributo di noi tutti per cercare di non ritrovarci la prossima legislatura in un altro convegno a rimarcare l’assenza di spazi per l’affettività nelle prigioni.
Sergio Segio e Sergio Cusani Associazione SocietàINformazione ONLUS societainformazione@noprofit.org
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