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Per pietà, legalizzatela, di Stefano Bentivogli
Fuoriluogo, 26 novembre 2007
Stefano Bentivogli è da poco scomparso. Lo abbiamo conosciuto per il suo impegno civile a favore dei diritti dei più deboli e siamo felici che abbia collaborato con noi. Lo salutiamo pubblicando un suo bellissimo scritto.
Dietro le fessure degli scuri in legno chiusi, l’arrivo della luce del giorno si fa vedere solo quando il sole è ormai uscito allo scoperto, ha scavalcato l’orizzonte. Ma è la stessa cosa, una notte passata sveglio, come tante ultimamente, ha l’effetto di annullare il passaggio da un giorno all’altro. Sì e no percepisco il cambio di settimana marcato dalla consegna del metadone, quel sacchetto di bottigliette che ultimamente si è fatto più gonfio, più pesante, c’è bisogno di più pozione antidolore, ma non è una questione di dolore e basta. Lo sciroppo (il metadone, ndr) è ormai quel filo sottile che ti lascia un minimo di identità sociale, ad esso sono collegati degli altri umani la cui missione è quella di aiutarti e curarti. Per il resto sei fuori, sei una mosca fastidiosa per la polizia, un virus per la gente "normale" che ti percepisce tra la paura e lo schifo, la delusione rabbiosa per chi ti conosce, dolore per chi ti ama. E il tempo passa, arrivato oltre i quaranta anni i giorni svaniscono, diventano inconsistenti come la tua vita, eppure faccio un sacco di cose, non importa se raccontabili o meno, ne faccio tantissime senza che queste però marchino il tempo. Lui passa tra un sacchetto di bottiglie di sciroppo e l’altro. In mezzo c’è il nulla del mio esistere che ha perso anche il coraggio di finirla con questa vita, con la vita. Il mio corpo si è trasformato, sta liofilizzandosi, la pelle sta attaccandosi alle ossa... non mi sento bene... ma cosa hai, dove ti fa male?... non ho un nome per la mia malattia... non ho un nome per le mie sensazioni... non sento dolore... sento che sto morendo. Bel piagnisteo del borghesuccio che ha il mal di vivere, faccio pena, pena mista a fastidio, fastidio misto a rabbia. Riuscirei a trovare argomenti con chiunque, tranne con me stesso, lì argomenti non ne ho, sono incapace di reggere il confronto con la mia demenza edonistica. Diventa normale, accettabile, l’infezione, la flebite, il sudore puzzolente, la febbre... L’importante è mantenersi direzionati saldamente ai sentieri di morte... Quanta povertà sento per riuscire a scrivere righe del genere, sì povertà, pochezza interiore, certo che anche il torbido ha il suo fascino, ma prelude al nero, al buio, al niente. Ho bisogno di più luce perché il lumino che alla fine proteggo dallo spegnersi non ce la fa più, neanche chi mi sta vicino ce la fa più, li ho prosciugati al limite dell’umano, e non gli lascio nulla, un bel niente condito di dolori e rimorsi. A volte sento che l’hanno capito, ormai non riescono più a starmi vicino neanche fisicamente, ma non mollano lo stesso... che gran cosa la pietà umana, è un genere di amore gigante, un sentimento solo delle persone forti. Invece alla pietà si è dato un significato negativo: che mondo stupido abbiamo costruito. Io sono una persona debole, ho concretizzato in polverine dalle quali dipendere tutta la mia incapacità di godere con un po’di equilibrio. Però perché, per pietà, non mi si lascia vivere, rispettando le libertà degli altri, concedendomi un percorso legale, umano, senza vivere tutti i giorni la necessità di disprezzarmi per quello che devo fare, per le persone con cui devo avere a che fare, con la droga illegale? Per pietà, perché? Io posso comunque dare il mio contributo di cittadino dello Stato, stare al rispetto delle altre regole, perché allora? Stupida lex, sed lex, ma qui non si tratta mica di rinunciare a fumare sugli autobus, si tratta della mia vita: forse, visto che tanto la rispetto così poco io, è lecito, diventa legge massacrarmi così? Io non so se è una malattia, anche se ormai si usa dire "va’a curarti", so con certezza che non esistono terapie perché, effetti collaterali a parte (ma quante terapie vengono assunte normalmente "effetti collaterali a parte"!), le polverine nel mio caso sono delle terapie che, come tante altre, non guariscono, leniscono, curano, poi per altre strade si cerca la guarigione. Nel frattempo per "curarmi" ho fatto a pezzi diecimila altre regole, ho distrutto la mia salute non per le polverine, ma per la vita ed i costumi che l’illegalità impone. E poi l’amor proprio, primo farmaco da somministrare, diventa difficile quando attorno a te cresce il disprezzo, l’odio, la paura e ancora una volta non per le polverine in sé, ma per l’illegalità e l’immaginario che queste costruiscono. Potrei andare avanti per pagine, potrei raccontare gli episodi di un amore per la vita e per le persone massacrato, non da una debolezza che non lede la libertà di nessuno, ma per il rifiuto, ancora dominante nella società, di accettarla come questione personale e non sottoponibile alla morale comune o della maggioranza. La dipendenza da droghe può diminuire, o finire, quando si lasciano le persone crescere, e nessun carcere può essere ideato per questo scopo. Ma è troppo "immorale" una società che permette la vendita della polverina sotto controllo medico e a prezzo di mercato (legale). Dopo più di venti anni di tossicodipendenza come fenomeno sociale siamo ancora lì a discutere di permissivismo o meno, mentre si consuma una strage idiota, per ribadire una morale fatta di presunte verità e divieti e punizioni: la prima vittima è l’umanità, uccisa per distrazione generale che ormai è cecità. Per pietà, legalizzatela.
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