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Il problema non è la Gozzini ma fornire strumenti adeguati a chi deve applicarla
Liberazione, 7 maggio 2005
Ancora una volta la legge Gozzini è in mezzo alla bufera. Prendendo spunto dai tragici fatti di questi giorni (l’arresto di Izzo e la sua confessione), da più parti, si tende anche a rimettere in discussione la stessa concezione della pena, che, come prevede la Costituzione, non può, e non deve, avere una funzione "vendicativa", ma conciliare la funzione retributiva con quella della rieducazione del condannato. C’è chi ha riproposto la pena di morte; chi ha trovato il modo per attaccare ancora una volta la magistratura; chi ha proposto di abrogare, o limitare ulteriormente, una legge già in gran parte vanificata dalla legislazione d’emergenza. Se non vogliamo metterci sullo stesso piano di chi si rifiuta di fare una seria analisi su quanto accaduto, dobbiamo dire, senza enfasi ma anche senza falso pudore, che lo sconcerto, il dolore, la rabbia dell’opinione pubblica è non solo comprensibile ma anche giustificabile. Meno comprensibile, e per nulla giustificabile, è invece la "retromarcia" fatta da parte di chi (i Don Abbondio non mancano mai), fino a ieri, ha strenuamente difeso una legge, come la Gozzini, che, in una valutazione complessiva, ha dato risultati estremamente positivi: il che non significa ignorare i limitatissimi effetti negativi (in alcuni casi con conseguenze particolarmente tragiche). Proprio queste considerazioni ci debbono indurre a superare l’emotività del momento e a cercare di fare una analisi pacata, anche se difficilmente può anche essere serena (ce lo impedisce il ricordo del massacro del Circeo e l’orrore di quanto avvenuto a Campobasso). Proprio per questo è fondamentale partire da dati oggettivi che dimostrano come, al di là di rarissimi casi, le misure alternative al carcere hanno dato risultati estremamente positivi, non solo per i detenuti ma anche per la società. Sono oltre 600.000 i detenuti, che ammessi ai benefici penitenziari, dopo aver espiato una parte significativa della pena, si sono reinseriti nella società e non hanno commesso più reati: persone tolte al mondo del crimine e restituite ad una vita onesta. Detenuti che, se non avessero beneficiato delle misure alternative al carcere, sarebbero finiti ancora nelle maglie della criminalità, più o meno organizzata. Nell’anno 2004, su oltre 50.000 persone che hanno usufruito della legge Gozzini, "solo" 104 (cioè lo 0,21%) hanno commesso un nuovo reato (in molti casi assolutamente non grave). Il che non significa, sia chiaro, non porsi il problema di fare tutto quanto possibile per evitare anche quei pochi casi in cui viene tradita la fiducia concessa dallo Stato. La soluzione non è certo quella di modificare la legge, che è tutt’altro che permissiva (circa il 70 % delle domande di semilibertà viene respinta), ma di fornire, a chi deve applicarla, gli strumenti necessari per poter prendere le decisioni più adeguate al caso concreto Il che significa che, a differenza di quanto accade oggi, gli operatori penitenziari, i magistrati di Sorveglianza, gli addetti ai controlli debbono essere forniti di strutture adeguate e di organici sufficienti. E, invece, in presenza di una popolazione carceraria che ha superato, per la prima volta dal dopoguerra, i 58.000 detenuti, vi sono meno di 1.000 educatori, per non parlare degli psicologi piuttosto che degli assistenti sociali. Eppure il loro compito è delicatissimo: verificare - lo prevede espressamente la legge - la non pericolosità sociale del singolo detenuto, l’effettivo percorso di recupero, i progressi compiuti nel corso del trattamento, il graduale reinserimento sociale, la partecipazione all’opera di rieducazione e stabilire se il suo "ravvedimento" può essere considerato "sicuro". Il che presupporrebbe un rapporto continuo e un confronto costante che certo non è possibile se solo si considera il rapporto tra popolazione carceraria e operatori penitenziari. Ecco perché non si possono avere remore nel dire che le cause degli errori di valutazione, e dei giudizi che si sono mostrati non aderenti alla realtà, non sono attribuibili alla legge ma alla carenza dei mezzi necessari per la verifica della sussistenza dei requisiti per essere ammessi alle misure alternative. E di questa situazione è responsabile chi ha governato in questi anni: non solo perché ha privilegiato la costruzione di nuove carceri rispetto all’adeguamento delle strutture e dell’organico di chi si occupa di misure alternative, ma anche perché non è uscito dalla logica deleteria per cui l’unica sanzione penale è quella carceraria (basterebbe, per superare tanti problemi, introdurre, per tutti i reati di non grave allarme sociale, sanzioni penali diverse da quelle carcerarie: detenzione domiciliare durante il weekend: lavori socialmente utili e/o finalizzati al risarcimento del danno; misure prescrittive specifiche sulla base del reato commesso). L’esperienza dimostra che è il reinserimento dei detenuti, e non la costruzione di nuovi carceri, la soluzione per far diminuire la recidiva e quindi garantire meglio la sicurezza dei cittadini. Negli Stati Uniti dove "si costruiscono ogni anno più carceri che scuole e collegi" ( Jesus Sepulveda), i detenuti sono quasi 3 milioni, ma i reati non sono affatto diminuiti ed, anzi, sono aumentati a livelli esponenziali. Del resto, il nostro ordinamento penitenziario non si basa affatto, come molti continuano a credere o a sostenere, su una concezione "buonista" della Giustizia, ma su una precisa scelta di politica criminale che, ovunque è stata attuata, ha dato risultati positivi. Ecco perché è fondamentale difendere l’attuale normativa e battersi affinché vi siano gli strumenti e i mezzi per una sua corretta applicazione. Ma vi è di più! È la stessa Costituzione che sancisce non solo la legittimità, ma l’obbligatorietà, per il nostro ordinamento, di misure finalizzate a garantire il diritto a misure alternative al carcere. È del 1974 una pronuncia della Corte Costituzionale che ha imposto al legislatore una normativa che riconoscesse "il diritto per il condannato alla verifica se la pena già espiata abbia o meno assolto positivamente il suo fine rieducativo". In caso positivo, hanno affermato i Giudici Costituzionali, l’ulteriore espiazione della pena non deve aver luogo". Una ultima considerazione. Il Ministro Castelli - che, è giusto riconoscerlo, in questi giorni non si è scagliato contro la legge Gozzini - ha però voluto ribadire che, casi come quelli di Izzo, dimostrano quanto possa essere deleterio un provvedimento di amnistia. Ebbene, val la pena di ricordare che non vi è alcun collegamento tra un’eventuale amnistia e tragedie come quelle di Campobasso. In tutti le proposte depositate in Parlamento si parla di un provvedimento di amnistia (che significa estinzione del reato) solo per fatti per cui è prevista la pena massima di 4 o 5 anni (solo reati lievi, quindi, e non certo fatti di sangue). Se venisse approvata, l’amnistia comporterebbe la scarcerazione di un numero limitatissimo di detenuti, peraltro condannati per reati particolarmente lievi e quindi non socialmente pericolosi. Non avrebbe di fatto alcuna significativa incidenza sulla popolazione carceraria, mentre sarebbe estremamente utile per eliminare milioni di fascicoli processuali arretrati, i cui processi dovrebbero essere celebrati con la certezza della prescrizione prima della sentenza definitiva (togliendo quindi uomini e mezzi allo svolgimento, in tempi celere, dei processi per i reati più gravi). Se poi, con un lapsus giuridico, il Ministro intendeva parlare di indulto, e non di amnistia, vi è solo da dire che - se, come da noi proposto, fosse approvato un provvedimento di indulto di due anni e revocabile in caso di nuovo reato - si otterrebbero numerosi effetti positivi, tra i quali una diminuzione della popolazione carceraria con una situazione detentiva meno disumana; uno sfoltimento del carico di lavoro dei Tribunali di Sorveglianza, con le conseguenze positive ben intuibili. La spada di Damocle della revoca dell’indulto in caso di nuovo reato, avrebbe, oltre a tutto, un effetto deterrente estremamente efficace rispetto alla recidiva. Ma, soprattutto, un provvedimento di amnistia e indulto potrebbe porre le basi, se solo ve ne fosse la volontà, per fare quelle riforme, necessarie ed urgenti, tese a dare al nostro Paese una giustizia celere ed efficiente e carceri meno disumane e non - come sono stati definite quelle italiane - "le migliori del terzo mondo".
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