L'assistenza sanitaria in carcere contiene in sé
le modalità dell'afflizione tipiche della pena stessa. Se ci si sente male in carcere, quello che più pesa è essere
trattati più da detenuti che da pazienti
di Stefano Bentivogli - Redazione di Ristretti Orizzonti
Quando nel 1999 divenne legge la riforma della medicina penitenziaria,
quella che prevedeva il passaggio dei pazienti detenuti alle A.S.L., quindi
con le stesse garanzie e gli stessi servizi dei cittadini liberi, si era
pensato ad una operazione di grande civiltà, forse per la prima
volta si apriva una strada per far diventare la salute un diritto, e non
più una questione di competenza di una istituzione alla quale non
si riusciva mai a contestare nulla. Quando le cose non funzionavano, non
esistevano infatti diritti in quanto tali rivendicabili, ma semmai semplici
inadempienze dell'amministrazione. Dentro le mie illusioni rispetto a
questa riforma c'era invece l'idea di tante persone che finalmente diventavano
prima pazienti e poi detenuti, e questa che sembra una sottigliezza, per
chi sta dentro non è poi tanto tale.
Mi spiego meglio: se ad esempio un detenuto si trova a sentirsi male e
lo segnala all'agente in sezione, essendoci 24 ore su 24 un medico in
istituto, lui ha diritto ad essere visitato, non "Beh, che cos'ha
a questa ora?"- "Si ma dove sente male?" - "Ma le
fa proprio tanto male?".
E tutto questo avviene se si riesce rapidamente a trovare il medico, che
potrebbe essere in infermeria (al lavoro o a riposarsi), in un'altra sezione
e nessuno sa qual è, oppure allo spaccio a farsi un caffè.
L'altro particolare sono le chiavi che, la sera, dopo una certa ora, non
sono più al piano dove si trova la cella bensì giù
alla rotonda, e bisogna andarle a prendere. A volte (spesso) in sezione
c'è un agente solo e diventa un problema abbandonare la sezione,
a volte è in rotonda che l'organico manca, insomma, i minuti quando
uno si sente male in cella sono lunghissimi in certe particolari serate
dove, malattie, aspettative vengono a sovrapporsi c'è solo da affidarsi
al cielo. Capita che a volte, dopo essere stato rintracciato, il medico
risponda agli agenti di dire al detenuto che si segni "a visita medica"
per il giorno dopo.
A volte invece il medico arriva ma, ad esempio, non vuole entrare dentro
la cella, allora bisogna chiamare la barella ed ovviamente l'infermiere.
Spesso il medico si rifiuta di toccare il paziente (detenuto), allora
viene aperta un'altra cella e viene chiesta la cortesia ad altri due detenuti
di caricare in barella il paziente dopo di che il malato "sparisce".
Ricordo serate con la tensione a mille ad aspettare che venissero a prendere
qualche anziano il cui cuore aveva smesso di funzionare, addirittura i
campanelli di allarme o non funzionano o vengono staccati, ed allora tutti
ad urlare per far capire che stava succedendo qualcosa di serio.
Le sezioni dei penitenziari assomigliano oggi, se si guardano le patologie
presenti, a corsie d'ospedali. Quello che le differenzia dagli ospedali
è il rapporto tra paziente e sanità, perché il paziente
purtroppo prima che paziente è detenuto, e pare quasi che l'assistenza
sanitaria contenga le modalità dell'afflizione tipiche della pena
stessa.
Le patologie che più spaventano sono quelle riguardanti il cuore,
non perché più gravi di tante altre, ma solo per la rapidità
e l'attenzione di cui necessita l'intervento già dai primi sintomi,
anzi, proprio dalla pronta risposta a questi sintomi si ha più
o meno capacità di garantire la salvezza del paziente.
In questo momento penso a tutti i miei compagni dentro, ai quali fino
ad una certa ora della sera ci si prodiga in controlli della pressione,
ma se qualche ora più tardi sopravviene una crisi cardiaca, occorre
stanare il medico e convincerlo che una visita immediata non è
inutile, e non basta affatto mandare gli agenti a dire al detenuto di
segnarsi "a visita medica" per il giorno successivo. Penso anche
a quante volte dovevamo caricare noi in barella i nostri compagni, che
nessuno si prendeva la responsabilità di toccare.
Insomma, sarebbe un'altra occasione per ottenere due obiettivi di civiltà:
intendo dire che se per i tanti detenuti non pericolosi che si ammalano
si provvedesse a ricoveri in strutture ospedaliere, ci sarebbe un lieve
decongestionamento delle carceri e la garanzia di non vederli troppo spesso
morire in ambulanza, con il conseguente occultamento della loro reale
morte in carcere, malati e rinchiusi.
Io chiedo che ci siano maggiori controlli da parte dei magistrati, soprattutto
quelli di sorveglianza, ed una loro minore fiducia nel pensare che il
carcere sia solo quello che loro neanche tanto di frequente visitano negli
orari diurni. Dovrebbero invece informarsi negli orari notturni di cosa
succede, quando tutte le assenze vengono a concentrarsi, ed un piccolo
manipolo di agenti si trova a correre a destra e a sinistra, con medici
a cui poco interessano le tensioni che si creano in quelle condizioni
e che soprattutto pensano che "non c'è niente che non si possa
risolvere domani", quando cioè di turno non ci sono loro.
Noi cerchiamo di registrare puntualmente nel nostro dossier "Morire
di carcere" anche tutte quelle morti che non sono per suicidio, ma
per malattia o per cause "sospette".
Forse dovremmo aprire un capitolo il cui nome sia più chiaro, ossia
"Morti per omissioni di cura o di soccorso". Per arrivare a
questo ci sarà bisogno di rompere quel muro d'omertà che
spesso, dai detenuti alle direzioni, diventa impenetrabile, e attenzione,
avviene sempre perché queste morti, questi esseri umani, fanno
parte della categoria degli ultimi, quelli che non protestano mai e mai
nessuno protesta per loro.
In questo il completamento della riforma della sanità penitenziaria
può essere una nuova spinta a cambiare le cose, sperando che avvenga
una reale iniezione della cultura esterna rispetto alla salute, una cultura
che, pur piena di problemi, è controllabile e giudicabile senza
facili occultamenti per motivi di sicurezza o balle simili.