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Un carcere trita-affetti 2° numero speciale on-line di "Ristretti Orizzonti" realizzato per aderire alle iniziative in corso contro il disastro carcerario e la disattenzione della politica
Editoriale: Un carcere trita-affetti
Testo della proposta di legge cosiddetta Boato in materia di "affettività in carcere"
Carcere: l’astinenza sessuale e la mancanza di intimità, quando non sono praticate per scelta, deformano l’emotività, il rapporto col proprio corpo e con quello degli altri, di Stefano Bentivogli
Zero affettività uguale zero sofferenza?, di Flavio Zaghi
Ad un uomo carcerato non è la libertà ciò che più manca, ma il toccare, abbracciare, baciare il corpo di una donna, di Elton Kalica
L’unico affetto che ho è il telefono, di Altin Demiri
Dopo anni di carcere, ti senti come se fossi precipitato in una specie di imbarbarimento sentimentale, di Mauro Cester Editoriale: Un carcere trita-affetti
Raggiunta quota sessantamila detenuti, qualcuno ha avuto un soprassalto di coscienza, si è ancora una volta scandalizzato e ha cercato di attirare l’attenzione sulle carceri. "Qualcuno" vuol dire però i soliti noti, le persone che da anni si occupano di galere e di diritti dei detenuti; chi invece ha la responsabilità delle condizioni ormai insostenibili in cui le persone sono costrette a vivere la loro carcerazione sta dimostrando, con poche eccezioni, tutta la sua indifferenza. O la sua irresponsabilità, soprattutto quando parla di amnistia e indulto, ben sapendo che con l’attuale quorum richiesto per l’approvazione di una legge sull’amnistia, più alto che per una riforma costituzionale, nessuna amnistia è possibile. Sergio Segio e Franco Corleone, iniziando un digiuno per richiamare l’attenzione dei "distratti" della politica, hanno provato realisticamente a capire quali proposte di legge ci sarebbe ancora il tempo di mettere nel calendario parlamentare per dare un segnale di buona volontà e di reale intenzione di cambiare qualcosa nelle nostre galere, e hanno chiesto che per lo meno si vada a ripescare dall’oblio la legge per il difensore civico nazionale e quella sull’affettività. Per questo noi di Ristretti Orizzonti abbiamo deciso di fare un secondo numero speciale, a sostegno dell’appello "Il disastro carcerario e la disattenzione della politica", che sia un piccolo "promemoria" per politici, giornalisti, cittadini su uno dei tanti disastri delle galere italiane, quello della distruzione degli affetti. Un promemoria in cui i detenuti ricordano, con le loro testimonianze, che nel nostro paese, dove si ostenta spesso un vero culto della famiglia, quando poi sono in gioco le famiglie dei detenuti nessuno più pensa a fare qualcosa. E così, mentre un po’ ovunque le persone detenute possono incontrare i loro famigliari in spazi attrezzati per dare almeno l’idea di una casa, e senza controllo visivo, in Italia una proposta di legge, elaborata proprio in una Giornata di Studi organizzata dal nostro giornale, e sottoscritta da più di sessanta parlamentari, giace dimenticata in Parlamento. Speriamo che qualcuno riesca a resuscitarla. Camera dei Deputati - n° 3020 Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Boato, Ruggeri, Biondi, Folena, Pecorella, Gironda Veraldi, Montecchi, Mazzoni, Mascia, Maura Cossutta, Buemi, Cento, Moroni, Mazzuca, Detomas, Pittelli, Ruzzante, Cola, Bressa, Lucchese, Russo Spena, Pistone, Ceremigna, Cima, Nicolosi, Damiani, Vitali, Bonito, Trantino, Fanfani, Deiana, Villetti, Zanella, Milioto, Tarditi, Siniscalchi, Fragalà, Molinari, Bulgarelli, Saponara, Carbonella, Perlini, Soda, Boccia, Di Serio D’Antona, Carra, Bolognesi, Santino Adamo Loddo, Amici, Camo, Carboni, Bimbi, Cazzaro, Colasio, Frigato, Chiaromonte, Rocchi, Giacco, Grignaffini, Grillini, Pinotti, Sasso, Trupia, Zanotti
Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di "affettività in carcere" Presentata il 12 luglio 2002 Proposta di Legge
Articolo 1
1. All’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n° 354, è aggiunto, in fine, il seguente comma: "Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tale fine i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in locali adibiti o realizzati a tale scopo, senza controlli visivi e auditivi".
2. Alla rubrica dell’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n° 354, sono aggiunte in fine le seguenti parole: "e diritto all’affettività".
Articolo 2
1. Il secondo comma dell’articolo 30 della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: "Analoghi permessi possono essere concessi per eventi familiari di particolare rilevanza".
Articolo 3
1. All’articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni, è aggiunto, in fine, il seguente comma: "8-bis. Ai condannati che hanno tenuto regolare condotta ai sensi del comma 8, il magistrato di sorveglianza può concedere, oltre ai permessi di cui al comma 1, un ulteriore permesso della durata di dieci giorni per ogni semestre di carcerazione per coltivare specificatamente interessi affettivi".
Articolo 4
1. Il quinto comma dell’articolo 18 della legge 26 luglio 1975, n° 354, è sostituito dal seguente: "Per ciascun colloquio ordinario non effettuato è concesso ai detenuti e agli internati un colloquio telefonico aggiuntivo, con le persone autorizzate, della durata di quindici minuti. La telefonata può essere effettuata con costo a carico del destinatario". Carcere: l’astinenza sessuale e la mancanza di intimità, quando non sono praticate per scelta, deformano l’emotività, il rapporto col proprio corpo e con quello degli altri, di Stefano Bentivogli
Mi è successo una settimana fa di incontrare e di intervistare Ludmila Alpern, durante una sua visita in Italia nella quale ha conosciuto diverse persone che a vario titolo si interessano di carcere. È stato un incontro interessante e spero che potremo presto pubblicare l’intervista. In realtà Ludmila fa parte di una O.N.G. russa – gestisce anche un interessante sito internet, www.prison.org, consultabile in inglese o russo - che si occupa proprio di carcere e vuole arrivare a proporre una riforma del sistema penitenziario russo. Noi ovviamente ne abbiamo approfittato invece per capire qualcosa in più sulle loro carceri, e da lei ci siamo fatti spiegare e raccontare qual è la vita di chi si trova in Russia a scontare una pena. Un quadro piuttosto sconfortante, con circa 700.000 detenuti e celle che "ospitano" anche fino a cento persone. Non so se sia stato un caso, ma durante l’intervista non avevo fatto alcuna domanda su come viene gestita la questione "affettività in carcere". È stato in un momento successivo, addirittura il giorno dopo l’intervista, che le abbiamo chiesto informazioni, e riflettendoci mi sono accorto che, vista la situazione che lei ci aveva descritto, avevo dato per scontato che la questione affetti e sentimenti fosse decisamente superflua e fuori luogo in un contesto quale quello di cui ci aveva parlato. E invece mi dimentico ogni volta che veramente l’Italia fa parte di quei Paesi anomali dove, se per alcune questioni, quantomeno a livello di normativa, siamo all’avanguardia, per tutto quanto riguarda i sentimenti che in qualche modo coinvolgono la sessualità della persona siamo fermi, immobili in un atteggiamento ormai difficilmente spiegabile. Ludmila mi raccontava che in Russia, anche se con una frequenza molto bassa (quattro volte all’anno), i "colloqui intimi" sono consentiti, e sosteneva che la motivazione che viene data a questo tipo di concessione deriva soprattutto dalla convinzione – basata su studi scientifici – che negare il sesso ai detenuti aumenta i casi di suicidio. Certo la loro logica dell’esecuzione della pena non è assolutamente paragonabile alla nostra, quella russa è figlia di un sistema penale dove la vittima del reato era principalmente lo stato e l’atteggiamento di questo, nei confronti del reo, era implacabile: l’istituzione dei Gulag, dove le persone sparivano per essere utilizzate solo ed esclusivamente per attività produttive alla stregua degli schiavi, ne era la dimostrazione evidente. Oggi in Russia, pur essendoci un tasso di carcerizzazione tra i più alti del mondo e condizioni di vita per i detenuti allucinanti, sebbene con motivazioni poco "nobili" vengono comunque concessi i "colloqui intimi". Che io invece sia italiano lo si capisce già dal fatto di dover usare perifrasi e virgolette su una questione che non solo in Russia, ma in tanti altri Paesi da noi considerati arretrati ed incivili per le continue violazioni dei diritti dei detenuti e non, è stata invece affrontata ed in qualche modo risolta. In Italia sulla questione dei diritti all’affettività, già in occasione del rifacimento del Regolamento d’esecuzione dell’Ordinamento penitenziario nel 2000, si era tentata una soluzione, ma il Consiglio dei Ministri dopo l’intervento del Consiglio di Stato intervenne stralciando dalla legge proprio la parte che riguardava l’affettività. Le obiezioni del Consiglio di Stato erano state elaborate sotto due profili. Da una parte, il "forte divario fra il modello trattamentale teorico" prefigurato nel nuovo regolamento penitenziario e l’inadeguatezza del "carcere reale". Dall’altra parte, di ordine non solo procedurale, rinviando l’introduzione di norme a favore del diritto all’affettività a scelte legislative e non al regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975, n° 354: "nel silenzio della legge", si disse, "il diritto all’affettività non è scelta che possa essere legittimamente effettuata in sede regolamentare attuativa o esecutiva". Insomma, mettete in discussione tutto ma l’astinenza dal sesso no, è un salto troppo in avanti e l’Italia non è ancora pronta, e chi se ne frega che in tutto il mondo su questo si vada avanti senza grossi pregiudizi.
Negare un minimo di intimità significa punire il corpo, svilirlo, umiliarlo
Ma cosa c’è dietro questa difficoltà ad accettare che sesso, ma anche e soprattutto affetto ed intimità, siano una componente necessaria per permettere ad una persona di sentirsi ancora tale? Insisto che non si tratta, come molti vogliono far apparire, di far sfogare i bollori di quell’impulso che accomuna tutti gli esseri animali, o di evitare, come pensano i russi, che i detenuti si suicidino sottraendosi così all’esecuzione della pena, ma di evitare piuttosto che il detenuto finisca per non considerarsi più a tutti gli effetti una persona, proprio perché privato della possibilità fondamentale di sentirsi unito intimamente ad un’altra persona. Intimità poi è sì il rapporto sessuale, ma è anche passare un pomeriggio a giocare coi figli, fare i compiti insieme, riunirsi attorno ad un tavolo a mangiare ritrovandosi, anche per un tempo limitato, a vivere quelle sensazioni che sono parte dei vissuti positivi, che sono gli unici ai quali probabilmente è meglio aggrapparsi nella prospettiva prima o poi di uscire e ricominciare a vivere, in famiglia, in coppia, in compagnia e comunque in relazione. E poi è comunque un fatto di civiltà, perché in qualsiasi caso eliminare le relazioni, o permetterle solo in termini freddi e superalienanti, significa essere ancora legati ad una logica della pena che è quella corporale, dove qualsiasi prossimità fisica viene inibita e snaturata, proprio perchè bisogna punire il corpo, svilirlo, umiliarlo. Anzi la prossimità fisica diventa invece un nemico quotidiano da combattere: chiedete ad un detenuto di un carcere sovraffollato cosa intendo dire. Quelle che sono le conseguenze in termini di equilibrio psicofisico sono ben note a tutti quelli che abbiano studiato o si siano informati sull’argomento: l’astinenza sessuale e la mancanza di intimità, quando non sono praticate per scelta, deformano l’emotività, il rapporto col proprio corpo e con quello degli altri, alterano ai limiti della patologia le relazioni umane. Durante la giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti", che si è tenuta presso la Casa di reclusione di Padova il 10 maggio 2002, organizzata proprio dalla nostra redazione, venne elaborata una proposta di legge, che oggi vogliamo rilanciare e porre all’attenzione del legislatore perché, nonostante sia stata sottoscritta da numerosi politici, non se ne è più sentito parlare. La nostra redazione invece su questa strada ha continuato a lavorare cercando di raccontare attraverso la rivista, ma soprattutto i due libri – "Donne in Sospeso" e – "L’amore a tempo di galera" – scritti rispettivamente dalle detenute della Giudecca di Venezia e dai detenuti della Casa di reclusione di Padova, cosa veramente significa vivere affetti e sesso in galera. Sono stati lavori faticosi, perché non è facile esporsi su questioni così intime. Ma abbiamo preferito rischiare e metterci in gioco, convinti che era necessario raccontare un po’ di verità. L’immaginario collettivo spesso trasforma la sofferenza con cui viene vissuta l’amputazione della vita sentimentale dei condannati in leggende, dove chi è recluso diventa necessariamente omosessuale, e la vita nelle sezioni dei penitenziari assomiglia a Sodoma e Gomorra. Ma la realtà è ben diversa e più scomoda da accettare, perché invece i sentimenti dei criminali detenuti sono gli stessi delle persone libere ed incensurate. Ognuno con la sua storia è marito, moglie, amante, genitore, figlio, o semplicemente amico, figura alla quale vengono spesso negati addirittura i colloqui, quasi l’affettività vera dovesse necessariamente essere confinata ai vincoli di parentela. Mantenere gli affetti in carcere oggi è veramente difficile, fare sesso è vietato. Tutto questo in realtà si scontra con la logica dove le pene devono tendere a "trattare" le persone in modo da renderle, a pena scontata, migliori e pronte a rientrare in modo nuovo nel vivere sociale, comprese le relazioni personali. La realtà invece è fatta di famiglie devastate, coppie separate, figli che dimenticano di avere dei genitori, uomini e donne che relegano l’attività sessuale di coppia ai ricordi, fino ad alienarla o a renderla una triste ossessione fatta di masturbazione e basta. Ma noi vogliamo continuare a scrivere e a raccontare, non abbiamo molti altri strumenti per farci ascoltare. In recenti progetti di incontro tra noi detenuti di Padova e gli studenti delle scuole superiori, ci siamo resi conto che le persone libere, se coinvolte e correttamente informate, non sono poi così contrarie a riformare l’attuale trattamento dei detenuti riguardo l’affettività. Invece continuiamo a trovare poca spinta tra i tanti politici che, oltre ad una adesione alla proposta, in molti casi seguita dalla firma della proposta di legge stessa, non prendono alcuna iniziativa per riportare in aula la discussione della riforma. È vero che con questo governo molto lavoro in Parlamento è stato centrato sulla battaglia per appoggiare o contrastare le leggi da tanti considerate ad personam, o mirato a ostacolare tentativi ancora in corso di varare leggi che rischiano di essere classiste come la ex-Cirielli contro i recidivi ed il Ddl Fini – Mantovano sugli stupefacenti. Occorre però tentare di lavorare anche su proposte come quella sugli affetti, in realtà su questioni di questo genere è possibile trovare consensi più vasti di quello che la logica comune può far immaginare, spesso basta raccontare, far conoscere ed informare per ottenere consensi anche dove, per luogo comune, siamo ormai abituati ad immaginare solo ostilità ed incomprensione. Zero affettività uguale zero sofferenza?, di Flavio Zaghi
Parlare di affettività, per me, in un posto come il carcere, risulta piuttosto doloroso e difficile, e a dirla tutta, fa male, soprattutto quando vengo sopraffatto dai pensieri che il più delle volte vanno a smuovere e rimestare cose che ho ormai seppellito nel punto più profondo della mia anima. Ho fatto tempo fa la scelta di staccare la spina per non sentire e non stare più male, la scelta più comoda forse, ma molto-molto difficile da realizzare. Mi sforzo di tenere chiuse quelle porte, ma devo tenere duro di brutto per far si che ciò che sta dall’altra parte non mi travolga e mi faccia a pezzi. Mi ero detto: zero affettività, uguale zero sofferenza, ma non è proprio così. Ormai sono anni che io non faccio più i colloqui, in quanto l’unica persona che comunque non mi ha mai girato le spalle ora purtroppo non c’è più, era mio padre, è morto nel 2001 mentre io ero in carcere. All’inizio delle mie numerose carcerazioni facevo anch’io i colloqui come la maggior parte delle persone qui dentro, poi, strada facendo, ho iniziato a perdere i pezzi, nell’ordine: la donna, i genitori, le amicizie, e da ultimo il coraggio e la voglia di costruirne di nuove; ho staccato la spina e mi sono messo in stand-by. Guardo gli altri che vanno al colloquio e rivedo me stesso, si preparano, aspettano con ansia il giorno stabilito vanno giù di corsa per ritrovare la propria donna-moglie, riabbracciarla e rubare un bacio, un gesto d’affetto che le faccia capire che ci sei. Poter tenere in braccio per un po’ la propria figlia e cercar di stare vicini per tutto il tempo, poi, mettere nuovamente su la maschera che serve per resistere al distacco, dopo un’ora scarsa trascorsa troppo in fretta, vissuta in modo quasi irreale, dove avresti voluto dire chissà quali e quante cose, e invece poi dover vedere nelle persone a te più care solo occhi che lacrimano e doversi sforzare per trattenere le proprie, di lacrime. Un altro sforzo è uscire da quella sala come un automa, con lo sguardo fisso al pavimento e un passo dopo l’altro ritrovarsi in sezione. Col tempo inizi a chiederti se lei sarà abbastanza forte per resistere a queste cose, se riuscirà mai ad accettare di vederti così, in questo modo, per un periodo ancora imprecisato, essere presente tutte le settimane per i prossimi quattro-cinque anni. Tu lo sai che lei non c’entra niente in tutto questo, dovresti essere solo tu quello che sconta la condanna, ma guardandola, settimana dopo settimana, ti accorgi che lei sta soffrendo quanto te se non di più. Certo, se lei riuscisse a resistere, a sopportare per qualche anno, poi con l’ausilio dei permessi premio forse riusciresti a ridarle la tua presenza, ma potrebbe anche succedere che un giorno lei decida di non venire più a colloquio e allora…, allora si stacca la spina. Ora, da qualche tempo si parla di affettività in carcere, ma in Italia, quando appunto si parla di questo, si fanno subito paragoni del c… e si inizia a parlare erroneamente e ironicamente di celle a luci rosse, e si comincia a dire che ci manca solo che in galera si possa anche scopare o avere dentro anche le puttane. Eppure per affettività si intende poi anche di poter trascorrere un po’ di tempo, il colloquio poi alla fine, in condizioni più decenti e meno stressanti del solito. Una cosa che è prevista dall’ordinamento e soprattutto dal nuovo regolamento, una cosa che Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate già da tempo permette e attua, infatti nel carcere da lei diretto è stata allestita una zona dove i detenuti possono appunto effettuare il colloquio con la propria famiglia, moglie e figli, con quel po’ di intimità che serve ad una famiglia. Niente più di una stanza arredata con tavolo, sedie, cucina e divano, dove il nucleo familiare resta veramente insieme, con la possibilità di pranzare attorno a un tavolo come una vera famiglia e trascorrere un po’ di tempo senza sentire la pressione della struttura carceraria. I nostri politici sbandierano il fatto di averci fatto "diventare europei", ma a mio avviso noi italiani in comune con l’Europa abbiamo poco più della bandiera e della moneta. I sermoni in merito all’importanza e al valore della famiglia si sprecano, non si parla d’altro, ci si indigna però ancora sulle coppie di fatto e sui matrimoni gay e si guarda il detenuto solo come una persona che deve espiare, quindi privazione della libertà più un’infinità di altre limitazioni, nessuna libertà neanche ai sentimenti. Quello che agli uomini manca. Ad un uomo carcerato non è la libertà ciò che più manca, ma il toccare, abbracciare, baciare il corpo di una donna, di Elton Kalica
Ricordo che, nei miei anni di più tenera età, quando mi rifiutavo di dare ascolto agli ordini di mia madre, lei, sollevava minacciosamente un sopraciglio e prometteva che, in caso non obbedissi subito, allora sarebbe andata via – insieme al papà e al mio fratellino, ubbidiente – ad abitare in un’altra casa, lasciandomi solo, e che non li avrei più rivisti. Questo strumento di disciplina funzionava sempre. L’idea di rimanere da solo, senza di loro, mi spaventava a tal punto che diventavo subito mansueto, e terrorizzato mi mettevo in un angolo e non parlavo per giorni. Poi diventai uomo e il ricordo delle sue minacce mi faceva sorridere. All’età di diciannove anni, emigrai in un altro paese, distante da casa, lontano dai miei cari. Sentivo molto la loro mancanza, ma cercavo di rimediare alla mia nostalgia con delle prolungate telefonate. Spendevo tanto denaro in schede telefoniche, e in sigarette. Gli telefonavo ogni pomeriggio e ogni sera, l’unico modo per sentirli vicini, finché, un giorno, finii in carcere, dove continuo a stare tuttora: ormai sono passati dieci anni dal giorno in cui sono emigrato in questo paese, distante da casa, lontano dai miei cari. "Cosa dire a degli studenti per far capire loro che le leggi vanno rispettate?": ecco, un giorno mi sono trovato a dover rispondere a questa domanda, insieme ad altri detenuti e volontari. Con l’intento di "sfruttare" le nostre esperienze e la nostra condizione per affrontare con i più giovani il problema della devianza dalla legalità, incappammo in un grande punto interrogativo: una dozzina di uomini – duri e "senza paura", dato che abbiamo infranto la legge – che ci guardavamo negli occhi non sapendo come fare per riuscire a convincere dei ragazzini che la galera non è uno scherzo. Fu in quell’occasione che mi rammentai delle minacce di mia madre, e le trovai ideali per uno scopo educativo. La galera è brutta e spaventa, ma quello che realmente terrorizza è in particolar modo il fatto che il regime carcerario, in Italia, cancella, oltre alla libertà, ogni altro rapporto affettivo. Ti lascia solo. Ti isola lontano da tutti. E credo che basterebbe dire questo ai giovani per spaventarli a morte, basterebbe saper raccontare che, se si finisce in galera, invece della propria stanza con il poster del cantante preferito e il tavolino con l’abatjour, si ha una piccola cella da dividere con degli sconosciuti, per anni, dove l’unica attrazione è un televisore a 14 pollici, perennemente acceso. In galera si potranno vedere i propri cari soltanto una volta a settimana, per un’ora, chiusi in una stanza con un’altra ventina di persone che piangono, urlano o ridono. Si potrà anche chiedere al direttore di vedere la propria fidanzata, se si desidera, ma si deve resistere alla tentazione di toccarla o baciarla sulle labbra perché è proibito dal regolamento, e se lo si fa, si è soggetti a rapporto disciplinare, ed eventuali punizioni. Se si ha voglia di telefonare a casa, si dovrà richiedere la telefonata con tre giorni d’anticipo e si può farlo soltanto una volta a settimana per la durata di dieci minuti. E certo l’idea che si telefoni soltanto a casa, e non ad amici e conoscenti, può sconvolgere dei ragazzi che sono abituati a mandare centinaia di messaggini ogni giorno. Naturalmente c’è anche il campetto da calcio che potrebbe essere una cosa rassicurante in quanto assomiglia a quello dell’oratorio parrocchiale, ma se si mette in calcolo che ci si può andare una volta a settimana, insieme a tutta una sezione di cento persone, che devono giocare a turno, per un paio d’ore, probabilmente si rinuncia a rincorrere quel pallone, anche se ti farebbe sentire a casa, libero. Poi si deve senz’altro spiegare ai ragazzi che, quando si decide di leggere un libro, bisogna chiudersi in cella, con la porta blindata, per non permettere al chiasso di distogliere la concentrazione. E, avviliti da tutto e da tutti, si comincia a provare disprezzo per quelli che urlano, che cantano, che si lamentano, che litigano o che si tagliano le vene, si comincia a considerare bestie tutti gli stranieri, perennemente arrabbiati, che da anni non vedono i propri cari, non li sentono per telefono e si sono dimenticati di cos’è un abbraccio e un sorriso. Infine, costretti a vivere tra queste restrizioni e condizionamenti, gli anni fuggono via uno dopo l’altro, e allora non si è più giovani ma si cerca lo stesso di trovare conforto nei propri ricordi, ai quali, nei momenti più difficili, ci si aggrappa con le unghie e con i denti, per non gridare, per non impazzire. Si chiudono gli occhi e, abbozzando un sorriso, si rivede lo sguardo minaccioso della madre che ordina di finire i compiti se non si vuole essere chiuso nello sgabuzzino, per punizione. Si rammenta il silenzio della propria camera dove si giocava per ore e ore ai videogiochi, indisturbati, e dove anche qualche volta ci si chiudeva con la propria ragazza, per un pomeriggio intero, mentre i genitori erano via, e in quel momento, ancora immersi nei ricordi, ci si accorge che ad un uomo carcerato non è la libertà ciò che più manca, ma il toccare, abbracciare, baciare il corpo di una donna, sentirne l’odore, ribadendo che l’affetto è un motivo valido per cui continuare a vivere, anche se soffrendo, anche se morendo. Non è difficile convincere le persone che la galera è un inferno, e poche sono le cose talmente facili come lo spiegare che perdere la libertà significa non soltanto non essere più liberi, ma anche non avere più nulla di tutto ciò cui siamo tanto affezionati, cose e persone. L’unico affetto che ho è il telefono, di Altin Demiri
Mi trovo in carcere ormai da undici anni, e ho perso tutto. Oggi voglio scrivere due righe sull’affettività in carcere e non nascondo un certo disaggio. Nella redazione di Ristretti Orizzonti, in cui lavoro, il vittimismo è proibito, ma questa volta la vittima è reale, sono io, e la sua esperienza obbliga l’articolo a seguire un percorso fatto di un ripetersi di lamenti provenienti da privazioni e da disagi. Da dieci anni telefono a casa ogni settimana e, ogni volta, l’attesa trasforma la settimana in un tempo interminabile. Ma poi la lunga ansia dell’attesa puntualmente viene ripagata, quando il centralino del carcere mi collega con casa e il telefono squilla, alzo la cornetta, le mani mi tremano, cerco di comprimere l’emozione della mia voce, dalla bocca escono ogni volta le stesse due parole "ciao mamma". Le nostre conversazioni sono sempre piene di emozioni arricchite di ricordi. In realtà prendo io l’iniziativa di raccontare le mie giornate trascorse in carcere e quanto bene sto di salute, tutto per calmarla, a volte le racconto delle bugie dipingendo il carcere qui in Italia come una specie di albergo, e dico che non mi manca niente, che ho tutto, all’infuori della libertà. Poi aspetto che dall’altra parte della linea la voce di mia madre mi dica qualcosa, ma spesso l’attesa è inutile, la sento solo piangere. Lei sa che mento. Non poche volte ho pensato di rinunciare alla telefonata settimanale, soltanto perché non voglio sentire mia madre piangere e soffrire per la mia mancanza. Ma capisco che non sono le mie telefonate a ferirla e a farla piangere, e so che se non la chiamassi lei soffrirebbe molto di più. È la nostra lontananza senza speranze, ed è l’inevitabilità della separazione obbligata che la fa piangere. L’unico modo che lei ha per abbracciarmi, e baciarmi, è il telefono. Questo la fa piangere. Per capire i disagi, le mancanze, le proibizioni, devi vivere l’ambiente carcerario. È terribile come il carcere a un uomo deve annullare nel suo animo ogni forma d’affetto, passata e presente. Perché, dopo tanti anni di carcere, perdi in primo luogo i sentimenti che provavi per le persone che hai amato, i famigliari, gli amici, e poi, con il passare degli anni, non riesci più nemmeno a costruire o mantenere un rapporto con persone nuove, che possono essere i cugini che crescono o i nipoti che nascono. Forse un giorno uscirò, e per via di questi anni di solitudine mi troverò abbandonato, senza niente e nessuno con cui stare, e sarà come se mi trovassi su un nuovo pianeta, e con tutto da riscoprire sugli affetti. È senz’altro giusto che un uomo paghi l’offesa che ha recato alla società, e la punizione consiste nell’essere privato della libertà, isolato, con l’impossibilità di muoversi nella comunità libera. Ma è disumano vedersi privati dell’abbraccio di una madre o del bacio di una moglie. Ancora oggi la società non sa che spesso l’offesa e l’umiliazione e la perdita della dignità che il carcere procura sono spesso superiori al danno che le persone incarcerate hanno causato alla società. Io in undici anni di carcere ne ho visti tanti di padri, detenuti per reati non gravi, perdere i propri figli, la propria compagna, ho sentito molte famiglie rovinate, e se questo la società lo ritiene un reinserimento io non lo comprendo. Ancor più grave si rivela la situazione dei detenuti stranieri che non sanno più cosa sono gli affetti. I detenuti stranieri trovano difficoltà anche con le cose più elementari come il comunicare telefonicamente con le proprie famiglie, in quanto l’apparato burocratico impone un labirinto di procedure che implicano oltre tutto dei tempi lunghissimi d’attesa. Mentre i colloqui sono quasi impensabili, in quanto i problemi economici e logistici sono pressoché proibitivi. Le rare volte che una famiglia è in grado di affrontare le spese per viaggiare verso l’Italia a trovare un proprio caro detenuto, non riesce ad ottenere un visto dal consolato italiano del proprio paese, che pretende un lungo elenco di requisiti per il rilascio di un visto turistico. Ma anche il riuscire ad avere il visto d’ingresso non pone fine ai problemi, in quanto poi in Italia non è facile orientarsi e sistemarsi nei pressi del carcere se non si conosce la lingua o qualcuno disposto ad aiutare. Non penso che gli affetti dopo tutto questo tempo trascorso si possano recuperare. Dopo tanti anni d’isolamento e di sradicamento sarà senz’altro illusorio anche solo pensare di essere "adeguati" ad affrontare la vita fuori, e il rientro in famiglia. Ora purtroppo so fin troppo bene cosa significa essere lontani dal suolo natio, e dagli affetti, essere preda dell’ansia, della nostalgia, in un carcere che raccoglie tremendi vuoti affettivi, che abbrutiscono l’animo umano. Dopo anni di carcere, ti senti come se fossi precipitato in una specie di imbarbarimento sentimentale, di Mauro Cester
Quando si parla di diritto all’affettività in carcere, si scatena subito una reazione, direi piuttosto bigotto, tipo: "Ci manca solo che possano scopare in galera". Una volta dicevano cosi anche per i fornellini, poi per la televisione e per altre piccole "concessioni" fatte ai detenuti. L’affettività comunque penso non abbia molto a che vedere con un puro discorso di sesso, anche se, comunque, fare del sano sesso è senz’altro terapeutico e credo abbasserebbe di molto l’aggressività. Si tratta più che altro di permettere a persone che devono pagare per le loro scelte sbagliate di stare con la propria famiglia, la propria moglie, con i figli per qualche ora in un ambiente riservato, perché anche il solo parlare intimamente fa bene. E invece si pensa prima di tutto a punire i detenuti, cercando di tarpare qualsiasi sentimento che possa dare loro piacere, e dimenticando i famigliari che subiscono di riflesso lo stesso trattamento, che sono costretti a vedere il proprio caro al massimo per sei ore al mese, in un ambiente freddo e scomodo, sotto l’obiettivo delle telecamere e, peggio, sotto gli occhi scrutatori degli agenti, che, forse a malincuore, sono lì per controllare. Questi incontri avvengono a volte anche dopo lunghe attese, che causano ulteriori ansie, tanto che i famigliari, in alcuni casi, decidono proprio di rinunciare al colloquio per questioni di tempo o per limiti nella loro capacità di sopportazione. L’affettività è mantenere vivo un rapporto malgrado tutto, e se non viene data questa possibilità credo che la condanna diventi doppiamente diseducativa e afflittiva. Non conosco i risvolti psicologici che può avere questa continua privazione, io posso solo portare la mia esperienza: dopo nove anni di carcere ho potuto toccare con mano la realtà esterna e misurarmi finalmente con il "fuori". E ho scoperto che il contatto umano non solo mi spaventava, ma mi dava quasi fastidio, mi sentivo come se avessi subito una specie di imbarbarimento sentimentale. Il fatto è che non si è più abituati a relazionarsi con una persona, e non per questioni sessuali, perché per quello magari basta tirar fuori l’animalità, ma perché non si è più abituati ad avere un contatto fisico, ad essere accarezzati. Ed è difficile ritornare a sentirsi liberi e spontanei, perché le condizioni del carcere in qualche modo ti cambiano in modo irreversibile. In molti altri paesi spesso le possibilità di mantenere vivi gli affetti sono tante di più, magari anche minime, ma importanti. In Francia, per esempio, un detenuto può chiamare i famigliari, ma anche gli amici, in qualsiasi momento della giornata, come avviene fuori, mentre da noi bisogna inoltrare una richiesta scritta, tre giorni prima, con l’orario prestabilito. Se nessuno risponde, la telefonata slitta. Io faccio i colloqui tutte le settimane con la mia compagna, e di comune accordo abbiamo deciso di non telefonarci più perché è penoso parlare dei fatti propri, sapendo che, per motivi di sicurezza, le telefonate sono ascoltate. Ma questa, ripeto, è una scelta personale. Anche in Italia però qualcosa di meglio c’è: ci sono carceri come quello di Bollate, dove la direttrice, Lucia Castellano, ha realizzato una "Stanza dell’affettività" in cui le coppie con figli si possono incontrare in un ambiente adatto, dove ci sono giochi per i bambini e una cucina per preparare e consumare il pranzo insieme, in assoluta tranquillità. Questo non significa che ci sia tutta quella intimità di cui ci sarebbe bisogno, ma almeno ci si può vedere lontani dal solito ferro e cemento e circondati da qualcosa di diverso dai soliti arredi da officina meccanica. In tanti paesi l’incontro senza controlli visivi tra uomini e donne in carcere è assolutamente normale e non causa allarmismi o preoccupazioni tra il personale addetto alla vigilanza e la popolazione esterna, ma in Italia sembra che gli affetti siano una concessione. Qui a Padova, come in molte altre carceri, non si possono neanche effettuare i colloqui nelle aree verdi, e ad attendere i famigliari, al loro arrivo per i colloqui, ci sono sempre più spesso i cani antidroga.
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