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Disabilità e Prigione: la vita e i quadri di uno studente particolare A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 5 giugno 2007
Matteo ha diciotto anni, frequenta il Liceo A. Veronese di Montebelluna, sta in carrozzella assistito da tante persone perché ha una grave disabilità, Graziano è detenuto nella Casa di reclusione di Padova, esce alla mattina per andare a lavorare e rientra in carcere la sera. Qualche giorno fa Graziano e Matteo si sono conosciuti, durante un incontro di detenuti e volontari con i ragazzi della scuola di Montebelluna. Uno strano incontro, perché ha messo a confronto una condizione pesante, difficile come quella di chi sta in carcere con la sofferenza e la fatica di chi per vivere ha un bisogno continuo degli altri, e di una sedia a rotelle. Ne è nata una riflessione profonda sulla prigione, sulla disabilità, sul vittimismo, che vogliamo proporre ai lettori. Matteo ha chiesto di venire a trovare Graziano, e di entrare in carcere, stiamo organizzando la sua visita. Aggiungiamo un consiglio: se vi capita di passare per Montebelluna, andate a vedere la mostra dei quadri che Matteo dipinge con le mani: sono straordinari, emozionanti.
"Disabilità" e "Prigione": la vita, e i quadri di uno studente particolare
di Graziano Scialpi
Non mi è mai piaciuto il vittimismo. E ancora meno mi piace da quando sono in carcere. Se ogni tanto tendo a scordarmi il perché della mia avversione nei confronti di questo atteggiamento, ci pensa il caso, o la necessità a mandarmi un promemoria. L’ultimo mi è arrivato, in modo inaspettato, durante un incontro in una scuola di Montebelluna. Stavamo già rispondendo alle prime domande dei ragazzi, quando la porta si è aperta e sono entrate tre insegnanti che portavano un ragazzo disabile, molto disabile, e la sua sedia a rotelle. Ho dato un’occhiata al ragazzo, un fagottino di non più di dieci chili, mentre lo sistemavano a qualche metro da me, alla mia destra. Poi la mia attenzione è stata catturata dalla fatica di rispondere alle domande dei ragazzi. Alla fine, mentre stringevo qualche mano, con il solito senso di spossatezza e di sollievo che mi lasciano addosso queste giornate nelle scuole, sono stato avvicinato da un’insegnante che mi ha consegnato un foglio con sopra quelle che mi parevano delle macchie di colore a tempera. "Matteo ha saputo dell’incontro e ha disegnato questo per voi, si intitola: Prigione", mi ha spiegato l’insegnante indicandomi Matteo, il ragazzo disabile sulla sedia a rotelle. Sarò sincero, sul momento il disegno mi è parso solo un pastrocchio: delle macchie di giallo, di azzurro e di marrone, con sopra una macchia color nero. Comunque ho ringraziato il ragazzo per il pensiero gentile. Le insegnanti, orgogliose, mi hanno spiegato che c’era una mostra di disegni di Matteo nella scuola. Mentre ci dirigevamo all’aula dell’esposizione, l’insegnante di sostegno mi ha spiegato che Matteo "capisce tutto". Dopo aver visto la sua mostra, non ci sarebbe stato bisogno di quella precisazione. Sono entrato nella stanza e sono bastati pochi secondi per rendermi conto che Matteo, che non può muoversi e non può parlare, ha trovato il modo di esprimersi attraverso la pittura. Le "macchie" hanno assunto senso, i colori significato ed è stato come il disvelarsi di una lingua sconosciuta che, per qualche minuto, mi ha permesso di viaggiare nel piccolo, intenso, infinito mondo di Matteo. Mentre passavo da un quadro all’altro (sì, meritano l’appellativo di quadri!) ho fatto fatica a ricacciare indietro le lacrime che mi salivano agli occhi. Riporto qui i titoli di alcune sue opere: "Mio padre"; "Mia madre"; "Vacanza", un turbinio di colori blu e azzurri che meglio non potrebbe rievocare il mare; "In attesa del mio compleanno", un’esplosione scintillante di rosa e giallo; "L’amore", una nuvola rosa che riempiva tutto il foglio. I titoli li sceglie lui. Ha una macchinetta che riconosce le lettere dell’alfabeto che guarda. Ma sono stati due suoi disegni a farmi venire un groppo alla gola e allo stomaco. Si intitolavano "Disabilità" e "Solitudine": due orrende macchie nere in mezzo al foglio bianco, senza nient’altro intorno. Ho riguardato il quadro che ci aveva donato. Anche in "Prigione" c’è al centro una macchia nera, ma è circondata da colori, mescolata ad altri. Un messaggio chiarissimo: oltre la prigione, in prigione c’è vita, c’è speranza, basta solo volerla vedere… Sul quaderno, a disposizione di chi vuole lasciare un messaggio a Matteo, ho scritto "Non mollare", poi gli ho stretto la spalla e l’ho ringraziato per tutti i suoi quadri. Quando siamo usciti dalla scuola stava piovendo a dirotto. Ho preso il disegno di Matteo e l’ho stretto contro il petto, riparandolo col mio giubbotto perché non si bagnasse…
Il carcere, come funziona attualmente, crea troppo vittimismo assurdo
Cosa c’entra tutto questo con il carcere, con il senso da dare alla pena? Secondo me c’entra perché il carcere, come funziona attualmente, crea molto, troppo vittimismo assurdo. La stragrande maggioranza dei detenuti è abbandonata a oziare per anni in quegli allucinanti microcosmi chiusi che sono le sezioni, dove i discorsi si ripetono ossessivi, dove i disagi si tramutano in litanie di lamentele, dove tutto scompare tranne le proprie pulsioni e i propri desideri repressi. È assurdo, e inaccettabile per la società, che i detenuti, rinchiusi perché hanno commesso reati e danneggiato altre persone, finiscano per sentirsi essi stessi delle vittime. È assurdo, ma tuttavia, al momento attuale, è pressoché inevitabile. È una trappola insidiosa nella quale è difficilissimo, a volte impossibile non farsi trascinare. Una pena concepita in questo modo non solo è inutile, è dannosa. Lungi dal "rieducare", riscaraventa nella società persone rivendicative che non aspettano altro che di rifarsi nel più breve tempo possibile di quello di cui sono state private durante la detenzione, e con gli interessi. L’antidoto che viene comunemente indicato contro questo meccanismo perverso è semplice: bisogna tirare fuori i detenuti dalle celle, farli lavorare, farli studiare, farli partecipare ad attività costruttive. Certo l’attività riduce i danni della carcerazione, ma non è la pura e semplice attività che produce autentici "cambiamenti di rotta". Quello che davvero funziona è il confronto che queste attività spesso comportano come corollario. Confronto con gli insegnanti, con i datori di lavoro, con i volontari. Senza confronto non ci può essere un cambio di idee, un mutamento di valori, una "rieducazione". I detenuti dovrebbero potersi confrontare con gli educatori, che attualmente sono pochissimi e oberati dalle scartoffie burocratiche, dovrebbero potersi confrontare con gli psicologi, che sono ancora meno e sempre impegnati a tamponare le emergenze, dovrebbero potersi confrontare con i volontari, che rappresentano la società civile che entra in carcere. E il volontariato non dovrebbe essere un "optional", o un comodo succedaneo per le carenze del sistema. Perché i volontari hanno un vantaggio: non fanno parte del sistema, non stilano le "sintesi", quelle relazioni in base alle quali il magistrato di sorveglianza decide se concedere o meno i benefici di legge. Per questo i detenuti parlano con loro più apertamente. Ed è allora che ci può essere un autentico confronto tra chi rappresenta la società e chi le regole di quella società le ha violate. È tramite il confronto che si può far capire a chi, anche se spesso per fondati motivi, si sente una vittima, che le azioni che lo hanno condotto in carcere hanno lasciato delle vittime dietro di sé. È tramite il confronto che si può far comprendere al recluso che, se si vuole essere accettati dalla società, il primo passo è rispettare le regole che la governano e le consentono di funzionare. Ma anche il confronto non basta perché il carcere è compressione. Per cui il rientro nella società civile deve essere graduale e guidato. Altrimenti il rischio è che la persona reclusa, compressa, tarpata per anni, uscendo improvvisamente dal carcere dopo anni esploda. Le cifre di una recente ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono chiare: la recidiva delle persone che hanno scontato la pena fino all’ultimo giorno in carcere è intorno al 70%, mentre tra quelli che hanno potuto usufruire di un rientro in società graduale, guidato e controllato, solo il 19% ritorna a commettere reati. È questa la strada che porta a una riduzione del crimine e a una maggiore sicurezza sociale. I mezzi e le normative già ci sarebbero, basterebbe applicarle. Ma si potrebbe fare ancora meglio se la classe politica facesse sì che il nuovo Codice penale, attualmente allo studio, andasse in questo senso. Un senso che si potrebbe ridurre a un semplice slogan: confronto e rientro graduale. E, fosse per me, farei confrontare tutti i detenuti che si sentono vittime con Matteo, dal quale potrebbero trarre una altissima lezione di vita.
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