L'opinione dei detenuti

 

In carcere ci si uccide molto più di quanto accade nella società libera

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 30 marzo 2009

 

A Jed Zarog, il ragazzo tunisino di appena trent'anni trovato impiccato in cella nella Casa circondariale di via Due Palazzi, la cronaca locale non ha dedicato che poche righe. Jed era incensurato, in attesa di giudizio e pertanto ancora presunto innocente. Per lui erano i primi giorni di galera, un momento di grande sofferenza, in particolar modo per gli stranieri, che non hanno possibilità di supporto da parte dei familiari e nessuna prospettiva di fronte a sé. In carcere ci si uccide molto più di quanto accade nella società libera, ma dietro a ogni numero c'è una storia complessa che non potrà essere più raccontata e quest'impossibilità ci turba profondamente. Per questo abbiamo deciso di parlarne, con la convinzione che solo un carcere aperto, in cui siano sempre garantiti quello scambio e quella partecipazione necessarie a far sì che una persona si senta sempre comunque parte di una comunità, possa costituire almeno un tentativo di risposta.

 

Ma quali patologie? Spesso è la vita da galera che spinge al suicidio

 

In carcere il suicidio è considerato un "evento critico", al pari degli atti di aggressione o delle manifestazioni collettive di protesta, come se la rinuncia alla propria vita meritasse una sanzione disciplinare (e così difatti avviene nel caso rimanga "solo" un tentativo non riuscito) e non, invece, una presa di coscienza del personale di sorveglianza, del personale sanitario e della società della presenza di uno stato di disagio profondo.

L’esperienza di questi anni di carcere mi fa pensare che il suicidio sia spesso un atto lucidissimo. Bisogna infatti imporsi un coraggio estremo per togliersi la vita. E nemmeno penso sia possibile una prevenzione efficace: qualcuno sostiene che prima del suicidio si notino segnali premonitori, qualcun altro, col senno di poi, rammenta di averli scorti ma non capiti nel loro "vero" significato. Fosse così semplice, ogni giorno dovrei segnalare decine di detenuti "sospetti", perché hanno l’umore a terra o perché magari hanno atteso inutilmente un colloquio coi famigliari.

Quello che invece si può fare è tracciare un "quadro clinico" dell’ambiente carcere, che è secondo me il fattore principale di rischio. Gli spazi interni sono così limitati, che il detenuto è ridotto a trascorrere la propria vita, o meglio a essere contenuto, in una cella di piccole dimensioni, privati totalmente di ogni forma di privacy, sorvegliati ogni istante dal proprio compagno (o più di uno visto che in alcune carceri compaiono le brande-letto in cospicue quantità) e dal personale penitenziario di turno, e non so ancora quale delle due situazioni sia la più snervante. All’impoverimento della propria dimensione interiore viene ad aggiungersi un ridimensionamento degli affetti familiari.

Un frustrante senso di impotenza ti attanaglia una volta varcata la soglia del carcere, dove tutto sfugge al tuo controllo: anche la cosa più normale come andare a farsi la doccia, per la quale occorre "chiedere il permesso". E se la prima cosa che si perde entrando in carcere è la libertà, progressivamente viene a dilatarsi anche la percezione del tempo: la giornata del detenuto è fatta con lo stampino, una clonazione continua degli stessi identici movimenti, scanditi da un automatismo da incubo. Oggi saprei raccontare con precisione quello che farò lo stesso giorno dell’anno prossimo, e senza leggere alcun fondo di caffè. Ma, in particolar modo, si ingialliscono sempre più i progetti di vita, per qualcuno cominciano a deformarsi fino a diventare lontani miraggi, e quando la speranza viene a mancare definitivamente, quello che gli specialisti chiamano "evento critico" finisce per apparire come una colonna luminosa in un teatro buio, aggrapparsi alla quale con tutte le forze rimane l’unica risorsa.

 

Vanni Lonardi

 

Si continua a morire nell’indifferenza del mondo

 

Morire a 30 anni in carcere, nella propria solitudine, non riconosciuto come essere umano, nemmeno nella morte, può succedere davvero? Sì è successo, una persona di 30 anni si è suicidata nella Casa circondariale di Padova pochi giorni fa.

Eppure non se ne è saputo quasi nulla, non un accenno nelle televisioni locali, come se il parlarne disturbasse la quiete della collettività.

Non più di un mese fa si è tenuto all’interno della Casa di reclusione di Padova un seminario, promosso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sulla prevenzione dei suicidi, durante il quale lo psichiatra del carcere ha spiegato che nel nostro Paese "l’incidenza del suicidio sulla popolazione in generale è dello 0,5 – 0,7 ogni 10.000 abitanti, e che l’incidenza del suicidio in carcere è circa 20 volte maggiore, secondo le statistiche quindi in carcere si uccidono 10 - 15 persone ogni 10.000".

La direttrice della Casa circondariale, che ha una capienza di 98 posti, ma ospita oggi più di 170 detenuti, ha ricordato che, se già nel periodo in cui non c’era nelle carceri italiane l’attuale sovraffollamento, mancavano mezzi e personale, educatori, psicologi, psichiatri, per affrontare con serietà il problema dei suicidi, attraverso un supporto di prima accoglienza a coloro che fanno il loro ingresso in carcere, oggi "non possiamo nasconderci che nessun modello innovativo di accoglienza è in grado di reggere l’impatto che l’attuale stato di sovraffollamento, e di incremento esponenziale di ingressi sta portando in tutti gli istituti penitenziari italiani".

Abbiamo in questi giorni superato la soglia delle 61.000 presenze nelle carceri, cioè 18.000 in più della capienza regolamentare, a questo si aggiunge che nell’ultimo anno ci sono stati ulteriori tagli alla spesa della giustizia, e che il personale è scarsissimo, lo stress è ai massimi livelli, non ci sono risorse che permettano una seria presa in carico di quei cittadini che entrano in carcere. Ma veramente si vuol discutere di prevenzione? O non è forse il caso di parlare di stato di abbandono e in un certo senso di istigazione all’autolesionismo di quella massa di cittadini che ogni anno varcano la soglia di un carcere?

Certo la crisi economica è grave e colpisce quasi tutti gli strati sociali, e sembra allora che poco importi se muoiono alcuni degli ultimi, e per di più "brutti sporchi e cattivi".

A me personalmente importa, a me importa che una società, per qualsiasi tipo di reato, anche il meno grave sotto il profilo della pericolosità, come il reato di immigrazione clandestina, sia disponibile a riempire sempre di più le carceri, per poi lasciar morire le persone che dovrebbe custodire, a me importa che non ci sia dignità, all’interno delle carceri di un Paese civile, neanche verso la morte, a me pare indecente che un essere umano trovi la morte in un carcere e nell’orrenda solitudine di se stesso.

 

Maurizio Bertani

 

In galera ci si chiede tante volte se valga la pena vivere

 

Quando qualche tempo fa, tornando dalla scuola alla mia cella, ho saputo che uno degli studenti-detenuti ha tentato di suicidarsi e che, non essendoci riuscito perché sono intervenuti altri detenuti a impedirlo, ha subito un richiamo disciplinare, allora ho capito che in galera chi non vuole più vivere non solo sta male, ma viene anche punito per questo.

Mi ritengo una persona forte, sia fisicamente sia di carattere, eppure anch’io qualche anno fa mi sono ritrovato sulla stessa strada. Non era la galera in sé che mi aveva fatto arrivare a una sofferenza così grave, ma sono state invece le condizioni in cui ero stato messo a scontare la pena. Proprio perché a creare queste condizioni aveva contribuito tutto quello che c’è accompagna la perdita della libertà. Da un lato c’era stata una serie di lutti in famiglia, dall’altro il divorzio da mia moglie mi aveva tolto ogni possibilità di vedere i miei figli.

Eppure, mio figlio era sempre stato molto attaccato a me, e non si separava da me nemmeno di notte. Ogni volta che uscivo di casa per lui era una vera tragedia, a tal punto che mi si creava un nodo in gola che poi mi accompagnava tutto il giorno. Purtroppo, un po’ per la lontananza, un po’ per il divorzio, un po’ per l’assenza di colloqui con le persone che più mi erano care, mi sono trovato totalmente solo.

Ero sopraffatto da brutti pensieri, pensavo che non valevo niente per nessuno, ancora meno per i miei figli, non trovavo nessuna speranza in niente, mi sentivo uno che ha fallito in tutto. A un certo punto mi sono convinto che non aveva più senso continuare a vivere. Ho deciso allora che dovevo assolutamente parlare con uno psicologo o uno psichiatra, essendo però in uno stato confusionale non sapevo nemmeno a chi dovevo rivolgermi per spiegare la mia intenzione o per chiedere aiuto.

Ma, come al solito, è successo che nessuno mi ha chiamato e l’attesa dello specialista mi ha in qualche modo dato il tempo necessario per riflettere, e così ho finito per rinunciare ai miei propositi. Quindi, da un lato sono anche contento che nessuno mi ha chiamato, ma non perché non mi sono più suicidato - non so ancora se sia stato un bene non farlo - quanto invece perché, e solo adesso l’ho capito, se avessi comunicato la mia intenzione con molta probabilità sarei incorso anch’io in una sanzione disciplinare, e anche un singolo richiamo qui significa perdere lo sconto di pena di 45 giorni di galera. E questa sarebbe stata una assurdità piccola, ma davvero difficile da accettare.

 

M. G.

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