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I familiari dei detenuti, ovvero vittime innocenti a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 23 marzo 2009
La festa del papà c'è stata anche in carcere, perché un padre detenuto resta comunque un papà, e i reati non cancellano il suo diritto a prendersi cura dei suoi affetti. E forse la società tutta dovrebbe interrogarsi, se oltre a rinchiudere in carcere chi ha violato le leggi, sia anche giusto togliergli di fatto la possibilità di salvare il rapporto con moglie, figli, nipoti. Vogliamo allora continuare a parlare di famigliari dei detenuti, perché sono innocenti, perché sono vittime, e perché avrebbero diritto a spazi e tempi più decenti per coltivare gli affetti con i loro cari reclusi.
Aspettando un colloquio a lungo negato
Faceva già freddo ma i caloriferi non erano ancora accesi nella sala colloqui, quando mia madre venne a trovarmi un anno e mezzo fa. Il visto era di soli dieci giorni, così, per due settimane,ho passato notti insonni per l'emozione, ad aspettare le poche ore di colloquio che ci erano consentite. Oggi ho saputo che, dopo ripetute richieste respinte, alla fine il Consolato italiano ha concesso un visto ai miei genitori per venire in Italia a trovarmi. Sono passate alcune ore da quando ho appreso la notizia, tuttavia sento ancora il cuore gonfiarsi di gioia, anche se devo confessare che la mia felicità è causata per la maggior parte dall’idea che finalmente vedrò mio padre. Mentre mia madre è venuta a trovarmi da poco, mio padre non riesce ad avere un visto da molto tempo, cinque anni, forse sei o sette, anzi credo che sia venuto a trovarmi nel duemilauno. Molto, molto tempo, anche se in carcere sembra così ridicolo misurare il periodo che ci divide dalle persone: quando valuto "poco tempo" i diciotto mesi trascorsi dall’ultima visita di mia madre, mi viene in mente che una volta sono scappato dalla colonia estiva dopo appena una settimana e, di fronte a due genitori sorpresi, ho detto che non potevo stare così a lungo senza di loro, ma adesso mi accorgo che la mia concezione di "tempo lungo" è diventata molto relativa. Di sicuro a mia madre sembra di non vedermi da un'eternità. Così, schiacciata dal bisogno di riabbracciarmi, è andata ripetutamente all’ambasciata italiana di Tirana per implorare di lasciarla venire in Italia a incontrare suo figlio in carcere, ma si è vista rifiutare a lungo questa possibilità. Spinta però dall’urgenza di abbracciarmi per qualche minuto, ha trovato il coraggio per ripresentarsi finché non è riuscita ad ottenere un permesso. Quando i miei verranno a trovarmi, sarà già primavera e nella sala colloqui, per tutto il tempo che il carcere concede, tra un abbraccio e l’altro ci guarderemo a vicenda per capire quanto ci hanno cambiati gli anni e quanto ci hanno segnato le sofferenze; parleremo e ci racconteremo tante cose scoprendo quanto differenti da quello che immaginavamo sono le vite che abbiamo costruito in questi anni, e come le nostre teste hanno seguito strade diverse e come conserviamo ancora parole, sentimenti, rumori, sapori, dolori, felicità e ricordi comuni e lontani. La pelle del viso si accenderà sotto le lacrime, gli abbracci dovranno essere per forza veloci, e lo stomaco si stringerà sussultante dalla paura dell’addio, che ci lascerà il mistero della prossima visita, forse fra poco tempo, o di nuovo fra molto, molto tempo.
Elton Kalica
Vorremmo solo un po' di intimità
Ho vissuto in galera, anche se "a spezzoni", gli ultimi trent'anni della mia vita. Con l’ingresso in carcere, una persona viene a perdere tutti i suoi ruoli naturali, di figlio, di marito e di padre. Mio figlio fin da piccolo mi ha conosciuto nelle sale colloqui delle carceri, era un rapporto basato sul nulla perché nulla si poteva costruire in quella stanza dove, in uno spazio di 80 metri quadri, ti ritrovavi in 10 detenuti con le rispettive famiglie,nella confusione più totale, e tutto questo per un’ora, e senza neppure poter abbracciare mio figlio. In queste condizioni ci provi qualcuno a costruire un minimo di rapporto con i propri figli, o mantenere un rapporto decente con la propria moglie! Mi ritengo fortunato di avere una moglie che si è sacrificata per insegnare a mio figlio chi era suo padre, ma ricordo benissimo il suo volto quando, dopo che aveva compiuto otto anni, abbiamo cominciato a spiegargli come stavano le cose, cioè che io, suo padre, ero in carcere. Allora facevamo dei colloqui in cui non si riusciva nemmeno a parlare per quella mancanza di intimità, che ci toglieva ogni possibilità di rapporto. Il periodo più brutto per mio figlio è stato dai 14 ai 16 anni. Dopo che abbiamo trascorso un’estate insieme, io sono ritornato in carcere, e quei mesi in cui si era instaurato un forte legame tra me e lui sono stati importanti, ma altrettanto devastanti. Nel momento del mio rientro in galera, lui si è trovato doppiamente smarrito: perché ormai aveva la piena consapevolezza di cosa era il carcere, e perché si è ritrovato di nuovo solo ad affrontare un rapporto inesistente nelle sale colloqui. Oggi mio figlio non c’è più, e io maledico ogni giorno di tutti i giorni che non gli sono stato accanto. Mi ha lasciato tre splendidi nipoti, e anche qui devo tutto a mia moglie se mi riconoscono come nonno, ma la realtà è che la storia si ripete, e ancora nonostante sia cambiato millennio ci sono sempre i problemi del secolo scorso, come se il carcere fosse un impero immobile. Non riesco a costruire un rapporto vero con i miei nipoti, i due più grandicelli sono al corrente della situazione, e rivedo in loro lo stesso atteggiamento del padre, un po’ scostante, dovuto alla mancanza di quel minimo di riservatezza nel colloquio che ci permetterebbe di costruire qualcosa insieme. La più piccola invece non è consapevole della situazione, ma lo sarà presto. Questa è ancora la realtà del rapporto che si riesce a costruire all’interno delle carceri italiane fra il cittadino detenuto e i propri figli e nipoti. E se chiediamo di poter mantenere unita la famiglia con una forma di colloquio che abbia qualcosa di umano, di intimo, ci rispondono che non ci sono mezzi, non ci sono spazi, o forse manca la volontà sociale per fare questo. Ma quale civiltà ci può essere in una società che non ha permesso a mio figlio, che non aveva colpe, di avere vent'anni fa un rapporto affettivo con suo padre, e quale civiltà c’è oggi che non permette ai miei nipoti, che non hanno colpe, di costruire un rapporto con il loro nonno? Sono certo di non essere stato un buon padre con mio figlio allora, e attualmente non sono in grado di essere un buon nonno per i miei nipoti, spero solo di avere del tempo per rimediare almeno un po’ con loro.
Maurizio Bertani
Sto provando a restituire ai miei figli l’amore che non ho potuto dargli prima
Mi trovo in carcere da molti anni e probabilmente questa situazione ha stimolato in me una maggior consapevolezza di essere stato sempre un padre assente, e forse di questo non mi sarei accorto in una situazione di normalità, ad esempio se mi fossi allontanato da casa per lavoro. Quando viene a mancare il padre nel nucleo familiare, il modo in cui la moglie affronta questa situazione all'interno della famiglia diventa naturalmente fondamentale. Fino ad oggi io posso solo ringraziare mia moglie, che è riuscita a ridurre il danno irreparabile causato dalla mia improvvisa assenza. Sono quasi dieci anni adesso che lei si sta occupando quotidianamente dei nostri figli e, oltre alle tante preoccupazioni che si deve sobbarcare, fa i colloqui con me per sei ore al mese, tutte quelle consentite in carcere, permettendomi così di instaurare con i nostri figli un rapporto che assomigli in qualche modo a quello di un padre presente, e di questo prezioso lavoro di mediazione di mia moglie oggi posso raccogliere i frutti e dare ai miei figli l’amore che gli è mancato in questi anni. Da quando ho la fortuna di poter usufruire di alcuni giorni di permessi premio in famiglia, ho trovato la nostra casa diversa, nonostante la presenza nei miei cari di un sentimento d'affetto forte, e la loro voglia di riconoscere ancora e nonostante tutto la mia figura paterna. In ogni caso, questi permessi mi danno modo di cominciare una nuova vita insieme, anche se con grandi difficoltà. Ricordo che i primi tempi a volte i miei figli si sbagliavano e mi chiamavano zio. Un giorno è successo che ho rimproverato mia figlia per un comportamento che non mi pareva molto corretto e lei si è ribellata come se la critica le fosse arrivata da un estraneo, e poi, quando abbiamo fatto pace, mi ha confessato di non essere ancora abituata alla mia presenza in casa. Questi sono solo alcuni degli aspetti di questa fatica di recuperare un ruolo in famiglia, ma quello che più mi preoccupa è che vedo nei miei figli tanti disagi psicologici, di comportamento e mentali che hanno una gravità che a volte mi sembra quasi irrimediabile, oltre a quello che i miei familiari subiscono a scuola e nel quartiere in cui vivono, per il solo fatto di avere una persona cara in carcere e oltretutto, peggio ancora, per essere stranieri. Ultimamente poi sono ancora più preoccupato per il futuro della mia famiglia, specialmente perché immaginare i miei figli e mia moglie soli nell’Italia di oggi, con il clima di paura e odio che c'è, mi mette una grande ansia.
Prince Obayangbon
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