L'opinione dei detenuti

 

Il difficile rapporto con il denaro tra chi è dentro e chi è fuori

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 30 luglio 2007

 

Soldi, soldi, soldi: forse non sarebbe male, ogni tanto, fare una riflessione sui soldi, perché è vero che buona parte di chi finisce in carcere lo fa per colpa dei soldi, e delle scorciatoie scelte per averne di più, ma è altrettanto vero che fuori, nel mondo dei "regolari", non ci si accorge neppure di quanto i soldi regolino e condizionino la vita delle persone. In un incontro tra detenuti e studenti di una terza media, qualche tempo fa, abbiamo provato a fare una piccola verifica: su trenta ragazzi, solo uno non aveva il cellulare, ma soprattutto, più della metà aveva un costoso videofonino. Allora, non è facile ragionare, come fanno nelle loro testimonianze alcuni detenuti, sui disastri che possono produrre nella vita delle persone i soldi, se non si tiene in considerazione che il modello dominante oggi è fatto proprio di denaro successo e "immagine".

 

Perdersi nel sogno della ricchezza

 

Ho ventun anni, sto in carcere, e se mi guardo intorno sinceramente penso che tanti reati si fanno solo per guadagnare soldi. Dicono che i soldi non sono tutto nella vita, ma se mancano diventano un problema, e poi per risolverlo si causano altri problemi, e ancora problemi, finché si finisce in galera.

Io sono in carcere per aver ucciso una persona durante una rissa, quindi per un reato che non ha nulla a che fare con i soldi, ma so che avrei anche potuto finirci per questo motivo. Quando ero fuori se c’era qualche "lavoro" da fare non ci pensavo mai due volte, soprattutto se si parlava di guadagnare dei ben soldini. Per me il denaro era la cosa più importante e non prendevo mai in considerazione il rischio che correvo.

Però, quando sono finito in carcere, dopo un po’ di anni sono riuscito a riflettere che quando sei "dentro" non è che con i soldi puoi fare chi sa che cosa, averli o no, hai perso la libertà e basta. Ti rimane la vista a quadrati della finestra con le sbarre, e hai sempre la guardia che ti apre la porta se vuoi andare da qualche parte, ma solo dentro al carcere, naturalmente.

Quando sono in cella spesso penso ai miei genitori e al fatto che persone come loro vivono faticosamente, soltanto lavorando e senza fare reati. Ma poi, se un ragazzo come me ha ambizioni e vuole una vita lussuosa, e trova delle occasioni in cui si cominciano a prendere tanti soldi senza faticare, si perde nel sogno della ricchezza, e pensa di aver risolto i problemi della propria vita. Fino a quando succede di essere beccato e allora si finisce a condurre un altro tipo di vita, molto più problematica di quella precedente. Altro che lusso e ricchezza. Ti ritrovi a dover vivere in spazi ristretti e a volte senza neppure le cose essenziali della vita.

Comunque devo essere sincero: io personalmente fra pochi mesi, quando uscirò di qui e mi troverò fuori a lavorare da mattina a sera e non potrò mai andare a divertirmi in discoteca, temo di non riuscire a dire di no se qualche amico mi offrirà qualche "lavoro" extra. Non so proprio come reagirò, perché, anche se sono stato in carcere e ho visto quanto è dura la perdita della libertà, ho il terrore che, se vedo intorno a me gente piena di soldi, mi lascio tentare e mi dimentico anche della galera.

 

Elvis Prifti

 

Lo stipendio che prendevo non mi bastava mai

 

Se e quanto hanno influito, nella nostra decisione di commettere reati, i soldi è un argomento complicato da affrontare, soprattutto in carcere, perché in questi anni di detenzione ho avuto l’impressione che molte persone detenute tendano a sovrastimare le proprie disponibilità economiche, e credo che con questo atteggiamento, a volte "inconscio", vogliano tentare di "mascherare" quello che è il nostro comune fallimento.

Il ragionamento che ho sentito fare qualche volta è elementare: "Mi sto facendo un sacco di anni di galera, ma qualcosa almeno l’ho ottenuto". Non so quanto questa mia sensazione corrisponda alla realtà, ma quando in carcere ho chiesto di lavorare non è stato "soltanto per passare il tempo, perché io mica ho bisogno di soldi", come è capitato che mi dicesse più di uno, ma per mantenermi e per non dover dipendere dai miei familiari, ed anzi per mandare qualche soldo a mia moglie e alle mie figlie.

I soldi, certamente, sono stati all’origine della mia scelta di commettere reati, anche se all’epoca, nella mia decisione criminale, "giocarono" molte altre componenti. La mia storia è molto complicata, ma voglio provare a sintetizzarla: quasi venti anni fa, facendo rapine, credevo che sarei riuscito a trovare la soluzione ai miei problemi economici.

Poco più che ventenne, mi piacevano la bella vita e le serate in discoteca, mi piaceva fare il brillante e lo stipendio che percepivo, seppur dignitoso, non mi bastava. Inoltre ero in procinto di sposarmi e qualche decina di milioni mi avrebbe fatto comodo. Avrei potuto risolvere il "problema" riducendo le mie pretese di bella vita e rivolgendomi ai miei genitori, una famiglia modesta ma che in qualche modo mi avrebbe sicuramente aiutato, invece, pieno del mio orgoglio – ero oramai un uomo, e quindi me la volevo cavare da solo! – preferii "risolvere" a modo mio.

La prima rapina "filò tutto liscio", mentre la seconda, ai danni di un furgone portavalori, finì tragicamente: una guardia giurata di 22 anni uccisa, e altre tre ferite. Sono passati quasi due decenni, e sto pagando, giuridicamente e penalmente, con una sentenza all’ergastolo, mentre sul piano morale sto scontando una "condanna" altrettanto interminabile e ben più insopportabile: quella con la mia coscienza, che non mi lascia in pace neppure un attimo.

Per non domandare nulla ai miei familiari allora, mi sono poi ritrovato, per i primi sette anni e mezzo di carcere, fino a quando ho cominciato a lavorare, a chiedere loro perfino le 100-200 mila lire al mese per vivere, e per pagarmi gli avvocati, una cifra spropositata, si sono indebitati fino al collo. Ho lasciato loro, ma soprattutto mia moglie e le mie figlie, che all’epoca erano piccole ed ora sono oramai donne, in una situazione economica e sociale della quale mi vergogno profondamente. Inoltre, oltre a loro, nella mia vicenda giudiziaria ci sono anche altre vittime, delle quali non trovo nemmeno il coraggio di parlare… Questo è il "mio" disastroso bilancio.

 

Marino Occhipinti

 

Il carcere, l’arte, la cultura e ciò che non si compra

 

La mia esperienza di pluri-pregiudicato mi fa pensare che tra i fattori che incidono nella scelta di compiere imprese illegali, il cui fine è quello di "sistemarci le tasche", c’è una visione della vita tutta in chiave economica.

Quando io ho cominciato finalmente ad avvertire che, nonostante avessi raggiunto la posizione economica che desideravo, mancava qualcosa nella mia vita, quello che mi ha aiutato è stato il contatto con la musica (mio fratello è un musicista, e io ora ho qualche possibilità di lavoro in questo settore grazie a lui), vedere persone che avevano trascurato il denaro per dedicarsi alla musica. I musicisti professionisti poi mi scioccarono ancor di più, quando mi resi conto che fanno quel che fanno per amore della musica, e solo in seguito viene il guadagno, se viene… Ecco, in quel periodo mi toccò profondamente vedere una vita (la mia) praticamente "votata" al perseguimento di un obiettivo quantificabile in denaro e vedere altre vite che invece avevano una priorità differente di valori. È per questo che oggi sono convinto che, in un percorso di "reinserimento sociale", la cultura e l’arte giocano un ruolo chiave, perché sono stimoli alla riscoperta dei propri valori individuali ed ancor di più spinta alla creatività, intesa come applicazione della fantasia al quotidiano.

La cultura, l’arte, le attività che principalmente il volontariato porta in carcere, sono segnali forti per risvegliare le coscienze addormentate, sono chiavi che aprono le gabbie interiori presenti in ognuno di noi: passare una vita tra dentro e fuori il carcere, ostinarsi a guadagnare nell’unico modo che si ritiene possibile, fuori dalla legalità, mi fa pensare, tra le tante cose, che non ho avuto una gran fantasia.

Per persone come me il ritorno ad una vita "normale" sarà ancora più difficile. Il problema non è semplicemente di reinserirsi nella società, perché nella società noi ci siamo sempre stati, tali e quali come ci stanno tutte quelle persone che vivono la società come un terreno di caccia, che vivono l’altro come sgabello per la propria salita. Il problema è che nella società, intesa invece come realtà di individui liberi che interagiscono tra di loro cercando un giusto equilibrio tra il benessere individuale e quello collettivo, sono parecchi a doversi re-inserire, e la maggior parte non sta in galera.

Certo non esiste una formula per guarire dalla recidività, bisogna però convincersi dell’importanza che hanno cultura ed arte per arrivare a creare libertà interiore, e ancor di più convincersi che è l’uomo libero interiormente che darà maggior spazio alla sua creatività costruttiva, non si sentirà represso, e solo allora probabilmente il suo rapporto con gli altri non sarà caratterizzato unicamente dal concetto di utilità economica.

 

Alessio Guidotti

 

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