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In carcere studiare vuol dire conquistarsi uno spazio di libertà a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 2 novembre 2009
Lo studio per le persone libere è spesso costrizione, in carcere al contrario costituisce una grande forma di libertà, anche se è faticoso, e richiede una concentrazione difficile da raggiungere in luoghi sovraffollati. Chi studia sente di dare un senso alla carcerazione, di riempire il tempo vuoto della galera. Peccato però che per gli stranieri detenuti sia invece impossibile oggi costruire un progetto di vita in questo Paese, a loro una seconda possibilità non viene data mai, nemmeno dopo anni di studio con ottimi risultati.
Un obiettivo per sopravvivere
Dopo qualche settimana dal mio arresto mi son resa conto che avevo bisogno di impiegare seriamente il mio tempo, per non avere la sensazione che in galera il tempo era "buttato via", per non sentire che la mia vita stava scorrendo inutilmente, per dare un senso alla carcerazione. Allora ero però in Baviera, dove non è previsto lo studio in carcere. Ho atteso pazientemente fino al trasferimento in Italia, per potermi iscrivere all’Università. In galera si impara a essere pazienti e ad avere una diversa percezione del tempo, ma avere degli obiettivi da raggiungere è molto importante. Dà un senso alle tue giornate Del resto già dopo il liceo avevo frequentato due anni di Università, senza laurearmi, per cui l’idea di tornare a studiare mi dava la sensazione di portare a termine qualcosa di abbandonato che non avrei avuto il tempo di fare da persona libera. Una sorta di rovesciamento di prospettiva: il carcere come possibilità. Più facile a dirsi che a farsi: provate a concentrarvi per studiare in una stanza dove ci sono altre 10-11 donne che parlano, con il televisore sempre acceso e a volume alto. Alla Giudecca tre stanze sono dedicate ai corsi di scuola elementare, media e superiore, ma anche lì c’è sempre movimento di persone, per cui trovare un po’ di concentrazione è comunque difficile. Tornare sui libri dopo più di vent’anni dall’abbandono dell’Università era una sfida. Tornare sui libri senza vedere né sentire il professore fino al momento dell’esame, da completa autodidatta, non è per niente facile. Tornare a studiare continuando a lavorare, perché alla Giudecca il lavoro non manca e noi donne spesso dal carcere aiutiamo economicamente la famiglia, è dura, anche perché dalle 20.00 si è in cella con le proprie 10-11 compagne. Se poi si aggiunge l’impossibilità di avere un minimo di silenzio e di pace, la difficoltà sembra insormontabile. Ma al primo esame ho meritato trenta e lode ed è stata una iniezione di fiducia in me stessa. Lo studio mi ha dato la possibilità di vivere "un’altra vita" diversa da quella carceraria, dove, attraverso lo studio, andavo in mondi e epoche lontane, di trovare un mio spazio, di tenere allenato il cervello, che spesso in carcere si atrofizza stimolato com’è dal nulla più assoluto. Se l’articolo 27 della Costituzione non venisse continuamente disatteso, e si desse più possibilità alle persone di "rieducarsi", lo studio sarebbe uno dei mezzi più efficaci in questo senso.
Paola M.
In carcere si può studiare per cambiare
Vivere di questi tempi diventa sempre più difficile anche per le nostre famiglie, e sentire i propri cari dire che per arrivare a fine mese bisogna stringere la cinghia, rende ancor più difficile parlare dei problemi della vita in carcere. Tuttavia, credo che si debba provare a far capire alle persone che affrontare la "questione carcere" in una maniera costruttiva contribuisce non solo al cambiamento del detenuto, ma rende anche la società più sicura nel medio e lungo termine. Ci sono molte cose all’interno di un carcere che ridarebbero un vero senso alla pena, tra queste la scuola occupa un ruolo importante, anzi fondamentale nel difficile cammino verso una rieducazione e un reinserimento dei detenuti nella società. Nella Casa di Reclusione di Padova la scuola c’è e, con tutte le fatiche della galera, studiare si può. Sono iscritto al secondo anno dell’Università e da qualche mese mi trovo in una sezione chiamata Polo Universitario. Questo posto è considerato una specie di "isola felice" perché qui possono venire volontari e docenti ad assisterci nel percorso di studio. Avere qualcuno disponibile ad aiutarci è una cosa fondamentale poiché per molti di noi, soprattutto stranieri, chiedere ai famigliari di comprarci i libri, contattare i docenti e concordare le date degli esami sarebbe una impresa impossibile. Per questo ci riteniamo un po’ "privilegiati", ma poi, per sostenere gli esami, la preparazione è spesso faticosa e ci vuole davvero convinzione per andare avanti. Un giorno mi è capitata una cosa che mi ha particolarmente colpito. Ho chiesto a una volontaria di aiutarmi a compilare il mio curriculum vitae. Arrivato alla voce della professione volevo scrivere detenuto – d’altronde qui dentro non ho un impiego lavorativo – ma lei mi ha fermato dicendomi che io, oltre ad essere detenuto, sono anche uno studente, e che quindi avrei dovuto scrivere questo. Potrebbe anche sembrare una conversazione banale, ma le sue parole mi hanno riscaldato il cuore perché in quel momento ho capito che lei non parla con me in qualità di detenuto, ma che mi considera soprattutto una persona, e prima di tutto una persona che studia. Certo non mi dimentico del motivo che mi ha portato qui dentro, ma sono contento che la gente veda qualcosa in me oltre al reato, e se questo è successo, è merito della magia dello studiare. Forse esagero usando la parola magia, ma c’è comunque qualcosa di meraviglioso nell’essere visti come persone normali, anche se solo agli occhi di chi apprezza i miei sforzi per ricostruirmi una nuova vita, fatta di studio e rispetto verso il prossimo.
Gentian Germani
Stranieri detenuti: nemmeno lo studio ci può salvare
Tra celle che si riempiono in fretta e fondi che non arrivano mai, le condizioni di vita nelle galere continuano a peggiorare non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti e gli operatori che qui lavorano. Il sovraffollamento fa crescere la tensione nei rapporti interpersonali, tuttavia nella Casa di reclusione di Padova la situazione è ancora sotto controllo, e questo secondo me grazie alla presenza di una serie di attività didattiche e lavorative che scuola, associazioni e cooperative sociali offrono ai detenuti. Alcuni volontari assistono anche i detenuti che vogliono studiare, e grazie a loro il mio compagno di cella si era iscritto all’università, studiava da autodidatta, e quando si sentiva preparato, sosteneva gli esami. In questo modo ha fatto ventisei esami, ne mancavano solo tre alla laurea, ma nei giorni scorsi ha finito di scontare la sua pena. Qualsiasi altra persona sarebbe stata contenta di riconquistare la libertà, ma la sua felicità era visibilmente avvelenata: la paura dell’espulsione l’ha tormentato fino all’ultimo giorno, anche se io ero sicuro che il suo permesso di soggiorno scaduto poteva essere rinnovato e che avere dei famigliari residenti in Italia e disposti ad accoglierlo l’avrebbe salvato. L’ho incoraggiato a studiare per gli ultimi esami, cosa che ha fatto fino all’ultimo giorno. Solo che, al suo rilascio, ad aspettarlo fuori dal carcere c’era un decreto di espulsione e il volo per l’Albania. Il nostro dispiacere ha contagiato non solo i volontari, ma anche molti operatori del carcere. Lo sapevamo tutti, eppure è sempre doloroso prendere coscienza di quanto sia difficile oggi costruire un progetto di vita in questo Paese. Soprattutto per chi ha sbagliato una volta, non esiste più la possibilità di una seconda chance, anche se si dimostra il proprio cambiamento attraverso forme chiare come il costante impegno nello studio. La speranza è che al mio ex-compagno di cella non venga in mente di tornare clandestinamente per laurearsi poiché succederebbe che, dopo essere stato insignito dalla commissione d’esame del titolo di dottore, verrebbe arrestato e riportato in cella, magari con una condanna abbastanza lunga per prendersi un'altra laurea.
Elton Kalica
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