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La cronaca nera può uccidere le leggi buone, come la Gozzini A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 29 settembre 2008
Un fatto di cronaca nera particolarmente efferato, una informazione frenetica e superficiale, una politica che vuole solo rassicurare e ottenere consensi: è una storia che si ripete ogni giorno e che sta portando, invece che ad affrontare i problemi, a creare le emergenze e poi le leggi per "risolverle". E così, si rischia di buttare a mare leggi buone, come la Gozzini, che hanno reso le carceri un po’ più rispettose dei diritti delle persone che ci vivono e hanno dato a tutti i detenuti e alle loro famiglie la prospettiva di ritornare gradualmente a una vita civile, umana, dignitosa.
La vittoria dello Stato si misura su migliaia di ex detenuti recuperati
In questi giorni le immancabili notizie di cronaca nera gridate da tutti i telegiornali parlano dell’arresto di una persona, evasa un mese fa da una misura alternativa. Uno a cui era stato concesso di lavorare fuori dal carcere durante il giorno e di rientrare in carcere alla sera, e che invece, una sera, dopo il lavoro è sparito nel nulla per finire poi nelle mani dalle forze dell’ordine in un'altra città. Come al solito, giornalisti e politici si sono lanciati a testa bassa contro la legge che prevede queste misure e non hanno risparmiato nemmeno la magistratura, colpevole, secondo loro, di avere esposto la società al pericolo di un criminale in libertà. Il carcere di Padova è considerato dalle istituzioni un carcere migliore di tanti altri proprio perché ci sono una direzione e una magistratura di sorveglianza che credono nel reinserimento graduale del detenuto nella società. Nella cella affianco alla mia c’è un compagno al quale è già stato comunicato che sarà ammesso al lavoro esterno e questa settimana dovrebbe passare al reparto dei semiliberi. Questo evento sta sconvolgendo la sua esistenza poiché, dopo vent’anni di cella, non è facile riabituarsi ai ritmi della vita regolare. Rispettare i tempi per recarsi al lavoro e poi rientrare di corsa in carcere, seguire il tragitto indicato dal giudice e vivere con l’ansia che alla prima infrazione vieni punito duramente non è per nulla facile, e la paura di sbagliare e perdere tutto è grande anche per persone di cinquanta o sessant’anni. Tuttavia le Istituzioni ritengono importante che le persone detenute facciano un periodo di semilibertà proprio per abituarsi alle difficoltà della vita normale e non uscire a fine pena del tutto impreparate ad affrontarle. In undici anni di carcere ho visto centinaia di persone passare al reparto dei semiliberi e quasi tutti, grazie a questa misura, sono riusciti a costruirsi una vita, a creare una famiglia, e quando hanno finito di espiare la pena avevano una casa, un lavoro e dei legami famigliari normali. Se tutto ciò non ci fosse stato, molti di loro sarebbero ritornati a delinquere, e se non l’hanno fatto, è grazie a chi ha dato loro l’opportunità di "allenarsi alla libertà". Quindi la società deve trovare l’onestà intellettuale di ringraziare quei magistrati e direttori che "mettono fuori" le persone in misura alternativa, e non scagliarsi contro solo perché ogni tanto qualcuno prende e scappa o decide di ritornare a delinquere. Tanto, chi fa questo, prima o poi l’avrebbe fatto comunque, ma la vera vittoria dello Stato si misura sulla capacità che le proprie Istituzioni hanno di convincere migliaia di persone a rispettare le regole di questa società e a vivere in armonia con gli altri.
Elton Kalica
Sicurezza e "strategie mediatiche"
Da quando sono stato trasferito al carcere di Padova mi sono accorto che la gente del Nord solo se succede qualche strage scopre, attraverso la televisione, che ci sono interi territori di questo Paese dove lo Stato è assente e a comandare sono i mafiosi. La popolazione qui pensa che gli extracomunitari sono la fonte di tutti i suoi guai e si dimentica che ci sono molte altre cose che non vanno in Italia… Io, che sono albanese, in quindici anni sono stato scaraventato da un carcere all’altro e questo mi ha permesso di conoscere molte realtà di questo Paese e di condividere anche spazi e tempo con parecchi detenuti condannati per camorra. Perciò, adesso che la televisione punta i riflettori sulla strage di Castel Volturno, vedo luoghi e sento storie a me familiari. In quel posto sono tanti che vivono grazie ad attività illecite, però non è detto che siano tutti camorristi. Ma se uno è affiliato o è solo sospettato di essere camorrista, se viene arrestato finisce subito in una sezione di Alta Sicurezza, o in cella di isolamento. I telegiornali continuano a riproporre le immagini di un uomo sospettato di aver fatto parte del commando che ha ucciso sette persone a Castel Volturno, e molti politici hanno dichiarato subito che faranno una legge per impedire che chi è accusato di associazione mafiosa vada agli arresti domiciliari in attesa di giudizio. Il fatto è che già esiste una legge simile e io in tutti questi anni di galera non ho mai visto un mafioso andare agli arresti domiciliari. E allora mi domando se queste dichiarazioni dei politici non siano solo strategie mediatiche per dare una percezione di sicurezza ai cittadini. Sono quindici anni che in Italia, grazie alle leggi emergenziali, sempre più categorie di detenuti si fanno la galera fino all’ultimo giorno. Quindi non c’è bisogno di rendere ancora più dure le leggi. In quei posti dove comanda la camorra non credo serva mandare i militari o minacciare con la galera, tanto anche gli abitanti di quei luoghi, come noi stranieri, finché vivranno nell’abbandono andranno a delinquere. In quei posti bisogna cominciare a far cambiare la mentalità delle persone, ma questo si fa con serietà e dialogo e non con la paura.
Dritan Iberisha
In cella alla ricerca della speranza, che forse se ne va
Non credo i politici sappiano più di tanto com’era la situazione carceraria degli anni Settanta, che i detenuti invece hanno vissuto sulla propria pelle. Sì, i detenuti che di quegli anni ancora portano i segni, anni in cui il carcere era una lotta per la sopravvivenza, anni in cui vigeva la legge del più forte, visto che non c’erano i benefici penitenziari e quindi qualsiasi barlume di speranza era una mera illusione. Poi fu approvata la legge Gozzini, le carceri cominciarono a cambiare, e soprattutto si cominciò a credere ancora in qualcosa. Ma oggi non passa giorno che qualche politico non attacchi questa legge minacciando di limitarne al massimo l’applicazione. Io voglio allora parlare della mia esperienza detentiva, che purtroppo dura dal lontano 1973, quando la Gozzini non c’era. Non ci vuole molto a immaginare il clima che si respirava, visto che per 20 ore al giorno eravamo chiusi in cella, non c’erano scuole né altre attività, il mangiare era pessimo, le violenze all’ordine del giorno. Basta guardare le rivolte che sono successe negli anni Settanta, dove tantissime persone detenute hanno poi preso anni e anni di carcere, a volte solo per difendere un minimo di dignità umana. Sull’ondata del terrorismo, nel 1977 "inaugurarono" le cosiddette carceri speciali, dove venivano rinchiusi tutti i rivoltosi, nonché i brigatisti che venivano arrestati. Si finì col mischiare, e anche agitare, una miscela esplosiva che nel giro di poco tempo si tramutò negli omicidi in carcere, nei sequestri di decine di guardie carcerarie. Moltissimi detenuti "comuni" si ritrovarono nella condizione di perdere ogni speranza, e di commettere reiteratamente reati all’interno degli istituti. Ma le violenze non portarono a nulla di buono, se non a una ulteriore limitazione dei diritti. La legge Gozzini, nel 1986, ha riaperto, anche in queste persone, la speranza di uno squarcio di luce, e ha portato quindi anche a un cambiamento dei detenuti: è stata data loro fiducia, fiducia che in gran parte non hanno tradito, se è vero che soltanto lo 0.24 per cento di chi usufruisce di benefici penitenziari commette reati durante la fruizione degli stessi. A leggere oggi le proposte di modifica della Gozzini mi sono tornati in mente i tanti anni trascorsi nelle carceri speciali: sono un ergastolano detenuto ininterrottamente da oltre 16 anni, e spesso vedo immagini di un passato che spero non torni più, non tanto per me, ma per i tanti giovani che, rinchiusi in carcere con pene lunghissime, e senza alcuna speranza, diventerebbero quanto di più disastroso si possa immaginare. La Gozzini secondo me è stata la migliore cura che si poteva trovare per il recupero di chi ha sbagliato e si trova a scontare una condanna. Lo Stato e la società hanno i mezzi per aiutarci, devono farci sentire uomini vivi, anziché punirci ancor di più con una pena che recide qualsiasi legame dell’uomo colpevole con la società dalla quale proviene, una pena che uccide completamente ogni speranza. Per quanto gravi possano essere le colpe delle quali un uomo si è macchiato, non si può rinunciare per nessuno alla speranza che egli possa veramente riscattarsi e reinserirsi nel contesto sociale dal quale proviene.
Bruno De Matteis
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