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Testimonianze dal carcere, per scalfire qualche certezza A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 24 novembre 2008
Che ne sarà delle carceri italiane fra qualche mese? Oggi sono quasi 58.000 i detenuti nel nostro Paese a fronte di una capienza regolamentare di 43.530, c’è gente che arriva in carceri importanti come quello di Torino e finisce a dormire per terra, la previsione per il 2009 è di superare ogni limite "tollerabile". Eppure, buona parte della popolazione è convinta che va bene così, anzi ci vuole più galera e anche meno "generosità" nel trattare i reclusi. E tutto questo con l’idea che si possa garantire la sicurezza dei cittadini trattando più duramente gli autori di reato. Le testimonianze dal carcere che portiamo hanno un solo scopo, far riflettere e scalfire qualche certezza.
Quel desiderio di essere intransigenti nel punire
In un incontro tra noi detenuti e i ragazzi delle scuole con cui stiamo facendo un percorso di confronto, mi ha particolarmente colpito uno studente diciottenne che ci ha raccontato quello che era appena successo a un suo amico: una rapina in casa, forse per vendetta, durante la quale lui e il padre sono stati riempiti di botte. Mentre ne parlava aveva la voce tremante di rabbia, così deciso, così determinato che non ho potuto fare a meno di intervenire e cercare di spiegargli che comprendevo quel suo stato emotivo, perché anch’io ho vissuto una situazione simile, che purtroppo poi mi ha portato a commettere il reato per cui sono recluso. Facevo l’imprenditore, ho ucciso un uomo per vendetta, so bene che a volte la rabbia ci porta a fare cose che non sono razionali, delle quali poi paghiamo le conseguenze, fra le quali c’è una sofferenza che pian piano ci logora inesorabilmente. Non potevo perdere l’occasione per trasmettere la mia esperienza a quel ragazzo, che per altro ha l’età di mio figlio. Quel giorno lui ha detto che per l’uomo che ha aggredito il suo amico ci vorrebbe la pena di morte. Io ho pensato che la pena di morte forse "risolverebbe" tanti dei problemi che ho provocato. La madre della mia vittima è carica di odio e di dolore, ma se io non ci fossi più forse troverebbe pace dentro di sé; la mia, di madre, mi piangerebbe e poi imparerebbe a convivere con il dolore, a cui subentrerebbe la rassegnazione di non avere più un figlio. Mia moglie, anziché sperare e aspettare, si renderebbe conto che farsi un’altra vita farebbe bene a lei e anche a mio figlio. Ma io ormai, anche se ho capito l’errore che ho fatto e vorrei che tutto questo non fosse mai successo, indietro non posso tornare, quello che mi è concesso fare è vivere tutti i giorni soffrendo un po’ per volta. In molti qui dentro non riusciamo a superare la pena che ci siamo "costruiti" noi stessi con le nostre scelte sbagliate, come è successo a quel trentenne che alla guida dell’auto in stato di ebbrezza ha ucciso una ragazza di sedici anni, è stato condannato a tre anni dal giudice, ma la condanna peggiore è quella che si è inflitto da solo. Si è condannato a morte impiccandosi dopo la scarcerazione. Avendo vissuto una sensazione simile ho capito che la pena inflittagli dal giudice non era niente rispetto al dolore che provava per quella ragazza. È vero, ha bevuto in una sera come tante altre e ha anche guidato come non doveva fare, senza pensare che una serata al bar con gli amici avrebbe causato un disastro così grande. Forse ora che si è autocondannato la società civile avrà capito che comunque non era un mostro, e che la sua sofferenza era vera.
Salvatore Allia
Per difendere la sicurezza non serve il carcere duro
Il carcere è duro sempre, e questo fatichiamo a spiegarlo a chi è convinto che la detenzione nel nostro Paese sia una passeggiata. La privazione della libertà, dell’identità, degli affetti è comunque devastante, lo è ancora di più se le pene vengono espiate a distanza di anni dal momento in cui si sono verificati i fatti, come è successo a tanti di noi, che si sono trovati a combattere con una macchina della Giustizia che ha tempi eterni. Pensare di cambiare un essere umano che ha commesso un reato ed ammesso di aver sbagliato anche gravemente, trattandolo come un cane rabbioso, emarginandolo, mettendo a rischio il suo corpo e la sua mente con forme di tortura anche sofisticate, è una pura illusione. In ogni luogo della terra dove è praticata la tortura, la pena di morte, l’emarginazione dei diversi, succede che la violenza e l’odio crescono nella società fino a divenire incontrollabili anche da interi eserciti schierati nelle strade. In carcere ci sta una popolazione costituita soprattutto da immigrati con problemi di emarginazione ed ignoranza delle nostre leggi e italiani normalissimi fino al giorno in cui hanno commesso un reato, magari a danno di un loro familiare, di un amico, di un vicino di casa. Servirebbe cancellarne l’identità e la dignità per restituire poi alle famiglie persone disastrate che odiano tutto e tutti, che hanno imparato a usare la violenza per sopravvivere invece di imparare a responsabilizzarsi e a rispettare se stessi e gli altri? Il carcere duro io l’ho provato e con me molti altri detenuti. Rende rabbiosi, schizofrenici, pericolosi per se stessi, per gli altri e per le proprie famiglie, costringe a vivere chiusi in un vortice di odio e violenza che non si spezza mai. Credo invece che rendere il carcere più umano per tutti renda la società sicuramente più forte. Non serve produrre violenza ed emarginazione irrigidendo un regime carcerario già al collasso, che spende in tutto poco più di due euro al giorno per i pasti di ogni detenuto, da consumarsi in tre metri quadri di cella. Negare tutti quei diritti che non si dovrebbero perdere con la pena significa solo produrre rancore, trasformare i colpevoli in vittime. Noi quando usciremo da qui avremo bisogno di essere avviati verso percorsi di legalità, di rispetto di noi stessi e del prossimo. Solo un lavoro dignitoso e un’accoglienza decente migliorano le persone, le rendono più umane, più sensibili alle richieste degli altri. Restituire alla società bestie feroci dopo venti o trent’anni di carcere è un danno irreparabile, riflettere prima su questi temi è utile per pensare a un’idea diversa di sicurezza.
Daniele Barosco
Vogliono ripristinare leggi punitive abrogate
Siamo un paese che ha depenalizzato nel 1999 il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, previsto dal Codice penale Rocco, emanato in pieno regime fascista. Non avendo più leggi punitive da inventare, stiamo per ripristinare quelle che democraticamente abbiamo abrogato: ci sono ben otto proposte di legge, che prevedono da sei mesi a due anni di carcere per chi offende l’onore o il prestigio di un pubblico ufficiale. È preoccupante che una norma penale considerata obsoleta 10 anni fa, oggi diventi quasi un’emergenza. Come detenuto questa possibilità di ripristino del reato di oltraggio a pubblico ufficiale mi preoccupa. È comunque una norma difficilmente applicabile, se l’oltraggio è commesso da un cittadino libero, perché è un reato minore, quindi se consideriamo che in Italia circa 200.000 reati all’anno vengono avviati alla prescrizione, questa fattispecie di reato è destinata a finire così. Nelle carceri già oggi l’oltraggio è punibile con un rapporto disciplinare, che fa perdere al detenuto uno sconto di pena di 45 giorni. Ma incappare in un procedimento penale per oltraggio a pubblico ufficiale equivale a una condanna quasi certa, credo non ci sia modo di difendersi in nessuna aula di Tribunale, basta la parola del pubblico ufficiale offeso per essere condannati. Le carceri sono destinate a breve a superare il limite che ha provocato la concessione dell’indulto nel 2006, ma non ne concederanno certo un altro. Difficilmente potranno aprire vecchie carceri e costruirne di nuove, perché poi mancherebbe il personale, e l’economia italiana non è così florida da permettere nuove assunzioni. Nel frattempo i posti branda sono già stati aumentati oltre ogni decenza. L’unica legge che produrrebbe un deflusso graduale di una parte della popolazione detenuta è la Gozzini, che prevede i benefici penitenziari, ma oggi è semiparalizzata, sempre meno detenuti riescono a uscire prima dal carcere per fare un percorso graduale di reinserimento. Come si pensa allora di tenere sotto controllo le carceri? Temo con la repressione, con la paura di un peggioramento della propria vita: e là dove ieri si doveva vivere in due, domani si vivrà in tre, e si dovrà stare attenti a non offendere chi ti deve tenere in queste condizioni, perché altrimenti si incapperà nel reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Di contro il personale di polizia penitenziaria si troverà costretto a turni massacranti, allora quale sarà il risultato? Quante denunce per oltraggio saranno provocate da questa situazione? Mi ricordo che da bambino, quando mia mamma mi dava qualche scapaccione, mi vendicavo sul suo barboncino, prendendolo a calci nel fondo schiena, sicuramente ero un bambino un po’ stupido per prendermela con un cagnolino, e me ne rammarico molto. Oggi ho una brutta impressione, e spero tanto di sbagliarmi, perché mi dispiacerebbe fare la fine del barboncino di mia mamma.
Maurizio Bertani
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