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Chi è stato condannato per avere ucciso ha diritto di parlare pubblicamente? A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 20 marzo 2006
"Nel vostro sito ho trovato anche articoli scritti da detenuti condannati per avere ucciso delle persone". Un nostro lettore ci ha mandato un messaggio, che solleva un problema molto "pesante": se chi ha commesso reati di sangue abbia diritto o meno di parlare in pubblico "da persona libera". La prima considerazione che ci è venuta da fare è che il carcere ti impone di eliminare le semplificazioni e di accettare la complessità delle cose. Per esempio, succede che le persone che una volta nella loro vita hanno ucciso siano anche molto spesso persone sensibili e consapevoli: il male infatti non è così facile da classificare, da inquadrare, sarebbe tutto più semplice se ci fossero dei "mostri" e dei normali cittadini. Invece ci sono persone che hanno passato i limiti per una progressiva perdita di contatto con la realtà, o perché hanno sviluppato un atteggiamento patologico verso chi le ha fatte in qualche modo soffrire, o per mille altri motivi, non così facilmente comprensibili. Non c’è da parte nostra nessun atteggiamento "giustificatorio" nei loro confronti, ci preme solo che si capisca che i giudizi sommari non servono a nulla, se non ad appiattire la realtà e a impedirci di capirne le sfumature. Pubblichiamo allora il messaggio di questo lettore, e poi la risposta di due delle persone alle quali lui non riconosce il diritto di parlare in pubblico, anche se forse qualcosa, nelle sue convinzioni, è cambiato proprio dopo aver letto alcune testimonianze nel sito. Noi non abbiamo nessuna ricetta in tasca, siamo assolutamente consapevoli che è un tema delicato, però pensiamo che valga la pena mettere tutto il coraggio possibile nell’affrontare, in carcere e fuori, una discussione così complessa.
Chi è stato condannato per avere ucciso ha diritto di parlare pubblicamente?
Salve, per caso sono entrato nel vostro sito, cercando la legge sulle cooperative sociali tramite un motore di ricerca. Ho letto con interesse delle iniziative per dare lavoro ai detenuti. Tempo fa mi fu chiesto (da una assistente sociale) se ero disposto ad assumere un detenuto (ho una piccola azienda meccanica) e risposi che non me la sentivo, pur rassicurato che quel detenuto sapeva fare il lavoro. Avevo un po’ paura, anche perché avevo chiesto per quale reato era stato condannato e non me l’avevano voluto dire, così immaginavo che avesse fatto cose molto gravi. Nel vostro sito ho trovato anche articoli scritti da detenuti condannati per avere ucciso delle persone. Da una parte penso che non dovreste permettergli di parlare pubblicamente, però penso anche che scrivono cose importanti, per se stessi e per chi li legge. A me questa cosa mi ha fatto pensare, mettendo in crisi l’opinione che avevo del carcere. E vi ringrazio di aver fatto questo. Vi dirò se ho cambiato questa opinione.
Riccardo
In carcere non sono rinchiusi reati, ma persone
Caro Riccardo, posso assicurarti che a molte persone detenute per fatti di sangue non solo viene impedito di parlare pubblicamente, ma di parlare tout court. Personalmente ho trascorso undici mesi in isolamento e ti assicuro che, quando esci da un’esperienza del genere, devi reimparare ad articolare le parole. Lo stesso, mese più mese meno, è capitato a molti miei compagni di prigionia. Non è certo mia intenzione sottovalutare le tue idee, che sappiamo essere largamente condivise da gran parte dell’opinione pubblica. Anzi, siamo rimasti molto colpiti dall’onestà del tuo messaggio, nel quale dichiari anche che abbiamo messo in crisi l’opinione che avevi del carcere. Senza che tu me ne voglia, vorrei aprire un’ulteriore crepa nelle tue certezze. Dopo aver letto il mio esordio, forse ti sarà venuto da pensare che quegli undici mesi di silenzioso isolamento siano stati per me una punizione insopportabile. Invece no. Per quanto possa sembrarti paradossale, per me l’isolamento ha significato protezione. E non parlo di protezione fisica. Chiuso da solo nella mia celletta mi sono sentito al sicuro da un confronto con la società, della quale avevo infranto la più sacra delle regole, che non avrei mai potuto reggere. In quel momento non sarei riuscito a stare di fronte nemmeno alle persone che mi conoscevano e che erano pronte a capirmi. La peggiore punizione che il magistrato avrebbe potuto comminarmi sarebbe stata quella di mandarmi a piede libero in attesa del processo. Non credo che avrei resistito in mezzo alla gente. Invece il carcere e, soprattutto, l’isolamento mi hanno concesso quel tanto di protezione che mi ha permesso di fare i conti con l’enormità che avevo commesso in modo graduale, di rimettere insieme i pezzi senza ulteriori e devastanti traumi. Un concetto però deve essere ben chiaro: per chi è rinchiuso in carcere, tanto più per chi è detenuto per fatti di sangue, esporsi pubblicamente non è una scelta facile, né scontata. È un passo che spesso richiede lunghi periodi di riflessione, perché la cosa più semplice, più sicura, più "naturale" sarebbe di restarsene nell’ombra, sperando che prima o poi il mondo, e le famiglie delle vittime, si dimentichino di noi e di quello che abbiamo fatto. Se usciamo allo scoperto, se ci mettiamo in gioco esponendoci a critiche legittime come la tua è solo perché siamo convinti che, parlando di una cosa che conosciamo bene e dall’interno, rendiamo in qualche modo un servizio alla società. Riguardo invece i tuoi timori, vorrei dirti che, contrariamente alle opinioni più diffuse, la grande maggioranza dei detenuti per omicidio sono persone che avevano un lavoro e una vita normali e che non avevano mai commesso altri reati. Persone che in un momento della loro vita non sono riuscite a tenere sotto controllo la loro aggressività, la loro rabbia, e hanno ucciso qualcuno: la moglie, il marito violento, il socio di affari che li aveva derubati. E poi, oltre a sopportare per il resto dell’esistenza il rimorso di quello che hanno fatto, spesso si trovano a scontare pene pesantissime perché, non appartenendo al mondo criminale, non hanno nulla di cui "pentirsi" in senso giuridico, nulla da barattare in cambio di condanne più lievi, e vengono sottoposti alle stesse normative d’emergenza escogitate contro la mafia. Non hanno bottini nascosti, per cui perdono tutto ciò che possiedono. Trascorrono decine di anni dietro le sbarre e l’unica cosa che sognano è di poter di nuovo fare una vita "normale", guadagnandosi il pane con il lavoro.
Graziano Scialpi
Come al solito, delle migliaia di detenuti che rigano dritto nessuno parla
Gentilissimo Riccardo, quando abbiamo letto il tuo messaggio, mai avrei pensato di riuscire a prendere carta e penna per scriverti. Penso infatti di essere il meno indicato a farlo, perché appartengo alla categoria di persone alle quali tu, come primo impatto, toglieresti il diritto di parola. Una reazione più che giustificata, la tua. Ci mancherebbe. La reazione del 95 per cento delle persone libere, e forse sono stato ottimista. Ma il tuo messaggio è tutt’altro che una porta chiusa in faccia, e anzi sembra cercare comunque un confronto, confermando così la validità del nostro lavoro per costruire un "ponte" efficace con il mondo esterno. All’interno di questo carcere, con altre 10 persone, lavoro da oltre due anni alle dipendenze della cooperativa sociale "Giotto" di Padova: produciamo manichini in cartapesta. Un lavoro che mi fa sentire una persona "normale", che mi restituisce dignità, che mi consente di essere di aiuto alla mia famiglia: una moglie e due figlie che certamente non hanno commesso nulla. Come del resto i familiari di quasi tutti i detenuti, costretti a pagare con una vita comunque mutilata colpe non loro. Ricordo sempre le parole pronunciate il primo giorno dal mio "capo cantiere", il responsabile esterno della cooperativa: "Non voglio sapere nulla della tua vicenda giudiziaria, voglio solamente che tu sia un buon lavoratore, che ti impegni…". Sono certo di non averlo deluso. Con lui parliamo delle rispettive famiglie, dei figli, dei problemi quotidiani. Miei e suoi. Fuori, in una situazione normale, saremmo ottimi amici. Perché da parte sua non ci sono pregiudizi. Tra permessi e misure alternative, dalle tante carceri italiane escono ogni mattina alcune migliaia di persone. Lavorano, molti anzi lavorano sodo. Si comportano bene e ogni sera rientrano puntuali in galera. Delle migliaia che rigano diritto però ovviamente nessuno parla, mentre se un detenuto soltanto "ci ricasca" i titoloni si sprecano. è evidente, perciò, che da fuori si abbia una visione deformata - e indiscriminatamente negativa - dei detenuti, e della loro capacità-volontà di cominciare a reinserirsi nella vita "regolare" usufruendo in maniera intelligente e costruttiva delle aperture di credito che gli vengono offerte dalla legge. La percentuale dei "fallimenti" in questi percorsi di reinserimento è molto bassa. E nella maggioranza dei casi i fallimenti non dipendono dalla commissione di nuovi reati, ma dalla violazione di prescrizioni, quelle regole che spesso farebbe fatica a rispettare anche una persona "regolare", che ha sempre filato dritto. Figurati una che ha alle proprie spalle una vita sbandata... Voglio allora concludere rivolgendoti un appello: ti capitasse ancora, in futuro, di dover scegliere se assumerlo o no, un detenuto, fai un atto di coraggio e dagli fiducia: assumilo. In carcere ci sono molte persone che meritano una seconda chance, credimi. E più la tua accettazione sarà convinta, tanto più alte saranno le possibilità di successo. Perché - ma questo vale anche per i cittadini liberi - non c’è cosa peggiore della diffidenza e del rifiuto.
Marino Occhipinti
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