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Lettera aperta dal carcere a Giuliano Zincone... In risposta all’articolo: "La gabbia": due platee nel carcere di Rebibbia
Stefano Bentivogli - Redazione di Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2004
Egregio Dottor Zincone, ho letto il suo articolo sul Corriere della Sera a proposito dello spettacolo teatrale "La Gabbia" di Salierno, presentato nel carcere di Rebibbia. Sono contento che tutti i suoi luoghi comuni su chi sta in carcere siano franati e che abbia scoperto qualcosa che non immaginava. È giusto abbattere definitivamente quell’immagine "poverina" del criminale dietro le sbarre che si pente e piange il suo dolore per gli sbagli commessi. La realtà è un po’ più variegata e complessa e però supera sicuramente anche quello che lei ha percepito dai testi messi in scena e dai contributi della platea di detenuti presenti allo spettacolo. Le lascio qualche pensiero per stimolarla a continuare a riflettere. I cattivi non sono tutti in gabbia o perseguitati dalla legge, fuori non sono poi tutti così buoni, in carcere non sono tutti irriducibili e arroganti. Certo, chi conosce bene il carcere sa che oggi è un concentrato di emarginazione e disagio sociale più che di cattiveria e non è spesso quel disagio poverino che chiede pietà, che si pente, talvolta è quasi impresentabile a chi vuole compatire. C’è anche gente – pochi – che apparentemente tanto disagiati non sono, hanno soldi, famiglie, potere. Ognuno di loro resta comunque una persona con una storia umana, bella o brutta che sia. Forse abbattere tutti i luoghi comuni e superare una concezione manichea dell’animo umano è l’unico sistema per arrivare alla conoscenza e mantenersi nella direzione della verità. A lei, che dell’informazione è un professionista, chiedo un po’ più di pazienza nel cammino per farsi un’opinione sui detenuti e un po’ di prudenza, perché è facile passare da un luogo comune ad un altro e continuare a capirci poco. Gli stereotipi presi acriticamente sono delle gabbie pericolose per chi è fuori come per chi è dentro il carcere. Giuliano Zincone: "La gabbia", due platee nel carcere di Rebibbia
Corriere della Sera, 19 dicembre 2004
Nel carcere romano di Rebibbia si recita La gabbia, testo del sociologo Giulio Salierno, grande esperto di galere non soltanto perché le ha studiate, ma soprattutto perché c’è stato. La platea è divisa in due ranghi. Davanti siedono gli ospiti innocenti, dietro ci sono circa 300 detenuti. Dal palcoscenico, gli attori vomitano monologhi scandalosi e violentissimi contro il sistema penitenziario. I galeotti applaudono ("Brava, hai detto la verità!"), sotto gli sguardi impassibili delle guardie. L’atmosfera è surreale, anzi surrealista. Tutta la forza di questa recita è nella sua "crudeltà" intellettuale: quando si esce dal teatro/carcere, non sarà più possibile riposarsi nelle vecchie convinzioni, non si potrà più credere ai maestri di pensiero che descrivono la società non come è, ma come la vorrebbero. Perché le testimonianze, tutte vere, di questo spettacolo, rovesciano radicalmente i luoghi comuni che imbozzolano le storie dei delinquenti. Innanzitutto, nessuno dei protagonisti criminali si pente di ciò che ha fatto. I più, anzi, se ne vantano. Ecco il mafioso che rivendica l’utilità sociale delle sue imprese: "Creavo ricchezza, davo lavoro, fornivo alle persone perbene i servizi che loro si vergognano di gestire". Ed ecco il camorrista innamorato di Cutolo, che "ha creato una comunità, una famiglia, un reddito sicuro per migliaia di giovani". Ovviamente il reddito non è affatto sicuro e la vita dei "guagliun ‘e malavita" è rischiosissima, come dimostrano le cronache recenti. E lo spettacolo va avanti: pugni nello stomaco per l’ ospite innocente. C’è il killer professionista che non prova alcuna emozione, quando ammazza uno sconosciuto. Freddo come lui è il rivoluzionario sudamericano, che finanzia la sua banda guerrigliera con i sequestri di persona. Parlano due donne. Una è criminale, l’altra è soltanto puttana. La prima canta la propria gioia, quando impugna la pistola per fare una rapina. Questo sentimento di potenza, grida, è più forte di un orgasmo. La seconda, albanese, sostiene che col suo lavoro mantiene anche noi italiani. Perché? Perché lei e le sue colleghe sono cinquemila e mandano in patria milioni di euro ogni anno. Così contribuiscono alla rinascita economica del loro Paese, con una cifra che, a quanto pare, è il doppio di quel che l’Italia investe per la Cooperazione allo sviluppo. La prostituta, insomma, contribuisce a farci risparmiare. Ed è felicissima del suo mestiere, perché può guadagnare fino a mille euro al giorno, mentre le operaie albanesi ne prendono cento al mese, quando va bene. La platea degli innocenti incassa queste raffiche, stupefatta e ferita. I carcerati applaudono, lieti di sentir proclamata la normalità del crimine insieme con l’orgoglio della devianza. La galera e l’astinenza, nel frattempo, li hanno imbalsamati. Se appare una donna sul proscenio, sghignazzano e commentano come i loro coetanei degli anni Cinquanta, quando ogni branco di maschi si sentiva obbligato a ostentare la propria virilità repressa. "Io non sono cattiva", recita una signorina al proscenio. "No, tu nun sei cattiva, sei bbona", risponde subito un recluso. Fuori, in una qualsiasi via del Corso, passeggiano centinaia di minigonne generose. E nessuno si volta a guardarle.
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