|
Nelle famiglie è una ferita che non si rimargina mai a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 1 febbraio 2010
Cosa succede nelle famiglie sulle quali si abbatte il dolore di una persona cara che finisce in carcere? È un tale trauma la galera nella vita di una famiglia, che non ci sono comportamenti e reazioni standard, ci sono padri che non vorrebbero perdonare i figli finiti dentro, madri che li convincono a varcare i cancelli del carcere, figli fuori che non vogliono più vedere un genitore e altri figli ancora che invece un genitore in carcere non lo abbandonerebbero mai. Ma quello che avvicina tutti è una condizione comune, sono davvero anche loro vittime.
Il diritto negato di avere un padre
Dal momento che ho deciso di fare un certo tipo di vita, la scelta di vie illegali per avere più soldi che mi ha poi portato in carcere, posso dire di non essere stato sicuramente presente come genitore. Con un senso di rimorso mi rendo quindi conto che ho privato i miei figli del loro sacrosanto diritto di avere un padre. Se si decide di mettere al mondo dei figli si dovrebbe avere anche la consapevolezza che i figli vanno seguiti in una certa maniera e che inevitabilmente le nostre scelte ricadono su di loro. Io scrivo ai miei figli tre volte alla settimana, ma per quanto cerchi di essere più presente con le telefonate o in altro modo, non posso prescindere dagli errori che ho commesso e che mi hanno portato qui, per cui nei loro confronti mi sento di essere veramente colpevole. Per quanto amore un detenuto riesca a dare, penso non possa mai prescindere dal fatto che i suoi figli devono sottoporsi all’umiliazione dei colloqui per andare a trovare il proprio padre. I nostri figli non possono non sentirsi abbandonati e questa è una realtà che qualunque nostro comportamento, anche il migliore, le attenzioni, l’amore che gli diamo non possono cancellare. A me non è capitata una malattia, non è successa una disgrazia rispetto alla quale non potevo far niente, io ho scelto di fare un certo tipo di vita, ho preferito mettere davanti il mio «stile di vita» al diritto di mio figlio di avermi accanto e di conseguenza ho messo a repentaglio la sua serenità e il suo futuro. Noi possiamo parlare dei massimi sistemi ai nostri figli, possiamo scrivere, possiamo telefonare, possiamo fare salti mortali, però un figlio impara dal nostro esempio e desidera solo che un padre la sera torni a casa, che la mattina si alzi e vada a lavorare e comunque che ci sia e sia presente. Se avessi voluto veramente il bene di mio figlio mi sarei comportato come mio padre, che ha fatto anche due lavori per mandare avanti la famiglia.
Oddone S.
Un nipotino visto solo quattro volte
Mi chiamo Veronica e sono figlia di un uomo detenuto. Ho scritto «un uomo» perché per me mio padre è prima di ogni cosa «uomo» e poi «detenuto». È in carcere dal 1993, io non avevo ancora compiuto dieci anni e purtroppo ricordo quella notte come se fosse ieri. È stato detenuto a Livorno, Voghera, Taranto ed anche a Lecce, che è la nostra città natale, dove ha studiato e si è diplomato con buoni voti ed in più ha lavorato. Quando era qui a Lecce era tutto diverso, perché potevamo vederlo ogni settimana e mantenere vivo l’affetto, la voglia di baci e carezze, aspettando con ansia che arrivasse il mercoledì, giorno di colloquio. Anche quando era lontano andavamo a fare colloquio, ma non spesso. Allora non capivo, sapevo solo che stavamo andando da papà ed ero felice. Oggi ho 26 anni e sono una donna, mio malgrado cresciuta troppo in fretta. Tutte le umiliazioni subite in questi anni entrando nelle varie carceri preferisco non ricordarle. Da qualche anno mio padre si trova nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta, e da quando è li è iniziata la tragedia. Riesco a fare colloquio massimo due volte all’anno ed ogni volta che andiamo è una sofferenza, perché la strada è brutta ed è un paese sperduto in mezzo alle colline, quando è inverno poi diventa tutto più difficile. Lui non vuole che andiamo perché si preoccupa, ma posso stare un anno senza vederlo? Oggi sono grande, sono diventata mamma. Ho un bimbo di due anni e sono in attesa di un altro maschietto che, Dio volendo, nascerà in questo mese di febbraio. Mio padre della mia prima gravidanza ha di me solo foto e non mi ha vista di persona con il pancione. Di questo ho molto sofferto ed anche lui, perciò con la seconda gravidanza ho deciso che doveva vedermi a tutti i costi e così a settembre sono andata a trovarlo con il bambino e con la pancia già bella evidente. È stata una fatica in più, ma sono contenta che almeno mi ha vista incinta. Mio padre ha visto il mio primo figlio Marco quattro volte da quando è nato e giustamente il bambino, non conoscendo il nonno, ogni volta piange e non sta buono durante il colloquio. Adesso che è più grande però parla con lui il sabato durante la telefonata settimanale. Considerato che è detenuto da quasi 17 anni e ha un fine pena mai, e che chissà quando riuscirà ad avere i primi permessi, mi piacerebbe almeno che continuasse a scontare la sua pena in piena serenità, in un carcere decente come quello di Padova, e non in un posto come quello dove è ora.
Veronica
Tra le mie vittime anche i familiari
Una persona tossicodipendente non è la sola vittima del suo stato, ci sono anche le vittime dei suoi comportamenti e stili di vita più o meno sballati. Tra le mie vittime c’è la mia famiglia prima di tutto. Anch’io ho avuto una famiglia che mi ha voluto bene, madre, padre e una sorella. Io ero il più piccolo ed anche il più testardo e ingestibile, così cominciai a lasciar perdere lo studio, la parrocchia e lo sport, avviandomi verso il lento, ma inesorabile percorso dello sballo e dell’eccesso. La mia famiglia, più o meno consapevolmente, si ritrovò vittima del proprio figlio/fratello tossicodipendente. Un disastro completo, per loro. Perché un adolescente che a 15 anni «si fa» di droga è e sarà un flagello, perché getta la propria famiglia in uno stato di drammatica impotenza. In casa nel giro di qualche anno non potevano più tener nulla che avesse valore. Credo che oltre all’umiliazione di venirmi a trovare in carcere, si siano dovuti scontrare con un fallimento affettivo/famigliare/educativo per loro squassante. Nel corso di trent’anni, anche se i miei genitori si sono divisi e mia sorella a periodi alterni non ne ha più voluto sapere di me, mio padre ha cercato di accogliermi nella casa dove viveva con la sua nuova compagna, ma io li ho fatti letteralmente diventare matti, al punto che più di una volta mi sono chiesto dove reperissero la pazienza per starmi dietro. Mia madre per 22 anni ha cercato d’aiutarmi e seguirmi nel mio peregrinare tra carceri e comunità. Mi ha buttato fuori di casa più di una volta, ma poi mi accompagnava ai colloqui con le varie comunità, cercando di coinvolgere forzatamente anche mio padre e mia sorella. Pazientemente ha girato l’Italia per cercare di farmi uscire dalla droga. Io almeno sono il colpevole principale, ma loro si son ritrovati nel mezzo di un uragano che gli ha sconvolto la vita.
Filippo F.
|